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Tra le vittime della grande crisi economica iniziata nel 2008 c’è sicuramente il multilateralismo. Almeno, il multilateralismo inteso come l’armonizzazione regionale dei mercati delle merci, dei servizi e dei capitali in preparazione di un unico mercato mondiale, secondo l’orizzonte prospettato dal WTO: una realtà che già esiste nell’Unione Europea, nel Nafta e nel Mercosur, dove le merci girano senza dazi né barriere, anche se, nel caso del Nafta, lo stesso non vale per le persone. La presidenza Obama si era congedata con la fine dei negoziati per un grande accordo regionale (cioè il TPP, l’area di libero scambio di 12 Stati dell’area del Pacifico), e con il TTIP con l’Unione Europea in discussione. La presidenza di Donald Trump ha ribaltato il tavolo cambiando radicalmente strategia, passando dalla costruzione di aree di libero scambio che escludessero la Cina all’isolazionismo e alle ritorsioni per equilibrare la bilancia degli scambi laddove questa pende a sfavore di Washington.

Per questo le comunità multilaterali non interessano a Trump, perché portano benefici a tutte le parti in gioco e non modificano, se non di poco, il saldo finale. Il TPP ha subito un duro colpo da quando gli USA si sono ritirati, ma gli altri Stati del “club” hanno deciso di continuare lo stesso da soli. Trattandosi di un’area di Paesi del Pacifico, è scontato che la Cina proverà a subentrare alla potenza americana. Il TTIP pareva morto e sepolto, ma a sorpresa il segretario statunitense al Commercio Wilbur Ross ha comunicato alla commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, di essere pronto a chiedere al suo Parlamento un mandato negoziale per riaprire le trattative. È più una minaccia che una prospettiva di cooperazione: per Trump la ripresa del negoziato TTIP significherebbe tornare a insistere su quei punti che hanno precedentemente stoppato il dialogo, per esempio le questioni dell’agroalimentare e della giustizia, per poi ritenersi libero di applicare dazi e penalità all’Europa rea di non voler accettare la sua “generosa offerta”.

Dunque il negoziato, come affermava il Comitato No TTIP, non era davvero su un binario morto, e oggi potrebbe preludere a una vera e propria guerra commerciale. I contenuti critici del TTIP non riguardano più solo il principio di precauzione sull’alimentare, gli OGM o i tribunali privati. Ora quel trattato potrebbe diventare una clava da usare contro l’Unione Europea perché si adegui ai bisogni dell’inquilino della Casa Bianca. Trump deve disperatamente portare a casa risultati prima delle elezioni di midterm (cioè di metà mandato) che daranno un segnale forte per capire se la sua avventura si concluderà tra due anni oppure tra sei.

Se il trumpismo non sarà un fenomeno destinato a scomparire a breve, l’Europa dovrà rivedere le sue priorità da subito e immaginare un suo posizionamento nel mondo a prescindere da Washington. Il Mercosur sudamericano aspetta da 15 anni la firma di un accordo di libero scambio e in Africa, proprio la settimana scorsa, è nata l’African Continental Trade Area, formata da 44 Stati che elimineranno il 90% di dazi e tasse sulle merci africane e apriranno alla libera circolazione delle persone. Il futuro del multilateralismo, ai tempi dello sbando statunitense, passa sempre di più dai Paesi che fino a poco tempo fa erano ermeticamente chiusi: in questo mondo alla rovescia, almeno questa è una buona notizia. Starà all’Europa dimostrare di essere in grado di costruire con questi Paesi rapporti equilibrati e reciprocamente vantaggiosi. C’è spazio per un nuovo multilateralismo che convenga a tutti, soprattutto a quelle aree come l’Africa finora escluse dalla globalizzazione.

Alfredo Somoza per #Esteri @RadioPopolare

 

Dopo tante polemiche sulle prime misure in materia di politica estera adottate da Donald Trump, finalmente si comincia a vederne il senso, e soprattutto a capire a chi si ispira il presidente degli Stati Uniti. Ricostruendo velocemente i suoi primi passi, si parte dallo smantellamento del TPP, l’accordo economico del Pacifico che escludeva la Cina, fortemente voluto da Barack Obama, e dal congelamento del suo equivalente atlantico, il TTIP con l’Europa. Poi sono iniziate le minacce ai due Paesi nei confronti dei quali gli Stati Uniti, anno dopo anno, accumulano colossali disavanzi negli scambi commerciali: 350 miliardi di dollari con la Cina e altri 60 miliardi con il Messico. Poi la minaccia all’Europa di applicare ritorsioni sull’import se non verrà chiusa la vertenza sul blocco delle carni americane nell’Unione Europea.

Dalle intimidazioni verbali Trump è passato anche alle vie di fatto, per ribadire la potenza militare del suo Paese. Il bombardamento a colpi di missili Tomahawk di un aeroporto siriano (preventivamente svuotato di mezzi militari dai russi, che erano stati preavvertiti), il lancio in Afghanistan della bomba convenzionale più potente mai esistita, il viaggio della potente “Armada” verso la Corea. Nel complesso, il messaggio è stato chiarissimo. Prima alla Russia, all’Iran e alla Turchia, “invitate” a non provare nemmeno a spartirsi ciò che resta della Siria senza Washington al tavolo. Poi alla Cina, alla quale gli Stati Uniti hanno dimostrato che potrebbero cancellare dalla faccia della terra la Corea del Nord, storico alleato di Pechino, anche senza usare il nucleare.

