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Poche volte nella storia è capitato che si levasse un’ondata di curiosità e di preoccupazione attorno a un accordo commerciale come sta succedendo oggi con il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che dovrebbe sancire la fine delle barriere commerciali tra Stati Uniti ed Europa. Solo in un’altra occasione ci fu tanto interesse per un trattato commerciale, fino alla sua bocciatura. Capitò con l’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) proposta da George Bush ai Paesi del Sudamerica e che venne respinto da tre presidenti, Chávez, Lula e Kirchner, in un epico Vertice delle Americhe a Mar del Plata nel 2005.

Il TTIP è invece una creatura tenuta accuratamente lontana dalle piazze, e addirittura dai governi nazionali. Lo scorso 30 aprile Federica Guidi, ministro allo Sviluppo economico, ha riconosciuto nel corso di un question time alla Camera che «la documentazione negoziale del TTIP è riservata e che al momento neppure gli Stati membri hanno accesso a tutta la documentazione». Perché i governi possano almeno vedere di che cosa si tratti, si ipotizza di allestire una “reading room” a Bruxelles, che consenta la sola lettura di tali testi, presso l’ambasciata statunitense. In quelle stanze, insomma, dalle quali i servizi di intelligence degli USA spiano e ascoltano le telefonate di tutti i cittadini europei, inclusi i governanti.

Ma che cosa nasconde in realtà un simile zelo? Punta a coprire una trattativa tra le più delicate nella storia dell’Europa. Una logica commerciale che oggi gli Stati Uniti provano a riproporre negli accordi bilaterali, dopo l’impantanamento della trattativa presso il WTO per spalancare il mondo a merci e investimenti. Accordi come quelli già in vigore con il NAFTA tra USA, Messico e Canada, o quello oggetto di trattativa con l’area del Pacifico. È la stessa logica respinta dal Sudamerica che disse no all’ALCA, e che possiamo riassumere così: l’abolizione delle cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè non dei dazi ma di tutti quei regolamenti che ostacolano la circolazione di merci e servizi tra un’area e l’altra. Una questione delicatissima, con ricadute sulla stessa democrazia.

Il TTIP, infatti, ancora una volta mette in discussione il primato della politica (e quindi della democrazia) sui poteri forti dell’economia. L’accordo porterebbe a una revisione degli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l’omologazione delle normative tra USA ed Europa porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti nel nostro continente, attualmente molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce. Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l’acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l’acqua è una merce come un’altra.

Il nocciolo dell’accordo, che si vorrebbe chiudere entro il 2014, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata. E qui si scopre un’altra chicca: le controversie sull’applicazione dell’accordo non riguarderebbero più i tribunali europei ma l’ISDS (Investor-State Dispute Settlement), un meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati) sul modello di quello già esistente del WTO, con probabile sede a Washington presso la Banca Mondiale. Un tribunale privato che permetterebbe alle imprese di far condannare quei Paesi che approvassero leggi “dannose” per i propri investimenti presenti e futuri. Come la Germania, per esempio, che ha deciso di chiudere con il nucleare ed è stata denunciata per diversi miliardi. Oppure, in futuro, i Paesi che rifiuteranno di ammettere sul loro territorio i prodotti agricoli OGM, o che abbiano deciso affidare allo Stato la gestione delle risorse idriche.

L’interesse pubblico e i risultati delle consultazioni democratiche rischierebbero così di essere messi in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati. Oltre al colpo inferto alla democrazia, svanirebbero le faticose e costose costruzioni delle DOP e IGP, i marchi europei che garantiscono qualità e territorialità (anche) al made in Italy. Prodotti frutto di investimento e saperi centenari verrebbero equiparati al Parmesan dell’Iowa o all’aceto balsamico di San Francisco, senza potersi difendere da una simile concorrenza.

