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«Mi scuso con i messicani perché noi, Stati Uniti, abbiamo deliberatamente reindirizzato il trasporto di droga nel nostro Paese fuori dalle rotte aeree e marittime e, da allora, questo trasporto si è sviluppato via terra». Non è un dialogo tratto da House of Cards, ma la dichiarazione di un ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, che ha pronunciato queste parole a Città del Messico, davanti a una platea di giovani in un convegno organizzato della rete Laureate International Universities.

La “confessione” di chi è stato per dieci anni alla Casa Bianca, riportate in Italia soltanto dall’Almanacco Latinoamericano, spiega diverse cose. Anzitutto le ragioni del cambiamento epocale che, negli anni ’90, si è verificato nella storia del narcotraffico tra Sudamerica e USA.

Fino a quel decennio, la cocaina entrava in Florida tramite una vera e propria flottiglia di navi e di piccoli aerei che, dalla Colombia, facevano scalo in Belize o in qualche isoletta caraibica prima di atterrare o ancorare vicino a Miami: città che era diventata la capitale mondiale del narcotraffico. Qui non solo transitava la pioggia di polvere bianca che si riversava nel resto del Paese, ma si riciclavano anche i soldi sporchi investendoli nell’edilizia e foraggiando il sistema bancario locale, in larga misura connivente. Una rete controllata dai “cartelli” dell’epoca, rigorosamente colombiani: prima di Medellín e poi di Cali.

Senza troppa pubblicità, a un certo punto negli Stati Uniti viene decretato il blocco navale e aereo, e il traffico si sposta per la prima volta via terra. Proprio a questo punto entra in scena il Messico: uno storico produttore ed esportatore di marijuana che all’improvviso si specializza in eroina, di origine locale, e monopolizza il transito della cocaina. Sorgono così sei cartelli della droga che presto estromettono i colombiani dagli USA, il primo mercato mondiale degli stupefacenti, e successivamente riescono anche a piegare lo Stato messicano, arrivando a controllare buona parte del territorio nazionale.

A favorire l’operazione è l’entrata in vigore del NAFTA, l’accordo di libero scambio tra USA, Canada e Messico, che aprì un’autostrada ai cartelli messicani.

Il resto è storia contemporanea. 70mila morti nella guerra tra Stato e mafie, l’allargamento degli affari dei narcos alla gestione del traffico dei clandestini e dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici, la loro ascesa inarrestabile nell’establishment economico e politico messicano.

Oggi sotto il confine tra Messico e Stati Uniti corre un reticolo di tunnel scavato per trasportare merci illecite. Ma la droga non si muove solo nel sottosuolo: ogni anno la frontiera è attraversata da circa due milioni di camion, solo un’infima parte dei quali viene controllata. Il NAFTA non ha solo allentato i controlli al confine ma ha anche avuto l’effetto di distruggere la piccola e media agricoltura messicana, liberando terre e braccia per i mercanti di morte.

La guerra globale alla droga dichiarata dagli USA costa 50 miliardi di dollari all’anno alle casse pubbliche, eppure si è dimostrata un fallimento su tutta la linea. Oggi si comincia a parlare di liberalizzazione delle droghe leggere, con le prime aperture fatte nello Stato del Colorado, ma rimane il nodo delle droghe pesanti, vera e propria cassaforte della malavita organizzata e della rete di corruzione che si annida in entrambi i Paesi coinvolti. La confessione di Bill Clinton, a distanza di 20 anni, ci dice che non ci fu la volontà politica di eliminare il traffico internazionale ma solo di “gestirlo”, spostandone le rotte all’interno dell’area di libero commercio con il Messico: come se la droga fosse una merce come le altre, come se fosse gestibile. Alla luce di questa ammissione andrà riscritta l’intera storia del narcotraffico internazionale.

Per i messicani il prezzo è stato devastante: se le cose sono andate così, e non ci sono motivi per non crederlo, le scuse non bastano.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

A member of the citizens' Self-Protection Police guards at the Municipal Palace of Nueva Italia community in Michoacan State, Mexico, on January 12, 2014. The Mexican government deployed hundreds of forces after several attacks to the federal policemen occurred in villages of western Michoacan state. AFP PHOTO / ALFREDO ESTRELLA

A member of the citizens’ Self-Protection Police guards at the Municipal Palace of Nueva Italia community in Michoacan State, Mexico, on January 12, 2014. The Mexican government deployed hundreds of forces after several attacks to the federal policemen occurred in villages of western Michoacan state. AFP PHOTO / ALFREDO ESTRELLA

La Via della Seta, quel dedalo di rotte terrestri, marittime e fluviali lungo 8.000 km che dal II secolo dopo Cristo collegava l’Impero Romano con la Cina, fa parte della storia antica dell’umanità. Vie carovaniere che attraversavano l’Asia Centrale e il Medio Oriente, con diramazioni verso nord (Corea) e sud (India) e che Marco Polo percorse nel XIII secolo tornando non solo con merci pregiate, ma con impressioni di prima mano sulla magnificenza e modernità dello spazio culturale cinese. Seta, argento, spezie, polvere da sparo, carta, strumenti astronomici sono solo alcuni dei prodotti che le carovane portavano in Occidente, innescando nei nostri Paesi piccole e grandi rivoluzioni produttive e commerciali.

Tra tutte le civiltà che costruirono e per secoli mantennero vivo quel ponte commerciale che anticipava la globalizzazione, solo una è ancora viva e vitale: la Cina. I neo-imperatori del popolo di Pechino hanno sicuramente riletto i testi storici quando hanno lanciato la colossale “nuova Via della Seta”, che per la delizia degli storici ricollegherà Cina ed Europa seguendo le antiche vie carovaniere e marittime.