I messaggi sono stati velocemente recepiti, con la Russia che ha abbassato il suo profilo sullo scenario mediorientale, accontentandosi di controllare i territori nei quali si trovano le sue basi militari siriane. E con la Cina che ha accettato una gigantesca concessione commerciale. Con l’accordo firmato tra USA e Cina la settimana scorsa, infatti, il mercato cinese si riapre alle carni statunitensi, bloccate dal 2003 per via della “mucca pazza”; inoltre la Cina apre anche alle sementi OGM prodotte dalle multinazionali USA, alle importazioni di shale gas e alle carte di credito Visa e Mastercard, che finora non potevano operare sul grande mercato asiatico. Di contro, gli statunitensi troveranno più carne di pollo nel piatto.

Come si può facilmente intuire, in questo accordo la parte del leone la fa Trump, che strappa una consistente riduzione del deficit commerciale negli scambi con la Cina. Ma Pechino cosa avrà in cambio, oltre a vendere petti di pollo? Molto, forse più di quanto ci si aspettava fino a poco tempo fa. Ma per rendersene conto occorre ampliare la prospettiva, facendo un passo indietro.

Con quest’ultima mossa Donald Trump ha inferto un’altra picconata a quel sistema di relazioni multilaterali che, in materia commerciale, è fatto da accordi bi e multilaterali e da convenzioni internazionali che fanno capo al WTO. La logica di Trump è quella di ignorare quei livelli e di costruire un sistema di accordi “one to one”, cioè bilaterali puri, nei quali far valere volta per volta la potenza statunitense, magari “agevolando” tali accordi con azioni militari dimostrative.

Le prime mosse di Trump preannunciano il ritorno degli USA all’esercizio di un ruolo di potenza “attiva”. E qui il riferimento storico è inevitabile, perché Donald Trump riprende una delle dottrine geopolitiche più antiche del suo Paese, quella enunciata dal presidente Theodore Roosevelt all’alba del ’900 e che fu battezzata Big Stick Policy, la politica del bastone. Non era esattamente la politica delle cannoniere di britannica memoria, cioè l’imposizione del proprio interesse attraverso le armi, ma una versione più diplomatica dello stesso approccio: il presidente Roosevelt sintetizzava il tutto con la frase «parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano». Il grande bastone oggi è il potere militare – senza paragoni nella storia dell’umanità – detenuto dagli Stati Uniti. Circa il parlare gentilmente, di più non ci è dato sapere.

La Cina ha compreso subito come funziona. Ha incassato il riconoscimento come principale partner asiatico di Washington e ha capito che, smantellando il TPP, gli Stati Uniti finiranno con l’agevolare indirettamente la crescita dell’influenza cinese nel Pacifico. Inoltre il picconamento americano del WTO, organismo che da sempre tiene d’occhio la Cina, potrebbe portare a un “liberi tutti” le cui conseguenze non è ancora possibile valutare, ma che sicuramente farà comodo agli interessi di Pechino.

Ecco, il mondo di Donald Trump è un mondo di relazioni bilaterali dove conta la forza militare, ma nel quale il tuo nemico può anche essere il tuo alleato: in cambio di un vantaggio economico si è disposti a “regalare” all’avversario un vantaggio geopolitico. O viceversa. Si tratta di una politica estera più che mai schiacciata sugli interessi economici della principale potenza, ma anche di una politica estera che lascia tantissimo campo libero all’iniziativa degli altri.

In politica internazionale si pone sempre una questione, che ovviamente vale anche per la politica interna: quella della serietà, del rispetto di quanto si sottoscrive insieme agli altri. Ma c’è anche un’altra questione vitale per ogni Stato – o insieme di Stati – che è quella dell’interesse nazionale. Negli USA, ancora una volta, quest’ultimo diventa il faro della politica estera. Magari, forse, un minimo di orgoglio nazionale “europeo” non guasterebbe neppure sulla nostra sponda dell’Atlantico.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

 

Con il cambio di presidenza a Washington è entrato in crisi l’intero sistema mondiale degli accordi multilaterali. Gli Stati Uniti sono usciti dal TPP, l’area di libero di scambio del Pacifico, hanno di fatto sospeso il negoziato TTIP con l’Europa e messo in discussione il NAFTA con Messico e Canada, e ora minacciano perfino l’uscita dal WTO. Un mondo alla rovescia, nel quale la Cina difende la globalizzazione e si batte contro il protezionismo mentre gli Stati Uniti diventano sabotatori del libero mercato.

L’Unione Europea, che in questo weekend celebra i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, ha invece riaperto a sorpresa un negoziato che languiva da anni. Quello con il Mercosur, l’unione di Paesi in assoluto più simile a quella comunitaria: perché tra Brasile, Uruguay, Argentina e Paraguay circolano non solo merci ma anche persone, mostrando semplicemente la carta d’identità; inoltre si sta insediando un parlamento e da anni si parla di moneta comune. I negoziati con l’Europa, iniziati nel 1995, parevano essersi bloccati dopo alcuni vertici conclusi senza successo. Addirittura negli ultimi quattro anni le parti non si sono nemmeno incontrate. Eppure lo scambio tra queste aree assomma 57 miliardi di euro di esportazioni europee e 47 miliardi di esportazioni del Mercosur. Una bilancia commerciale nettamente favorevole all’Europa, che però tentenna al momento di concludere.