Danno economico, invasione di prodotti contraffatti o perfino adulterati rispetto alle nostre normative, sicuro approdo degli OGM nei nostri campi e sulle nostre tavole, indebolimento della democrazia. Tutto ciò è concentrato nel misterioso accordo TTIP: questa volta il sacrificio non ce lo chiede l’Europa ma direttamente lo Zio Sam. Il Parlamento Europeo che si è appena insediato dovrà decidere per il sì o per il no. Da una parte le grandy lobby europee e statunitensi, dall’altra i diritti dei cittadini e la sovranità dell’Europa. Eppure la scelta che verrà fatta non è per nulla scontata.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Quando nel 1994 nasceva il Nafta, l’accordo di libero commercio fra i tre Paesi del Nord America (Canada, Stati Uniti e Messico), si era in una fase di piena espansione dell’economia globale. Con questo accordo si sanciva l’esistenza di un’area economica che, nei fatti, era costituita dalla prima potenza mondiale e da due suoi satelliti, almeno sotto il profilo dell’economia. Il Nafta era anche una grande opportunità, soprattutto per gli Stati Uniti, che potevano “legare” al loro mercato un’area con costi del lavoro sensibilmente inferiori a quelli interni (il Messico), e un’altra area ricca di materie prime energetiche fondamentali dal punto di vista strategico (il Canada).

Questi tre Paesi si sono infatti integrati velocemente, al punto che Messico e Canada hanno presto indirizzato la stragrande maggioranza del loro export verso gli USA, mentre l’industria statunitense ha iniziato proprio dal Messico ad attuare il suo processo di delocalizzazione produttiva. Poi l’interesse per questo accordo è molto calato, soprattutto per l’emergere della Cina come grande esportatore globale e come nuovo territorio di delocalizzazioni.

Ora tutto pare cambiare di nuovo. La nuova rivoluzione energetica determinata dalle tecnologie che consentono di recuperare gas e petrolio da scisti argillosi e da sabbie bituminose lascia prevedere che, in un futuro molto ravvicinato, Stati Uniti e Canada non soltanto diminuiranno le loro importazioni energetiche, ma addirittura diventeranno esportatori netti.

Il Messico, nella morsa della guerra tra Stato e narcotraffico, diventa invece di nuovo strategico per le imprese che lo avevano abbandonato negli anni scorsi, ingolosite dai costi ancora più stracciati della manodopera in Asia. L’aumento degli stipendi e della fiscalità cinese, insieme a quello dei costi dei trasporti, rende infatti di nuovo conveniente produrre lungo la linea di confine tra USA e Messico per poi vendere sul mercato del Nord con il solo costo del trasporto su gomma.

L’uscita degli Stati Uniti dalla crisi passa anche da qui. Dal ritrovare una loro centralità produttiva sostenuta dagli investimenti in ricerca – in verità sempre mantenuti – da un costo della manodopera inferiore a quello europeo e dall’abbondanza di energia a basso costo. Una nuova chance per gli Stati Uniti, insomma, che ora per consolidare questa tendenza rilanciano con due mosse.

La prima è il tentativo di creare una zona di libero commercio del Pacifico, la Trans Pacific Partnership, che oltre ai Paesi del Nafta include il Giappone e una serie di Stati emergenti latinoamericani e asiatici, escludendo la Cina. La seconda è la proposta di accordo di libero scambio con l’Europa. Un accordo che l’Europa non ha cercato, ma che sta celebrando come una grande opportunità senza valutare che, nel grande gioco internazionale, rinforzerebbe di nuovo il ruolo egemonico globale degli Stati Uniti.

Il momento felice degli Stati Uniti pare confermato dalle intenzioni degli investitori internazionali. Per il 2013, l’indice stilato annualmente da A.T. Kearney mette in evidenza come gli USA siano diventati di nuovo la prima destinazione mondiale per gli investimenti, seguiti dalla Cina (che scende al secondo posto) e dal Brasile, che rimane in posizione invariata. È interessante notare anche i progressi registrati dal Canada e dal Messico, i “soci” più stretti degli USA.

Nelle tendenze di investimento l’Europa è presente con l’ottavo posto della Germania e il nono del Regno Unito, per poi praticamente scomparire. Per quanto riguarda gli altri Paesi Brics, India e Russia superano la Francia, e il Sud Africa si piazza meglio di Spagna e Italia.

Da questi dati e dalle mosse degli Stati Uniti, ormai decisi a combattere con la Cina la lotta per la supremazia commerciale mondiale, si evince facilmente che il mondo che uscirà dalla crisi avrà qualche protagonista nuovo e molti protagonisti in meno. Tra questi ultimi ci sarà inevitabilmente buona parte di un’Europa incapace di immaginarsi come una singola realtà, composita ma unita, anziché come una litigiosa sommatoria di Paesi.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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