C’erano pochi tessuti in seta, però, tra le mille tonnellate di merci a bordo del treno che da Yiwu, 300 chilometri a sud di Shangai, ha raggiunto Madrid lo scorso dicembre, dopo avere percorso 13.000 chilometri e attraversato 6 Paesi. È stato solo un test per la gigantesca opera di collegamenti ad alta velocità che si vorrebbe concludere nel 2025. Quello che già si annuncia come il progetto del secolo, e per il quale la Banca di Sviluppo cinese ha stanziato inizialmente 40 miliardi di dollari USA, dovrebbe permettere di fare arrivare le merci delle grandi fabbriche cinesi in Europa in soli due giorni, contro i 21 richiesti dalle rotte marittime oggi percorse dal 90% dei container in partenza dalla Cina.

Il tracciato della nuova Via della Seta avrà anche altri due rami. Uno, marittimo, toccherà porti delle Maldive, dell’India, dello Sri Lanka, del Corno d’Africa e finirà simbolicamente a Venezia; l’altro si collegherà alla Russia tramite la Transiberiana, riducendo i tempi di viaggio tra Mosca e Pechino, oggi di 6 giorni, a sole 33 ore. Alta velocità e treni cargo si collegheranno con le reti europee per arrivare fino a Rotterdam, Berlino, Parigi.

Per le imprese di Pechino si apre dunque una stagione di grandi appalti nel campo delle infrastrutture ferroviarie, portuali, delle comunicazioni e anche dell’energia. Infatti è intenzione della Cina creare una propria rete di gasdotti e oleodotti per importare energia dai Paesi dell’ex Unione Sovietica. Si tratta di una grande opportunità anche per questi Stati dell’Asia Centrale, finora schiacciati dalla dipendenza dalla Russia, che non sempre si è dimostrata un partner economico all’altezza. Kazakistan e Uzbekistan avranno i maggiori benefici, trovandosi a metà strada del reticolo ferroviario che li collegherà in tempi brevi con l’Europa occidentale, la Russia e l’Oriente.

Mentre gli Stati Uniti sono impegnati nella creazione di due aree di libero commercio, il TTIP con l’UE e il TPP con un gruppo di Stati del Pacifico, la Cina riempie il “vuoto” di quella gigantesca terra di mezzo rimasta orfana di potenze di riferimento con una presenza che rilancia gli affari e lo sviluppo di decine di Paesi. E anche qui, come in Africa e America Latina, la Cina butta sul piatto del partenariato politico due merci rare e ambitissime: capitali in abbondanza e infrastrutture per le comunicazioni.

L’apertura della Via della Seta 2.0 è sicuramente il progetto geopolitico più ambizioso oggi sulla Terra, ma è praticamente sconosciuto all’opinione pubblica. Un silenzio cercato e voluto da Pechino, che non ama i discorsi roboanti né la pubblicità mediatica sulla sua programmazione strategica. Che è chiarissima: piaccia o meno, la Cina oggi è l’unica potenza al mondo che ha una chiara visione del suo futuro, e sta lavorando per farla diventare tangibile e concreta come l’acciaio dei binari.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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L’AGOA (African Growth and Opportunity Act, “atto di crescita e opportunità per l’Africa”) è un atto legislativo emesso nel maggio 2000 dal Congresso degli Stati Uniti per la collaborazione e l’assistenza economica e commerciale nei confronti dei Paesi dell’Africa subsahariana. Non un vero accordo di libero scambio, sul modello di Nafta o TTIP, bensì un atto unilaterale, teso a favorire l’ingresso nel mercato nordamericano di prodotti africani non petroliferi.

In base a questa risoluzione, anno per anno il presidente degli Stati Uniti decide quali sono i Paesi idonei a godere di agevolazioni all’export verso gli USA e quali i prodotti che possono beneficiarne. E lo fa considerando anche, si fa per dire, che i Paesi in questione siano democrazie e che aderiscano ai principi dell’economia di mercato.

L’AGOA è in realtà solo una deroga ai vincoli creati a protezione del mercato statunitense, e ha suscitato non poche polemiche. Nei fatti si applicherebbe a 39 Stati africani, ma finora solo 7 ne hanno beneficiato e tre di essi (Nigeria, Angola e Sudafrica) garantiscono l’80% dell’export complessivo.

Il secondo punto critico riguarda la composizione dei 5 miliardi di dollari di esportazioni africane negli USA finora avvenute nel quadro dell’accordo. Il mix, infatti, è fortemente sbilanciato sui settori tessile e dell’abbigliamento, con prodotti realizzati all’interno di zone franche gestite sul modello delle maquiladoras messicane. Un grosso limite è che l’accordo non comprende l’importante settore alimentare ed esclude buona parte dei prodotti agricoli africani (tabacco, cotone, zucchero). Questo perché le norme sanitarie statunitensi bloccano l’import di molti prodotti alimentari e perché l’apertura sulle commodities agricole creerebbe una pericolosa concorrenza ai produttori a stelle e strisce.

L’impatto positivo dell’AGOA riguarda invece l’occupazione: si calcola infatti che abbia creato almeno 80.000 posti di lavoro.