Questo è accaduto perché la Francia ha esercitato il suo storico veto nei confronti di tutto ciò che riguarda il capitolo agricoltura. I Paesi del Mercosur, secondo Parigi, dovrebbero aprirsi senza dazi ai manufatti europei, mentre l’ingresso dei prodotti agricoli sudamericani sul mercato europeo dovrebbe essere contingentato. Uno scambio diseguale, impossibile da accettare visto quanto pesa l’agricoltura nell’economia dei Paesi sudamericani. Ora, però, sembra che l’aria stia cambiando, per via del naufragio del TTIP e dei timori di un mondo che si sta inesorabilmente chiudendo al libero scambio.

La Commissione ha chiesto all’Università di Manchester una simulazione delle ricadute che si avrebbero qualora si chiudesse l’accordo: e i risultati dicono che per i Paesi Mercosur i vantaggi si concentrerebbero sul settore agricolo, mentre si avrebbe un calo dell’occupazione in quel settore in Europa. In compenso l’UE avrebbe vantaggi per il suo settore manifatturiero. Fin qui nulla di nuovo. Ma c’è di più. Nonostante una crescita del PIL calcolata tra mezzo punto percentuale per l’Argentina e 1,5% per il Brasile, entrambi i Paesi sudamericani dovrebbero far fronte a un calo occupazionale dovuto al declino dei settori manifatturieri, che si concentrano nelle grandi città, non compensato dalla crescita dell’impiego nelle campagne. In buona sostanza si avrebbe un aumento del reddito agricolo ma il settore non avrebbe praticamente bisogno di manodopera aggiuntiva, essendo stato riconvertito agli OGM.

I dubbi su questo accordo non si esauriscono qui. Si legge infatti nel documento preparatorio al prossimo vertice che la modalità di risoluzione delle eventuali controversie saranno definite “alla luce dei TLC firmati recentemente”. Significa introdurre in questo accordo quella modalità ripudiata dai milioni di cittadini europei che hanno inondato Bruxelles di firme contro gli ISDS: cioè le commissioni arbitrali private che dovrebbero risolvere i contenziosi fra Stato e soggetti privati. L’Unione sta tentando di applicare, in breve sintesi, alcune delle logiche e degli strumenti dell’accordo per ora interrotto con gli Stati Uniti; e, soprattutto, pretende aperture dagli altri tenendo chiusi alcuni dei propri settori produttivi. Si tratta di un liberismo a targhe alterne fuori tempo massimo. L’Unione dovrebbe – eccome! – stabilire relazioni chiare e proficue con il Mercosur, e anche con la Cina e con i Paesi del Pacifico. Ma dovrebbe farlo definendo uno “specifico europeo” nelle relazioni commerciali internazionali, soprattutto ora che gli Stati Uniti si ritirano dalla scena internazionale. Per ora, invece, il comportamento dell’UE continua a risentire dei riflessi condizionati del periodo a stelle e strisce: un periodo che si sta chiudendo, anche se a Bruxelles non l’hanno ancora capito.

 

 

L’Unione Europea dei nostri giorni assomiglia sempre di più a un cristallo incrinato. Le piccole e grandi fratture che rischiano di mandare tutto in frantumi ormai non si contano. A est ci sono due linee di frattura, una esterna e una interna. La prima è il rapporto con la Russia, inquinato dalla politica di accerchiamento della NATO, in stallo dopo i blitz di Mosca in Crimea e in Ucraina. L’altra, interna, riguarda i Paesi dell’ex blocco sovietico entrati a fare parte dell’Unione seguendo il miraggio della stabilità e delle potenzialità del mercato comune, ma che non intendono cedere sovranità né rispettare gli standard comunitari in materia di diritti civili, ritenuti troppo alti.

A sud-ovest si consuma la frattura con la Turchia di Erdogan, prima sopportato e foraggiato in nome del contrasto all’immigrazione, ora considerato invece un provocatore dell’Unione stessa. A sud c’è la frattura più profonda, quella mediterranea, con l’impossibilità di dialogare con la sponda meridionale del mare nostrum in preda a una crisi profonda che, nel caso della Libia, ha portato al collasso dello Stato.

Sul fronte atlantico si delinea un’altra doppia frattura. La prima con gli Stati Uniti di Trump che rinnegano il negoziato per la creazione di un area di libero commercio con l’UE e annunciano una battaglia commerciale a colpi di protezionismo, l’altra con il Regno Unito, che non ha mai amato l’Europa unita e ha deciso di uscirne. Ma non è finita, c’è anche la  frattura generata dagli impegni di bilancio sottostanti alla moneta unica, che vede schierati i “rigoristi” del Nord contro i “flessibilisti” del Sud.

A 60 anni dalla nascita della Comunità Economica Europea tutto lascia intuire che, alla fine, non hanno vinto i fautori dell’ipotesi federale, i cosiddetti Stati Uniti d’Europa, ma piuttosto coloro i quali vorrebbero spostare il percorso europeo verso un semplicissimo mercato unico. Un’era di libero scambio per merci e servizi senza altri vincoli, per la quale paradossalmente si è sempre battuto il Regno Unito: merci libere di viaggiare, persone bloccate dai muri. E sono proprio i muri i simboli di questa regressione, perché nascono proprio in quei Paesi che, per decenni, sono rimasti dietro la “cortina di ferro” sovietica, e che ora rifiutano assistenza a chi scappa da guerre e persecuzioni.

Al di là di come andrà a finire la questione-Brexit, si è tornati a parlare di una vecchia idea, la fantomatica “Europa a due velocità”. Una cerchia di Paesi che si impegnano a rinforzare i legami reciproci e altri Paesi che, invece, si accontentano di partecipare al mercato comune. Se questa linea si imponesse, sarebbe la più bruciante sconfitta per le politiche di questi ultimi 20 anni di allargamento dei confini senza costrutto, di lancio di una moneta senza Stato, di strategie di difesa senza eserciti: una linea che ha creato più danni che benefici.

L’Europa a 28, senza strumenti di governance e veri poteri decisionali, è diventata un elefante paralizzato. L’accelerazione della moneta unica senza una Costituzione comune, la mancata armonizzazione fiscale, la sperequazione delle politiche sociali, le delocalizzazioni interne sono oggi nell’occhio del ciclone dell’opinione pubblica. In buona parte la frittata è fatta: ora bisogna capire come uscirne. Innanzitutto, ed è un presupposto senza il quale tutto il resto si renderebbe inutile, a 60 anni dalla nascita della Comunità i leader che parteciperanno ai festeggiamenti di Roma si dovrebbero guardare in faccia, e con onestà dirsi se sono o non sono disponibili ad andare avanti. Le “due velocità” dovrebbero trasformarsi in un “dentro o fuori”. Se resteranno solo i legami commerciali, non ci sarà nemmeno bisogno di una grande burocrazia, e meno ancora di un Parlamento europeo. L’UE ci costerebbe molto meno, ma perderemmo molte conquiste non solo materiali. Perderemmo soprattutto la cittadinanza dell’unica regione del pianeta nella quale si è tentato di costruire un’area di civiltà e democrazia, e non solo un recinto economico. Un tentativo che – anche se in queste ore molti lo dimenticano – per la prima volta nella storia europea ha evitato guerre e fame.

Oggi i nemici dell’Europa comunitaria, interni ed esterni, sono numerosi e si moltiplicano. Ed è anche questo un segnale che la posta in gioco continua a essere alta.

 

L’agonia del WTO

Pubblicato: 12 marzo 2017 in Mondo
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Quando, il primo gennaio del 1995, sulle rive del Lago di Ginevra in Svizzera si inaugurava la sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO in inglese, il fenomeno che è stato definito “globalizzazione dei mercati” era al centro della politica mondiale. Il WTO nasceva da un dibattito cominciato nel 1986 con l’Uruguay Round, finalizzato a stabilire regole condivise per il commercio mondiale. Un percorso, quindi, partito quando ancora erano in vita l’Unione Sovietica e il blocco che a essa faceva riferimento.

Al WTO, istituito per regolamentare gli scambi dei Paesi del blocco occidentale, oggi aderiscono a pieno titolo 164 Paesi, mentre altri 22 hanno lo status di osservatori. E non partecipano solo i Paesi a economia di mercato, ma anche gli ultimi Stati che si definiscono socialisti, come Cina e Cuba, con la sola eccezione della Corea del Nord.

In realtà il WTO non ha svolto solo il ruolo di semplice regolatore degli scambi, ma ha contestualmente promosso l’apertura dei mercati mediante la rimozione di barriere doganali e protezionismi. Un approccio, questo, gradito anche ai Paesi ancora considerati del Sud del mondo che, per esempio, vedevano frapporsi una barriera inespugnabile tra il loro export agricolo e il grande mercato europeo o statunitense. Ma proprio sull’agricoltura il WTO ha registrato la sua prima grande sconfitta.

Nel 2001 viene lanciato il Doha Round per integrare maggiormente i Paesi del Sud del mondo nell’economia mondiale, agendo sul commercio di beni agricoli e servizi. Ma già nel 2003 il meccanismo si inceppa, con il fallimento del Vertice WTO a Cancún, in Messico. I Paesi non occidentali, infatti, si rendono conto che da un lato il WTO chiede loro di aprirsi alle merci e ai servizi “made in USA” o “made in Europe”, mentre dall’altro i mercati europei e nordamericani rimangono chiusi ai prodotti agricoli provenienti dal resto del pianeta: in USA e UE l’agricoltura continua a essere fortemente sovvenzionata e protetta dai governi. Alla prova dei fatti, proprio gli Stati che chiedevano di liberalizzare i commerci mondiali si oppongono a liberalizzare i loro mercati interni.