Se non verrà rinnovato, nel corso del 2015 questo partenariato scadrà. Al momento è difficile capire come evolverà la situazione. Ciò che emerge chiaramente è che si tratta di una relazione commerciale di tipo neocoloniale: date le gigantesche asimmetrie tra le parti, l’AGOA favorisce in primo luogo il Paese più forte in assoluto, gli Stati Uniti, e secondariamente quelli più forti dell’Africa. Inoltre si può affermare che gli investimenti diretti statunitensi nell’ambito dell’AGOA, 7 miliardi di dollari nell’ultimo periodo, sono insignificanti rispetto a quelli nel frattempo effettuati dall’altra potenza presente nella regione, la Cina.

Gli accordi bilaterali che il gigante asiatico ha stipulato con decine di Paesi africani partono da basi diverse e, soprattutto, prevedono investimenti diretti sulle infrastrutture locali e sulla capacità produttiva. In Africa, gli Stati Uniti hanno l’unico obiettivo di rifornirsi di materie prime e di importare prodotti utili al loro mercato, mentre la Cina, pur essendo anch’essa interessata a minerali e petrolio, segue un’idea di partenariato economico strategico, anche perché non ha un sistema protezionistico da tutelare. Nel primo caso, se va bene, parliamo della creazione di qualche posto di lavoro in più, nel secondo delle premesse per un vero sviluppo delle economie africane: quelle premesse, cioè, che negli ultimi 5 anni hanno consentito all’Africa subsahariana di diventare una delle regioni al mondo con la più alta percentuale di crescita del PIL.

Insomma, per gli Stati Uniti, come prima per il Regno Unito o la Francia, l’Africa rimane solo un fornitore di materie prime a basso costo, mentre per la Cina il continente nero è ormai parte del “cortile di casa”. Un cortile che si estende su tre continenti, a differenza di quello degli Stati Uniti, che si sviluppa in Centroamerica. E in questa nuova versione del “Grande Gioco” su scala globale, anche la marginalizzata Africa, per la prima volta, ha qualche carta da giocare.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Barack Obama vuole concludere il suo mandato rilanciando i rapporti con i “vicini” latinoamericani. Così, dopo decenni di incomprensioni, disinteresse e ridimensionamento anche dal punto di vista della presenza economica, gli Stati Uniti tornano prepotentemente ad affacciarsi sul continente che si estende a sud del Rio Bravo. Durante la lunga assenza del “fratello del Nord”, però, nel vicinato sono accadute molte cose. Un grande Paese, il Messico, è precipitato in una guerra civile sanguinosa tra Stato e narcotraffico. Un altro grande Paese, il Brasile, è diventato potenza globale. In diversi piccoli Paesi, come Ecuador, Uruguay e Bolivia, sono avvenuti profondi cambiamenti nell’ambito della sovranità economica e dei diritti sociali e individuali. Altri Stati ancora, come Cile e Perú, conoscono alti tassi di crescita economica, mentre Argentina e Venezuela si trascinano in una crisi politica quasi endemica.

Situazioni molto diverse ma con elementi comuni: la crescita delle società latinoamericane degli ultimi vent’anni è stata proporzionale al ridimensionamento delle relazioni economiche e politiche con gli Stati Uniti e alla diversificazione dei partner internazionali. Per diversi Paesi dell’America centro-meridionale, la potenza economica di riferimento è oggi la Cina. E proprio questo ha fatto scattare l’allarme, in ritardo, a Washington. La strategia del ritorno degli Stati Uniti in America Latina prevede la guarigione delle due ferite che in passato hanno compromesso i rapporti tra le due aree: cioè i “casi” Cuba e Colombia. Le trattative che si stanno svolgendo a L’Avana tra le FARC e lo Stato colombiano per porre fine alla guerra civile più lunga del continente americano, 50 anni e 200.000 morti, è strettamente legata ai round negoziali tra USA e Cuba, in svolgimento sempre a L’Avana, per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e commerciali dopo decenni di inutile embargo. In entrambi i casi gli Stati Uniti sono stati sconfitti, non essendo riusciti a rovesciare Castro né a liquidare la guerriglia delle FARC. Ma il danno è stato ancora maggiore se si considera che l’ostinata difesa di questa fallimentare politica di ingerenza ha alienato, con pochissime eccezioni, qualsiasi simpatia nei confronti degli USA da parte di governi di destra come di sinistra. E già nel 2005 gli errori hanno pesato nella decisione degli Stati latinoamericani di rifiutare l’accordo ALCA, il disegno – ormai sepolto – di costruzione di un unico mercato dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco.

Obama ora sta dimostrando coraggio. Nel discorso in cui annunciava l’apertura del dialogo con Cuba ha fatto giustizia storica citando il patriota cubano José Martí e restituendo a 400 milioni di persone la denominazione di “americani”, a segnalare un destino comune. Tuttavia lo slogan “siamo tutti americani” ha per ora provocato solo sorrisi in America Latina. E questo perché da quelle parti sono abituati all’uso alternato del bastone e della carota da parte dei vicini del Nord. Gli Stati Uniti, dopo le aperture di Obama, dovranno così riguadagnarsi sul campo ciò che la globalizzazione ha loro tolto. In primo luogo, prendendo atto del fatto che l’America Latina della Guerra Fredda, quella schiacciata nell’alleanza obbligatoria con gli Stati Uniti, che non risparmiarono mezzi né tragedie per perpetuarla, non esiste più.