Il Doha Round è ormai moribondo: nel frattempo quei Paesi che hanno coalizzato il resto del mondo contro il blocco occidentale sono diventati protagonisti globali, dando vita al gruppo dei Paesi Brics e al G20 che, di fatto, ha preso il posto del G7. Ma il WTO non è scomparso. È rimasto soprattutto a fare da arbitro nelle controversie sugli Stati per quanto riguarda la validità degli accordi sottoscritti e i casi di dumping, cioè di concorrenza sleale attraverso prezzi bassi perché sovvenzionati dai governi. Sono migliaia le cause discusse in questi anni davanti all’organo di risoluzione delle controversie del WTO. Un tribunale vero e proprio, che dirime e impone multe e sanzioni interpretando gli accordi sottoscritti dagli Stati.

Uno dei Paesi più presenti nelle controversie è paradossalmente quello che, finora, ha ottenuto più vantaggi dalla globalizzazione: gli Stati Uniti. Washington ha promosso in questi anni 114 azioni contro altri Paesi, di cui 19 contro l’Unione Europea, ricevendo a sua volta 129 denunce per avere violato le regole del WTO, 33 delle quali da parte dell’UE. E gli Stati Uniti sono presenti come parte terza in altre 137 cause. Uno stillicidio di procedimenti, un meccanismo che fagocita i suoi stessi ideatori. E che dimostra come l’apertura mondiale dei mercati, che puntava a essere illimitata e a superare ogni ostacolo, nella realtà sia stata evitata centinaia di volte, usando strumenti che dovevano essere messi al bando.

Adesso il WTO rischia l’affossamento definitivo: pare che – come preannunciato – la nuova amministrazione statunitense stia cercando il modo di aggirare le sue normative, arrivando perfino a minacciare l’uscita dall’organizzazione. L’idea degli scambi commerciali di Donald Trump non è esattamente quella del movimento no global, che si batteva per un altro mondo possibile. Non è quella di un riformatore intenzionato a ridiscutere le regole affinché la globalizzazione sia un vantaggio e non un problema. Il suo è semplicemente il vecchio modello ottocentesco delle cannoniere: dividi i rivali, esercita la tua forza nel confronto uno a uno e porta a casa risultati vantaggiosi solo per te. America first, il resto del mondo si accomodi.

 

Poche volte nella storia, forse mai, in così pochi giorni un presidente degli Stati Uniti è riuscito a polarizzare l’opinione pubblica non solo del suo Paese ma del mondo intero. Superano ormai la decina le categorie di persone offese o direttamente colpite dalle prime misure del successore di Obama. Molti scoprono con sgomento che Donald Trump sta provando a mettere in atto, e da subito, tutto ciò che ha promesso in campagna elettorale. Ed è questa la grandissima novità, un politico che continua a parlare chiaro anche ora che siede alla Casa Bianca, e soprattutto che vorrebbe mantenere fede agli impegni presi con gli elettori.

La cultura politica del neopresidente è meno che elementare. Da imprenditore non è abituato alla mediazione, ma a cercare di ricavare il massimo profitto oppure a far saltare il banco. Nella testa di Trump c’è una precisa scala di priorità: tutto è secondario rispetto a quell’America first che non riguarda solo la precedenza dei cittadini statunitensi rispetto agli immigrati, ma anche quella dell’economia locale rispetto all’economia globale. Ed è questo il punto di frattura più profondo nella storia recente della potenza americana. Il primo atto esecutivo firmato da Trump è stato l’uscita dal TPP, cioè dal trattato di libero scambio tra 11 Paesi del Pacifico voluto e negoziato da Barack Obama. Un capolavoro della diplomazia di Washington che avrebbe messo alle corde Pechino, isolando la Cina da un gigantesco mercato proprio nel suo cortile di casa. I cinesi, infatti, stanno ancora stappando bottiglie per festeggiare questo inaspettato regalo che offre loro la possibilità di candidarsi a guida della macroregione orientale. E possiamo considerare definitivamente morto anche l’altro grande trattato commerciale in discussione, il TTIP con l’Europa.

Ma non è solo sul fronte degli accordi commerciali che l’aria è cambiata. Trump ha rilasciato due dichiarazioni che potrebbero cambiare la geopolitica mondiale. Da un lato ritiene la NATO obsoleta – e chi può smentirlo! – dall’altro ha giurato che mai impegnerà il suo Paese in imprese belliche che abbiano come obiettivo rovesciare un regime senza avere una soluzione pronta per il dopo. E anche queste sembrano parole sensate, se si pensa ai disastri iracheno, libico, siriano, afgano. Ma la realtà è che non si tratta di saggezza, bensì della semplice applicazione dello slogan America first: nel senso di far prevalere l’interesse immediato degli Stati Uniti evitando di caricarsi dei costi legati al ruolo di gendarme del mondo. È una sorta di ritorno all’Ottocento, quando gli USA erano ripiegati su se stessi, ancora impegnati nell’espansione territoriale verso ovest, e gli interventi all’estero si limitavano a tutelare interessi contingenti in America Latina, Africa o Asia. Una potenza con meno pretese, che gira i cannoni della spesa pubblica verso l’interno del Paese recuperando risorse dai risparmi sul dispositivo militare.

Con Trump si sancisce così la fine definitiva dell’illusione dell’unipolarismo, cioè della possibilità che un solo Paese potesse tenere le redini dell’ordine internazionale. Nascerà un ordine multipolare, che c’è già nei fatti, con gli USA, la Russia e la Cina. Ma senza l’Europa. Ci aspettano una nuova Jalta e una nuova spartizione delle aree di influenza. L’America di Trump sarà più piccola dell’America imperiale di Bush o Clinton, ma più realistica: con questo presidente gli Stati Uniti non saranno più alleati scontati per nessuno. I cosiddetti valori dell’Occidente – la democrazia e il rispetto dei diritti umani come linee guida per sancire alleanze e combattere guerre – vengono consegnati alla Storia. Conteranno solo gli interessi, come ai tempi delle cannoniere. L’Europa ancora frastornata dalla Brexit, e a rischio sfaldamento, ne prenda atto subito.

 

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Gli impegni presi da Donald Trump in campagna elettorale, parzialmente confermati nel suo video sui primi cento giorni di governo, hanno gettato nel panico le istituzioni comunitarie europee, che hanno capito di dover archiviare per molto tempo ogni ipotesi di accordo transatlantico di libero scambio con gli USA. E che probabilmente dovranno mettere mano al portafoglio per ripagare l’ombrello militare a stelle e strisce della NATO, incluse le armi di deterrenza nucleare.

Anche il Giappone è preoccupato per gli stessi motivi: maggiori costi per mantenere le truppe statunitensi presenti nel Paese fin dall’epilogo della Seconda guerra mondiale e fine annunciata del TPP, l’area di libero scambio del Pacifico con la quale Barack Obama riconosceva un ruolo importantissimo a Tokyo per mettere fuori gioco la Cina.

In pochi giorni, infatti, questi scenari sono radicalmente cambiati. Anche se l’annunciato muro al confine meridionale pare non rientrare  fra le priorità di Trump, la minaccia di imporre un dazio del 35% alle merci importate negli USA dal Messico potrebbe praticamente annichilire il Paese latinoamericano, che per il 70% del suo commercio estero dipende dall’export verso nord, nell’ambito dell’accordo Nafta che include anche il Canada.

Uno solo dei Paesi minacciati di ritorsioni anti-dumping e di barriere doganali non ha fiatato: anzi, è tornato a giocare a tutto campo, sperando che il “vuoto” americano finisca con l’offrirgli ulteriori opportunità. Si tratta della Cina che, per quanto Trump possa minacciare, detiene 1.270 miliardi di dollari in bond emessi dal Tesoro statunitense.

Ma è sul piano produttivo che i rapporti tra i due Stati difficilmente potranno cambiare di molto. Il 20% della produzione cinese finisce sul mercato statunitense, ma il 60% di queste merci è prodotto da aziende a stelle e strisce. Imprese che hanno delocalizzato, ma che continuano a pagare le tasse negli Stati Uniti. Questo grande sbilanciamento produce 350 miliardi di dollari annui di deficit commerciale, ma al tempo stesso favorisce in buona parte imprese americane. Insomma, siamo di fronte a un grande pasticcio e a una dipendenza reciproca tra potenze come non era mai esistita prima: l’esatto opposto di quanto succedeva durante la Guerra Fredda tra l’URSS e gli USA.

L’apparente serenità cinese davanti a un presidente statunitense ostile nasconde in realtà un grande lavorìo diplomatico che si è svelato a Lima durante i giorni della Conferenza dei Paesi APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation). Nella capitale peruviana, il presidente Xi Jinping ha dichiarato che l’obiettivo del suo Paese è assumere la direzione esclusiva nei negoziati per il libero scambio nell’area del Pacifico, colmando il vuoto che sicuramente sarà provocato dalla sospensione dell’accordo TPP.

Torna prepotentemente d’attualità una delle sigle meno conosciute a livello internazionale, il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), del quale fanno parte la Cina, l’India e una dozzina di altri Paesi che assommano il 48% della popolazione mondiale e il 30% del PIL planetario. Ora questo accordo di libero scambio fa gola agli stessi Paesi che avevano scommesso sul TPP e che si vedono costretti a correre ai ripari. Il primo a compiere il passo formale per aderire alla cordata cinese è il Perù: sarebbe il primo Stato americano a entrare in questo partenariato cui già aderiscono Australia e Nuova Zelanda.

Nel rompete le righe generale si segnala anche l’accordo raggiunto tra 6 Paesi centroamericani e la Corea del Sud.

Insomma, la globalizzazione e le interconnessioni dell’economia mondiale non si fermano perché un presidente, pur se a capo della prima potenza mondiale, decide di mettere i bastoni tra le ruote. Anzi, i primi danneggiati dal nuovo corso sarebbero le aziende del suo Paese (multinazionali che la globalizzazione dei mercati l’hanno voluta e gestita) e i consumatori statunitensi, che pagherebbero carissimi quei prodotti arrivati dall’estero che acquistano tutti i giorni. Ora Trump ha tutto il tempo per esibirsi in una di quelle capriole che i populisti ci regalano spesso, e di fare il contrario di quanto promesso. Ma è bastata la sensazione che il gatto volesse ritirarsi per dare il via alle danze dei topi.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