Ora il rapporto deve essere alla pari, perché i latinoamericani per la prima volta possono scegliere con chi stare e con chi fare affari. È uno scenario al quale a Washington faticano ad abituarsi, ma con il quale devono fare i conti. Per la prima volta, nelle relazioni diplomatiche tra i mondi separati del Nuovo Continente sono gli americani del Nord ad avanzare proposte di cooperazione e a proporsi come forza di pace: le parti si stanno rovesciando, e questo non può che essere un bene.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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I ragni al lavoro

Pubblicato: 17 gennaio 2015 in America Latina, Europa, Mondo
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Quando nel 1995 nacque l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO, la strada pareva segnata: la deregolamentazione dell’economia, all’epoca già in corso, sarebbe proseguita, ci sarebbe stata la fine dei protezionismi di mercato e i capitali avrebbero potuto spostarsi in sicurezza per il mondo. Il tutto sotto la guida appunto del WTO, che avrebbe stabilito le nuove “non-regole”, dettato i tempi, punito i renitenti e i disobbedienti. Addirittura, la fiducia in questo destino ineluttabile – cioè il sogno della cultura economica liberale – aveva partorito per il nuovo organismo uno statuto nel quale le decisioni si sarebbero prese all’unanimità. Infatti, chi mai avrebbe potuto essere in disaccordo?

Pochi anni dopo, nel 2003, i nodi vennero al pettine durante la quinta Conferenza Ministeriale del WTO a Cancún, in Messico: una conferenza che puntava a raggiungere un accordo sul delicato tema dell’agricoltura. Qui un’alleanza di 22 Paesi dell’ex Terzo Mondo, capitanati da India, Cina e Brasile, riuscì a bloccare i negoziati chiedendo l’abolizione dei sussidi all’agricoltura europea e statunitense come precondizione per l’apertura dei mercati agricoli locali. Da quel momento per il WTO è iniziato un lento declino. Parallelamente sono nati il G20, il gruppo di 20 Stati che ha di fatto preso il posto del G8, e il gruppo dei BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, il club delle potenze emergenti.

Il fallimento del tentativo di arrivare a un trattato globale attraverso il WTO non ha però raffreddato gli spiriti dei Paesi promotori della globalizzazione: in particolare gli Stati Uniti. In particolar modo sono stati gli USA, davanti alla paralisi europea, a prendere l’iniziativa per aggirare l’ostacolo. La strategia per arrivare allo stesso risultato attraverso altre strade è stata individuata nella stipulazione di accordi bilaterali: alcuni già esistenti, come il NAFTA (fra Stati Uniti, Canada e Messico), sono stati allargati; altri tentativi sono falliti, come nel caso dell’ALCA, l’area di libero commercio delle Americhe che avrebbe dovuto creare un unico mercato per merci e servizi dall’Alaska alla Terra del Fuoco, che si arenò nel 2005 per volontà di tre presidenti sudamericani: Chávez, Lula e Kirchner.

Ma i negoziati sono continuati con la firma di decine di accordi di libero scambio tra gli Stati Uniti e singoli Paesi asiatici, latinoamericani e africani. Insomma, Washington sta applicando la strategia del ragno, lavora per tessere una trama di accordi commerciali che, sommati tra loro, equivarranno a quegli accordi che non si è riusciti a firmare a livello di WTO. Al momento gli USA sono impegnati in due negoziati decisivi: il TTIP, cioè l’accordo di partenariato transatlantico con l’Unione Europea; e il TPP, un’alleanza con i Paesi emergenti del Pacifico che esclude però la Cina. Questi accordi rappresentano la priorità assoluta della diplomazia economica a stelle e strisce, in quanto dovrebbero consolidare i rapporti commerciali e finanziari con due aree tradizionalmente alleate e, soprattutto, con due ricchissimi mercati.

Ma a Pechino c’è un altro ragno al lavoro per tessere una rete simile: già oggi gli accordi tra la Cina e i Paesi africani e latinoamericani non si contano. Il grande obiettivo del gigante asiatico, che per ora ha un accesso limitato all’Europa, è assicurarsi un ottimo rapporto di forze con gli altri Paesi del suo continente. La zona di libero commercio CAFTA (cioè Cina-ASEAN Free Trade Agreement) è dunque prioritaria per la Cina, per la quale costitiuisce l’unico modo di neutralizzare la crescente influenza degli Stati Uniti nel suo cortile di casa: attualmente coinvolge 11 Stati per un bacino economico di oltre 400 miliardi di dollari (cresciuto di quattro volte rispetto a 10 anni fa, quando il CAFTA è nato).

L’economia a ragnatela, in mancanza di un accordo-quadro globale che forse non conveniva a nessuno, è la continuazione con altri mezzi della guerra tra le potenze di oggi e quelle del futuro. Sullo scenario mondiale del XXI secolo, infatti, i missili contano tanto quanto le facilitazioni per l’export delle proprie merci. Mentre a Pechino e a Washington i ragni continuano a tessere, a Bruxelles si rischia invece di rimanere intrappolati in una di queste ragnatele senza neanche avere capito come e perché ciò sia accaduto.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

A spider weaves its web on a tree during the early morning in Odisha

Lo scorso mese di ottobre, a Cagliari si è verificato un fatto di rilevanza epocale che però ha lasciato indifferenti i mezzi d’informazione: per la prima volta nella storia è approdata in Italia una petroliera carica di greggio statunitense. Andando a indagare negli archivi dell’Energy Information Administration, l’agenzia federale di Washington che si occupa di energia, si scopre infatti che nel 2014 il nostro Paese è stato destinatario di 430.000 barili di petrolio made in USA.

Senza dubbio si tratta di una quantità irrisoria se rapportata al commercio mondiale di combustibili fossili, eppure siamo di fronte a una testimonianza della più grande rivoluzione energetica degli ultimi decenni: quella dello shale oil e dello shale gas, e più in generale degli “idrocarburi non convenzionali”, cioè petrolio e gas ricavati non dai “soliti” giacimenti ma da particolari sabbie o da rocce che vengono frantumate nelle profondità del sottosuolo. Una fonte non rinnovabile, ovviamente, che fino a poco tempo fa è stata trascurata.

Ai vertici delle graduatorie che calcolano le riserve planetarie di questo genere di idrocarburi ci sono gli Stati Uniti, insieme a Cina, Russia, Argentina e Algeria. E proprio gli Stati Uniti se ne stanno avvantaggiando più di tutti, nonostante vivano una contraddizione rispetto al loro stesso quadro legislativo che, dai tempi della crisi energetica degli anni ’70, proibisce l’export di greggio per motivi di sicurezza nazionale.

Malgrado questo divieto, negli ultimi quattro anni l’export a stelle e strisce è passato da 50.000 barili al giorno a 400.000, e si prevede che nel 2015 toccherà quota un milione. Ciò perché il Dipartimento del Commercio ha concesso a due società di esportare petrolio sul quale siano state effettuate lavorazioni anche minime, aggirando così la legge che parla soltanto di “greggio”. Lo stesso vale per il gas, estratto in quantità così abbondanti che, sul mercato interno, i prezzi si sono dimezzati, con grandi vantaggi economici per le industrie e le famiglie.

Se si conteggiano insieme il greggio, il metano e il propano, oggi gli Stati Uniti hanno raggiunto al primo posto mondiale l’Arabia Saudita nella produzione di energia e si preparano al sorpasso. È questa la principale spiegazione del calo del prezzo del petrolio a livello globale: le nuove fonti estrattive – insieme alla crisi economica – hanno cambiato lo scenario che si delineava fino a pochi anni fa, e che lasciava presumere un aumento indefinito dei prezzi correlato alla diminuzione generalizzata delle riserve di idrocarburi.

In realtà le riserve sono nettamente superiori rispetto ai pronostici e il prezzo del petrolio scende. Tra tante manifestazioni di soddisfazione, pochi considerano che una delle conseguenze più significative di questo fenomeno è il declino dell’interesse per la riconversione energetica e per la ricerca sull’energia rinnovabile.

I costi ambientali di questa primavera energetica non sono stati ancora valutati, ma l’estrazione di idrocarburi ottenuta attraverso la frantumazione delle rocce presenta una serie di criticità che potrebbero rendere effimero lo sfruttamento stesso di questa fonte energetica. Infatti, oltre a richiedere l’iniezione nel sottosuolo di enormi quantità di acqua e di sostanze chimiche, oltre a provocare l’instabilità dei terreni sotto i quali si lavora e un rischio di aumento della microsismicità, questi giacimenti tendono a esaurirsi molto in fretta. Obbligano dunque a un costante sforzo di prospezione e di perforazione, con grandi investimenti di denaro: in pratica è conveniente estrarre petrolio non convenzionale solo finché il prezzo a barile si aggira attorno ai 100 dollari.

Molto si è discusso negli ultimi anni circa il significato geopolitico di questa rivoluzione, ma più sul piano delle ipotesi che dei fatti. È fuori luogo immaginare che il disimpegno graduale degli USA dallo scenario globale, e dal Medio Oriente in particolare, sia dovuto esclusivamente alla minore dipendenza dall’import di greggio, ma è altresì vero che, quando gli Stati Uniti dovranno decidere come riposizionarsi nel mondo, molti degli attuali alleati in chiave energetica saranno ridimensionati. Per ora, a godere degli unici vantaggi concreti sono stati la bilancia dei pagamenti di Washington e le industrie che utilizzano in modo intensivo gas o altri combustibili. Il ritorno di molte aziende negli Stati Uniti, il cosiddetto reshoring, è in parte spiegabile alla luce del mix di energia a basso costo e incentivi fiscali varati dalle autorità. Insomma, la rivoluzione energetica per ora non ha cambiato il mondo, ma ha dato una grande mano agli Stati Uniti per uscire dalla crisi.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

Shale-boom

Come nella favola di Esopo, c’è chi vorrebbe spiegare la crisi economica di alcuni Paesi mediterranei al loro aver cantato per tutta l’estate, come le cicale, mentre le laboriose formiche settentrionali si davano da fare. Nella favola, la formica liquida la cicala affamata in modo brutale: “hai cantato durante la buona stagione, allora adesso balla”. Lo stesso spirito è alla base della “cura” che oggi l’UE sta applicando nei confronti della Grecia.

Forse, però, la suddivisione tra cicale e formiche non è proprio esatta. E i memorandum applicati alla Grecia e il fiscal compact che anche noi stiamo subendo sono le medicine sbagliate somministrate dopo una diagnosi sbagliata. Si parte dall’errore di Sarkozy e Merkel, che interpretarono l’inizio della turbolenza che stava colpendo l’Europa come una crisi del debito sovrano degli Stati e non come la conseguenza dello stallo economico venutosi a determinare con l’avvio dell’era dell’euro. Una moneta senza Stato e senza contrappesi politici, a differenza del dollaro USA, che ha favorito la crescita del mercato interno e dell’export tedesco perché sottovalutata rispetto al marco, mentre frenava la crescita dei mercati che furono della lira, la dracma o la peseta, sopravvalutate.

Il secondo errore è stato quello di applicare il ricettario del nuovo socio con sede a Washington: il Fondo Monetario. L’unico organismo internazionale che, contro ogni evidenza, continua imperterrito a sostenere che i bilanci degli Stati indebitati vadano risanati a prescindere dalla crescita economica e, soprattutto, solo e unicamente a discapito della spesa sociale. La teoria secondo la quale “i conti in ordine”, ovviamente da soli, possano far uscire un Paese dalla recessione è un evergreen che ormai, fuori dall’Europa, ha un basso ascolto, ma che ha trovato nuova audience nelle stanze della Commissione Europea.