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 Il WTO (World Trade Organization) ha appena pubblicato uno studio che conferma, dati alla mano, una realtà ormai percepibile a occhio nudo: il rallentamento degli scambi commerciali mondiali, motore della globalizzazione dei mercati. Per il 2016, infatti, il WTO rivede le previsioni sulla crescita degli scambi commerciali globali abbassandole dal 2,7% al 1,7%. Un dato inferiore all’attesa crescita economica mondiale, che era stata stimata al 2,2%. Un dato così basso non si registrava da 15 anni, ad eccezione di quel “maledetto” 2009 in cui si registrarono per la prima volta le conseguenze della crisi iniziata l’anno prima con lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli USA.  In alcuni casi la portata del calo è impressionante. Per esempio l’America meridionale, colpita per ultima dalla crisi, nel 2016 importerà l’8,3% in meno di merci e servizi rispetto all’anno prima. Una lettura superficiale di questi dati porterebbe ad attribuire tutte le colpe alla crisi, che dopo quasi 10 anni non accenna a chiudere il suo ciclo… confermando di non essere affatto ciclica, come tante altre crisi prima, ma di avere caratteristiche di tipo strutturale.  Il direttore del WTO, Roberto Azevêdo, però la pensa diversamente. E spiega che si tratta di un rallentamento che «deve dare la sveglia contro il diffondersi di idee anti-globalizzazione». La sua è quindi una lettura politica. Il calo degli scambi internazionali sarebbe il risultato del combinato disposto tra la crisi economica e il ritorno alle chiusure protezionistiche anche in Paesi come gli Stati Uniti, paladini mondiali dell’apertura dei mercati. Quando parla di idee non global, Azevêdo non si riferisce di sicuro ai reduci dei forum sociali di Porto Alegre, come lui stesso, ma all’azione di governi che in tutto il mondo, senza fare troppo rumore, negli ultimi cinque anni hanno introdotto centinaia di dazi e di barriere non tariffarie.  Ciò che sta andando in crisi, allora, è il concetto stesso di globalizzazione così come lo intende il WTO, cioè di un mondo totalmente aperto e senza ostacoli agli scambi di merce e servizi (ma non di persone, ovviamente). Anche se molto è stato fatto in direzione della globalizzazione, questa utopia sta definitivamente cedendo sotto i colpi dei neo-protezionisti. Quelli insospettabili, come Barack Obama, e quelli palesi, come Putin o la Cina.  In questo clima vanno lette le difficoltà che hanno portato alla paralisi non solo del TTIP, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti tra Stati Uniti ed Europa, ma anche di altri accordi già sottoscritti e non ancora ratificati, come il CETA tra UE e Canada e il TPP tra Stati Uniti e Paesi del Pacifico. È figlia di questo clima anche la voglia di autonomia da Bruxelles manifestata da molti Stati europei: dalla clamorosa Brexit inglese al malessere serpeggiante nei Paesi dell’Est. Un sentimento che trova il suo apice nel programma economico di Donald Trump: fine di tutti gli accordi commerciali, imposizione di barriere tariffarie ai prodotti di importazione, strangolamento economico della Cina.  Insomma, le merci vengono percepite come straniere perché danneggiano la produzione nazionale, proprio come le persone migranti rovinerebbero l’armonia delle società del benessere. Davanti a fenomeni che non si riesce a decifrare, ancora una volta l’insicurezza sociale diffusa trova sfogo e “spiegazione” nell’autarchia, nella xenofobia, nell’isolazionismo. Il sogno della globalizzazione che risolve tutto degli anni 2000 sta andando velocemente in soffitta, ma ciò che sta arrivando al suo posto assomiglia a un incubo. Forse non sbagliavano i reduci di Porto Alegre quando, per tempo, invitavano a lavorare per un altro mondo, per un’altra globalizzazione possibile.

 Alfredo Somoza

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Nelle trattative in corso tra UE e USA per il TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti) il nodo dei marchi di tutela dell’agroalimentare (DOP, IGP, STG) non è stato ancora affrontato. E questo perché, in linea di principio, non vi sono gli estremi per discuterlo. Nel senso che l’Europa ha sviluppato nei decenni un vasto programma di sostegno e di riconoscimento della tipicità, la territorialità e la trasparenza sull’agroalimentare, mentre negli Stati Uniti tali dimensioni sono ignorate dalla legge e rimangono oggetto di lotta, per affermarli, soltanto da parte delle associazioni di consumatori. Un vuoto legislativo, voluto, che ha fatto prosperare il cosiddetto “italian sounding”, cioè i prodotti che “suonano” italiani, ma che italiani non sono. Formaggi, prosciutti, vini, prodotti negli Stati Uniti per il mercato locale e che in Europa non possono entrare, anzi, sono contrastati dalla legislazione europea che perseguita e punisce gli importatori (non solo statunitensi) che violano le normi vigenti. Da una recente inchiesta promossa dal Consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano tra i consumatori a stelle e strisce di formaggio “parmesan” (il finto parmigiano) si apprende che il 67% degli acquirenti è convinto che si tratti di “formaggio italiano”. Questo dato smentisce la tesi dei falsari di oltreoceano, che in modo ingannevole utilizzano un marchio europeo per commercializzare il loro prodotto, spiegando che il “parmesan” è ormai considerato dai consumatori un formaggio “americano”. Il punto che si pone ora nel negoziato TTIP è che il riconoscimento anche negli USA dei prodotti europei marchiati DOP o IGP potrebbe danneggiare i produttori di cloni e soprattutto impedirebbe loro di penetrare il ricco mercato europeo. Ed è qui che scatta la “mediazione possibile”, su modello del CETA (Accordo di libero scambio Canada-Europa), con la probabile elencazione di un numero di prodotti europei e americani che saranno tutelati sia nella versione originale sia nella versione fasulla. Una buona soluzione per il negoziatore italiano Paolo De Castro perché, davanti al fatto che già negli USA 9 prodotti su 10 sono finti italiani, “peggio di così non potrebbe andare”. Cioè in sostanza si sta per smantellare il sistema di garanzie e di tutele che in questi anni hanno premiato i produttori virtuosi che investendo sul prodotto hanno moltiplicato le eccellenze dell’agroalimentare. Una perdita secca per l’Italia che è il paese da record con 161 DOP, 106 IGP e 2 STG iscritti nel registro UE.