Teoria economica che né gli Stati Uniti né il Giappone, e men che meno i Paesi emergenti applicano. Anzi, questi Stati hanno fatto l’esatto contrario per uscire dalla crisi, con successi ben maggiori di quelli europei. Incentivi fiscali, investimenti in ricerca e innovazione, sostegno all’occupazione, politica monetaria espansiva, rilancio della formazione professionale, perfino allargamento dell’assistenza sanitaria. Per Obama e Abe, passando attraverso Dilma Roussef, le ricette targate FMI non sono la soluzione della crisi, bensì la sua causa.

Ma chi lo spiega a Bruxelles? Il premier italiano ha recentemente affermato che il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e PIL è “anacronistico”. In realtà, più che anacronistico, è profondamente sbagliato che sia considerato un parametro inamovibile, scolpito nella roccia. La ricchezza prodotta dall’uomo non è statica né costante. Si evolve, si sposta, cresce e si contrae in base ai momenti storici, alle innovazioni, alle guerre, alle scoperte scientifiche e tecnologiche. I cicli economici che si sono determinati finora, espansivi o recessivi, sono sempre stati determinati da complesse circostanze.

Immaginare che parametri stabiliti nel 1992 a Maastricht, in pieno ciclo espansivo economico mondiale e sulle ali di una globalizzazione che spostava lavoro e capitali aprendo nuovi mercati e traguardi, possano avere la stessa validità a distanza di 20 anni, in piena fase recessiva, non è anacronistico: è follia pura. Ma è una follia che si vuole tenere nascosta perché è funzionale allo sbarco in Europa, il continente finora più refrattario, di quel pensiero economico nato a cavallo tra Chicago e Londra e diventato ideologia della destra degli anni ’80. Quello che teorizza la dimensione “mistica” del mercato che, manipolato da una “mano invisibile”, ridistribuisce per “sgocciolamento” la ricchezza verso il basso. Una visione quasi new age dell’economia: in sostanza, ci vuole insegnare che gli umani non devono interferire con quell’entità virtuale che è il mercato, perché possono solo provocare guasti.

Per questo motivo, oggi in Europa l’unica via prevista per uscire dalla crisi è mettere i conti a posto, tagliare e privatizzare, razionalizzare tutto ciò che si può e poi sperare che il mercato riparta da solo. Sarebbe quasi bello se fosse vero. Ma l’esperienza dei Paesi che hanno già assaggiato questa medicina ci dice che questa strategia produce sperequazione del reddito e della società, debolezza delle istituzioni democratiche e soprattutto recessione, con enormi costi sociali. Non basta “avere i conti in ordine”, ci vuole una visione, una strategia per conquistarsi un posto al sole nella globalizzazione.

Senza crescita economica qualsiasi debito è insostenibile. L’Europa senza guida e alla deriva sta riuscendo a mettere insieme le due condizioni che possono portare un Paese al fallimento: sbagliare diagnosi e cura, e non avere il coraggio di ammetterlo per cambiare rotta.

 

Alfredo Somoza

 

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Sono passati cent’anni dallo scoppio della “Grande Guerra”, che cominciò come uno dei tanti conflitti regionali europei ma presto si trasformò nel primo vero conflitto mondiale, inaugurando il secolo delle guerre su scala industriale. Ciò accadde perché, per la prima volta, la posta in gioco superava i confini del Vecchio Continente: il mondo era già interconnesso. Si scontravano Paesi che vivevano condizioni molto diverse, tra potenze coloniali in declino, imperi in via di sparizione e potenze emergenti che ambivano a occupare nuovi spazi geografici e commerciali. Regno Unito e Francia non riuscivano a fronteggiare gli oneri umani ed economici derivanti dalla gestione dei possedimenti coloniali, mentre Stati Uniti e Giappone ambivano a essere ammessi nella “stanza dei bottoni”.

Quel grande conflitto geopolitico, come tutti i grandi drammi della nostra storia, si svolse in un contesto che presentava notevoli somiglianze con quello odierno. In primo luogo il vuoto di leadership mondiale: oggi, dopo la fine della Guerra Fredda, la scomparsa dell’Unione Sovietica e il ridimensionamento economico degli USA, non ci sono “imperi” in grado di reggere e garantire l’ordine globale. Stesso quadro si presentava nel 1914, con il declino inarrestabile dell’impero britannico e lo sgretolamento dell’impero Austro-Ungarico e di quello Ottomano, mentre anche la Françe-afrique cominciava a scricchiolare. I nuovi “barbari” di inizio ’900 erano gli Stati Uniti e il Giappone, destinati dopo pochi anni a stabilire nella cruenta Guerra del Pacifico chi dovesse essere la potenza di riferimento in Asia.

L’Europa dei grandi imperi, che però non riuscivano a diventare nazioni, aveva ormai le ore contate: la guerra fratricida si limitò ad accelerare la sua perdita di influenza, fino al suicidio collettivo della Seconda guerra mondiale. Oggi il vacillare dell’Unione Europea, unico argine contro il declino del Vecchio Continente e la sua perdita di peso economico e strategico sullo scacchiere mondiale, ricorda quei momenti precedenti al grande conflitto. La differenza sostanziale è che in Europa, a differenza di un secolo fa, non ci sono imperi estesi su altri tre continenti.