Com’era prevedibile, nel capitolo agroalimentare, non considerato “prioritario” nel mandato negoziale del TTIP, si andrà sul riconoscimento reciproco penalizzando fortemente l’Europa e in particolar modo l’Italia. Il Parmigiano Reggiano, già presente sul mercato statunitense, manterrà la sue nicchie di mercato per consumatori di fascia alta, mentre noi saremo invasi da “parmesan” a bassissimo costo che andrà ad erodere i mercati terzi europei (Germania, Francia, Gran Bretagna) finora sbarrati alle contraffazioni.

Questa è solo una delle conseguenze prevedibili del TTIP che a conti fatti, e dai numeri forniti dalla Commissione Europea, dovrebbe produrre un modesto aumento dello 0,5% del PIL comunitario entro il 2027. In quali settori e in quali paesi non è dato sapere.

 

Alfredo Somoza

 

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La Commissione europea ha appena annunciato il suo piano per la riforma del meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS), la controversa clausola che garantirebbe agli investitori esteri la possibilità di citare in giudizio gli Stati qualora emanassero regolamenti o normative che mettono a rischio le loro aspettative di business. Questo è uno dei punti più contestati dell’Accordo tra USA e Europa (TTIP), attualmente in discussione
La nuova proposta, annunciata nel maggio scorso dalla commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, è stata accolta dal Parlamento europeo durante il voto sulla relazione Lange dello scorso  10 luglio. La riforma della clausola è un tentativo di dar vita ad una Corte arbitrale internazionale con competenza sugli investimenti che sostituisca il tradizionale arbitrato privato nel TTIP e nei futuri trattati di libero scambio. Nelle intenzioni della Commissione «il nuovo sistema sarà composto da giudici qualificati, gli atti saranno trasparenti e i casi verranno giudicati sulla base di regole chiare. Inoltre, la Corte sarà soggetta a revisione da parte di un nuovo tribunale di appello».

La riforma annunciata non scioglie il nodo dell’equità davanti alla legge perché la nuova corte arbitrale manterrebbe intatti i privilegi di gruppi privati nei confronti della società civile. Mantenendo la possibilità per le imprese di scegliere se rivolgersi a questo tribunale internazionale o utilizzare quelli nazionali, creando quindi una scappatoia per aggirare la giurisdizione pubblica negli Stati. Le grandi imprese non saranno dunque tenute a seguire l’iter cui sono invece obbligati tutti i cittadini dell’Unione prima di poter adire la Corte di Giustizia europea. La nuova Corte, inoltre, non prevede l’esclusione di arbitri che fino ad oggi hanno fatto nella grande maggioranza dei casi gli interessi delle aziende. Anzi, la riforma proposta dalla Commissione europea li innalza al rango di giudici, cui spetta una percentuale del risarcimento finale. In tal modo, si legittima l’investitore a chiedere compensi milionari o miliardari ai governi. Tanto più alte saranno le richieste, tanto più salirà la parcella del giudice in caso di condanna dello Stato. Un principio che urla vendetta rispetto ai fondamentali del diritto circa l’imparzialità e la mancanza di conflitto di interessi da parte del giudicante.
Quale sia il rapporto tra l’introduzione di questa nuova corsia giuridica riservata ai privati e l’aumento degli investimenti e dello scambio di merci, come si auspica l’Accordo, nemmeno la commissaria europea Malmström riesce a spiegarlo, riconoscendo addirittura che non vi sia alcun rapporto diretto. Non una clausola per favorire il buon andamento del negoziato, ma la creazione di nuovi meccanismi giuridici che superano quelli esistenti senza apparente necessità.  E’ stato confermato inoltre che la nuova proposta non si applica al CETA, l’accordo Ue-Canada il cui testo attende la ratifica del Parlamento europeo. Lasciare quindi intatto l’ISDS nel CETA significa garantire una scorciatoia alle multinazionali statunitensi intenzionate a denunciare gli Stati europei utilizzando il vecchio sistema perché potrebbero chiedere risarcimenti sfruttando le loro sussidiarie in Canada.
La proposta europea non è ancora testo legale e necessita dell’approvazione degli Stati Uniti, ma conferma il disinteresse della Commissione verso la schiacciante opposizione pubblica all’attribuzione di tutele speciali per gli investitori esteri. Il negoziato per il TTIP si conferma sempre di più come un contenitore che introduce regole e riforme che vanno ben oltre gli obiettivi dichiarati di eliminare i vincoli per la circolazione di merci e servizi tra gli Stati.

 

Alfredo Somoza

 

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