Eppure il nostro continente mantiene un punto di forza, continua a disporre di una risorsa ambita da altre potenze: la sua residua posizione di rendita sull’innovazione, sulla finanza, sull’industria di qualità e sulla cultura. L’Europa dei primi del ’900 aveva costruito una situazione di privilegio sfruttando soprattutto i popoli lontani; l’Europa del XXI secolo vive una situazione di (relativo) privilegio perché ha saputo tutelare cultura e storia produttiva creando contemporaneamente coesione sociale, un bene prezioso e raro a livello mondiale. Insomma, l’Europa di un secolo fa era ingiusta ma potente, quella di oggi è più giusta e meno potente. Oggi ingiustizia e potenza convivono altrove, in Russia, in Cina, addirittura negli Stati Uniti.

Nonostante queste similitudini, appare piuttosto improbabile che nei prossimi anni possa ripetersi un conflitto mondiale. Le guerre locali o regionali attualmente in corso nascono “soltanto” dal tentativo di accaparramento di materie prime strategiche, e in futuro gli scontri militari potrebbero riguardare il controllo delle risorse idriche o il nodo dell’informazione. Il mondo globalizzato dei nostri giorni, a differenza di quello di un secolo fa, non è preparato e non ha bisogno di un grande conflitto per dirimere chi comanda. Ci ha già pensato l’economia senza frontiere a chiarire i nuovi rapporti di forza, a fare emergere alcuni Stati e nazioni e ad affondarne altri. Il biglietto di ingresso al salotto delle potenze globali non si distribuisce più alle sfilate militari, ma negli ipermercati.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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Poche volte nella storia è capitato che si levasse un’ondata di curiosità e di preoccupazione attorno a un accordo commerciale come sta succedendo oggi con il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che dovrebbe sancire la fine delle barriere commerciali tra Stati Uniti ed Europa. Solo in un’altra occasione ci fu tanto interesse per un trattato commerciale, fino alla sua bocciatura. Capitò con l’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) proposta da George Bush ai Paesi del Sudamerica e che venne respinto da tre presidenti, Chávez, Lula e Kirchner, in un epico Vertice delle Americhe a Mar del Plata nel 2005.

Il TTIP è invece una creatura tenuta accuratamente lontana dalle piazze, e addirittura dai governi nazionali. Lo scorso 30 aprile Federica Guidi, ministro allo Sviluppo economico, ha riconosciuto nel corso di un question time alla Camera che «la documentazione negoziale del TTIP è riservata e che al momento neppure gli Stati membri hanno accesso a tutta la documentazione». Perché i governi possano almeno vedere di che cosa si tratti, si ipotizza di allestire una “reading room” a Bruxelles, che consenta la sola lettura di tali testi, presso l’ambasciata statunitense. In quelle stanze, insomma, dalle quali i servizi di intelligence degli USA spiano e ascoltano le telefonate di tutti i cittadini europei, inclusi i governanti.

Ma che cosa nasconde in realtà un simile zelo? Punta a coprire una trattativa tra le più delicate nella storia dell’Europa. Una logica commerciale che oggi gli Stati Uniti provano a riproporre negli accordi bilaterali, dopo l’impantanamento della trattativa presso il WTO per spalancare il mondo a merci e investimenti. Accordi come quelli già in vigore con il NAFTA tra USA, Messico e Canada, o quello oggetto di trattativa con l’area del Pacifico. È la stessa logica respinta dal Sudamerica che disse no all’ALCA, e che possiamo riassumere così: l’abolizione delle cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè non dei dazi ma di tutti quei regolamenti che ostacolano la circolazione di merci e servizi tra un’area e l’altra. Una questione delicatissima, con ricadute sulla stessa democrazia.

Il TTIP, infatti, ancora una volta mette in discussione il primato della politica (e quindi della democrazia) sui poteri forti dell’economia. L’accordo porterebbe a una revisione degli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l’omologazione delle normative tra USA ed Europa porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti nel nostro continente, attualmente molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce. Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l’acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l’acqua è una merce come un’altra.

Il nocciolo dell’accordo, che si vorrebbe chiudere entro il 2014, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata. E qui si scopre un’altra chicca: le controversie sull’applicazione dell’accordo non riguarderebbero più i tribunali europei ma l’ISDS (Investor-State Dispute Settlement), un meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati) sul modello di quello già esistente del WTO, con probabile sede a Washington presso la Banca Mondiale. Un tribunale privato che permetterebbe alle imprese di far condannare quei Paesi che approvassero leggi “dannose” per i propri investimenti presenti e futuri. Come la Germania, per esempio, che ha deciso di chiudere con il nucleare ed è stata denunciata per diversi miliardi. Oppure, in futuro, i Paesi che rifiuteranno di ammettere sul loro territorio i prodotti agricoli OGM, o che abbiano deciso affidare allo Stato la gestione delle risorse idriche.

L’interesse pubblico e i risultati delle consultazioni democratiche rischierebbero così di essere messi in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati. Oltre al colpo inferto alla democrazia, svanirebbero le faticose e costose costruzioni delle DOP e IGP, i marchi europei che garantiscono qualità e territorialità (anche) al made in Italy. Prodotti frutto di investimento e saperi centenari verrebbero equiparati al Parmesan dell’Iowa o all’aceto balsamico di San Francisco, senza potersi difendere da una simile concorrenza.

Danno economico, invasione di prodotti contraffatti o perfino adulterati rispetto alle nostre normative, sicuro approdo degli OGM nei nostri campi e sulle nostre tavole, indebolimento della democrazia. Tutto ciò è concentrato nel misterioso accordo TTIP: questa volta il sacrificio non ce lo chiede l’Europa ma direttamente lo Zio Sam. Il Parlamento Europeo che si è appena insediato dovrà decidere per il sì o per il no. Da una parte le grandy lobby europee e statunitensi, dall’altra i diritti dei cittadini e la sovranità dell’Europa. Eppure la scelta che verrà fatta non è per nulla scontata.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Da mesi la diplomazia europea e quella statunitense stanno lavorando con incontri riservati a un accordo quadro per gli scambi di capitali, merci e servizi tra gli Stati Uniti e l´Unione Europea. Il più grande accordo di tutti i tempi, secondo il Sole 24 Ore, finora praticamente l´unico tra i grandi media a seguire la trattativa.

Davanti all´impantanamento della trattativa globale in ambito WTO (il cosiddetto Doha Round), questo accordo stabilisce nuove regole ultraliberiste all´interno dell´area del pianeta in cui “girano” quasi due terzi dell’economia mondiale. Secondo i negoziatori (ma nessuno sa chi siano né quale mandato abbiano ricevuto), dovrebbe portare enormi vantaggi a entrambi i partner, e in particolare all´Europa, con un aumento degli scambi e incrementi del PIL e dell´occupazione.

Ma il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership, questo il nome dell’accordo – è qualcosa di più di un semplice negoziato di liberalizzazione commerciale. Rimette in discussione ancora una volta il primato della politica, e quindi della democrazia, nei confronti dei poteri forti dell´economia. Se venisse approvato dal Parlamento europeo e da quello statunitense, andrebbe infatti a incidere sui diritti del lavoro e dell’ambiente e anche su quelli di cittadinanza.

Il primo obiettivo infatti non saranno le barriere tariffarie, già abbastanza basse, bensì quelle “non tariffarie”, che riguardano gli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l´omologazione delle normative porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti in Europa, molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce.

Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l´acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l´acqua è una merce come un´altra. Il nocciolo dell´accordo, che si vorrebbe chiudere entro il 2014, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata, grazie alla costituzione di un organismo di risoluzione delle controversie al quale le aziende potranno appellarsi per rivalersi su governi colpevoli, a loro dire, di averle ostacolate. Da questo punto di vista, qualsiasi regolamentazione pubblica rischierà di essere messa in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati.

Non è la prima volta che si cerca di concludere un accordo di questo tipo. Già negli anni ’90 qualcosa di simile fu respinto (l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti); e anche nelle Americhe naufragò l´ALCA proposto da George W. Bush ai Paesi latinoamericani, basato sugli stessi principi.

Uno dei settori più delicati che potrebbero essere modificati dall´accordo TTIP è quello dell´alimentazione, con l´impossibilità – per esempio – di vietare la diffusione degli OGM, perfettamente legali negli Stati Uniti. Ma anche l´uso di ormoni nell’allevamento o di pesticidi in agricoltura. E potrebbe venir meno il principio della tutela della diversità e della territorialità del prodotto.

Acqua, trasporti ed energia sono invece i settori nei quali sarebbe più alto il rischio di privatizzazione, e le comunità che si opponessero sarebbero passibili di denuncia davanti al tribunale competente. Sull´energia si pone anche il problema dell’estrazione dello shale gas (il gas di scisto) attraverso il cosiddetto fracking, cioè la frantumazione in profondità, che tante sciagure ambientali sta creando negli Stati Uniti. Il divieto esistente in Francia per questo tipo di estrazione potrebbe essere contestato dalle imprese che si ritenessero danneggiate. Anche le regole di tutela della privacy potrebbero essere contestate dai giganti statunitensi della comunicazione.

La vittima più clamorosa di questi accordi, però, sarebbe la democrazia. I cittadini, dalla firma dei trattati in poi, non avrebbero più potere di scelta autonoma in materia ambientale, economica e sociale perché vincolati a monte. Addirittura il diritto al lavoro potrebbe essere messo in discussione, se dovesse prevalere il diritto di assumere secondo le condizioni contrattuali degli USA, Paese nel quale non esistono contratti nazionali, e che non ha sottoscritto le normative antidiscriminatorie per motivi di genere o etnia.

Con il TTIP l´Europa, già duramente provata dalle politiche di austerity che limitano seriamente il margine di manovra dei governi nazionali, si avvicinerebbe sempre più al modello sociale ed economico statunitense. Una situazione già sperimentata dal Messico che nel 1994, sottoscrivendo gli accordi NAFTA con USA e Canada, ipotecò seriamente la sua sovranità politica ed economica. Oggi, tra il Messico che voleva diventare “socio” degli Stati Uniti e il ricco vicino del Nord si alza un muro controllato a vista.

L´Europa per fortuna non è il Messico. Ma se le logiche sono le stesse, anche noi rischiamo che l´originale modello universalistico dei diritti, costruito in decenni di lotte sociali, ambientali e sindacali, diventi storia passata. L´Europa “socia” degli Stati Uniti, a queste condizioni, metterebbe fine al sogno della costruzione di un´area di civiltà, valori condivisi e diritti reciprocamente riconosciuti. Ora l´ultima parola passa a una delle istituzioni più ignorate dai poteri forti: il Parlamento europeo, l´assise che oggi rappresenta l´unica istituzione comunitaria con un mandato democratico. Mandato che sarà rinnovato il prossimo 25 maggio. Praticamente l’ultima chiamata per salvare e cambiare la situazione, e per rilanciare il percorso dell’Europa su nuove basi, dicendo no da subito al TTPI.

Alfredo Luis Somoza (Candidato Circoscrizione Nord Ovest – Elezioni Europee 2014 – Lista Altra Europa con Tsipras)

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