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Il referendum celebrato in Ecuador domenica 21 aprile ha smentito luoghi comuni e confermato una tendenza già evidente. I cittadini erano chiamati a rispondere a ben 11 quesiti, proposti dal presidente Daniel Noboa, che andavano a incidere sulla “Carta Magna” del Paese, ovvero sulla Costituzione promulgata nel 2008 sotto la presidenza progressista di Rafael Correa. Una Costituzione che da una parte tutela i beni comuni e garantisce la natura democratica del Paese ma dall’altra, secondo i critici, ostacola gli investimenti internazionali e lega le mani alla Giustizia.

L’Ecuador del 2008 era però molto diverso da quello di oggi. Negli ultimi anni le piccole gang criminali ecuadoriane sono state assoldate e potenziate dal cartello messicano di Sinaloa, trafficanti che hanno scelto questo Paese andino per farne una sorta di hub per la produzione e la commercializzazione della cocaina. Come in tutta l’America Latina, anche in Ecuador la realtà del narcotraffico, che esporta cocaina e distribuisce internamente soprattutto i sottoprodotti della lavorazione, come il crack nelle sue diverse varianti, è diventata incombente e ingombrante. Non solo ha inquinato la vita politica ed economica attraverso la corruzione e il massiccio “lavaggio” di denaro sporco, ma ha anche reso molto più pericolosa la vita delle persone che vivono nei quartieri più modesti, scelti dai criminali per gestire i loro traffici. Come in tutto il continente, dunque, anche in Ecuador la crescita della forza della criminalità si è saldata con il problema delle disuguaglianze sociali, rendendole ancora più profonde. Per i cartelli di narcotrafficanti è stato facile reclutare migliaia di giovani dei ceti poveri, con la promessa di farli uscire dalla miseria.

Il resto è cronaca. Nel referendum di domenica, 9 quesiti su 11 sono collegati all’emergenza-criminalità che il Paese sta vivendo. Il pacchetto include il permesso di affidare alle forze armate compiti di sicurezza interna, tema che riapre ferite risalenti al tempo delle dittature militari, ma anche la creazione di tribunali specifici per il crimine organizzato, la possibilità di estradare cittadini su richiesta di altri Stati, l’eliminazione delle misure cautelari alternative al carcere e l’aumento delle pene per reati connessi al narcotraffico e al terrorismo. Senza dubbio si tratta di una riforma ispirata a quanto sta accadendo nel Salvador di Nayib Bukele, che prevede anche la militarizzazione delle carceri con l’impiego dell’esercito. In Ecuador come nel Salvador, i cittadini diventati ostaggio della criminalità si sentono abbandonati dallo Stato. E perciò hanno votato massicciamente a favore del pacchetto referendario proposto da Noboa, come sarebbe accaduto in qualsiasi altro Paese latinoamericano chiamato a scegliere su questi temi.

Qualcuno sta già urlando alla vittoria delle destre. Tuttavia il risultato degli altri due quesiti referendari proposti agli elettori smentisce questa lettura superficiale. Noboa proponeva di sottomettere ad arbitrato internazionale le controversie tra lo Stato e le imprese e di introdurre il precariato con il lavoro a ore e intermittente: entrambe le riforme sono state bocciate dai cittadini. Ciò conferma che la richiesta di maggiore sicurezza non è un rigurgito autoritario e che in Ecuador i principi basilari che regolano i rapporti sociali restano quelli solidali consacrati dalla Costituzione del 2008. È una lezione per le sinistre latinoamericane, che raramente si sono occupate della sicurezza dei poveri in contesti gravemente permeati dalla criminalità organizzata, quasi sentendosi più vicine ai delinquenti, sempre giustificati, che alle vittime.

Dopo il grande rumore mediatico scatenato nel gennaio 2023 dall’assalto dei bolsonaristi ai palazzi del potere di Brasilia, di Brasile si è parlato relativamente poco, e soltanto per il rinnovato protagonismo internazionale sotto la guida di Lula da Silva, in particolare insieme agli altri Paesi BRICS. Ma per Lula la vera sfida è stata restituire la fiducia nello Stato ai brasiliani, provati dalla disastrosa gestione della pandemia, e insieme rilanciare un’economia ristagnante. A distanza di un anno, i numeri confermano la capacità del “presidente operaio” di gestire un’economia complessa, che per quasi sei anni era stata trascurata dalla politica. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha appena alzato il rating del Paese sudamericano da BB- a BB, il tasso di sconto è stato ridotto all’11,75%, il dato più basso dal marzo 2022, ed è scesa anche l’inflazione annua, prevista dalla Banca Centrale al 3,25% per il 2024. Una riforma sostanziale è stata quella tributaria, rimandata da decenni, che offrirà agli investitori internazionali un quadro certo. Riprendendo la tradizione industrialista del suo partito, Lula ha appena annunciato un maxi-piano di investimenti di quasi 60 miliardi di dollari USA per le imprese dell’agroindustria e della sanità, ma anche per quelle attive nella trasformazione digitale e nella decarbonizzazione.

Resta sempre delicato il dossier Amazzonia, dopo il calo dei minatori illegali, dimezzati dalle espulsioni operate in questi mesi dall’esercito, e il ripristino dei sistemi di sorveglianza satellitare per la prevenzione degli incendi. La foresta soffre però le conseguenze di una grave siccità prodotta dai cambiamenti climatici e ripristinare l’equilibrio naturale è sempre più difficile. Gli ambientalisti hanno criticato la richiesta di adesione all’OPEC avanzata del governo brasiliano, che l’ha giustificata come misura di accompagnamento verso l’abbandono dell’energia fossile: è da vedere se la promessa sarà mantenuta. Sul piano sociale, i programmi di sostegno alimentare e alle famiglie sono stati riportati ai livelli di otto anni fa, dopo i tagli della presidenza Bolsonaro.

In un lasso di tempo molto breve, appena un anno, la situazione del Brasile appare indubbiamente migliorata: la stabilità macroeconomica del Paese è stata riconquistata, il suo profilo industriale rilanciato, gli aspetti sociali più emergenziali tamponati. In realtà, non erano questi i temi centrali quando i brasiliani scelsero Lula. Si trattava di salvare la democrazia ipotecata da un presidente fortemente ideologizzato e sostanzialmente incapace di governare un grande Paese. Lula ci ha aggiunto del suo, ben sapendo che Bolsonaro era figlio degli anni di instabilità che lo avevano preceduto, dopo l’impeachment contro Dilma Rousseff. Ora il punto è capire se basterà un Paese stabile, che difende l’ambiente, dà speranza ai poveri e fa crescere l’economia per neutralizzare i tribuni alla Bolsonaro o alla Milei. Questo è il principale interrogativo che in molti si pongono in questi tempi dominati dai social network, attraverso i quali si costruiscono realtà parallele, si diffondono fake news, si alimenta l’odio e si costruiscono leadership. Con Lula, in Brasile è tornata la politica dei fatti, a dimostrazione che le promesse elettorali possono essere rispettate e che, per governare, non occorre gridare o insultare. Ma il mondo è ancora capace di apprezzare una classe politica che fa seriamente il suo lavoro e non passa il giorno a twittare? La domanda rimane senza risposte, almeno per ora. Al di là di queste riflessioni, valide a livello globale, l’esperienza appena iniziata del terzo mandato di Lula sarà il banco di prova per tutta la vecchia sinistra latinoamericana, schiacciata tra populismi fallimentari e utopie irrisolte: il pragmatismo e i conti in ordine possono convivere con politiche progressiste e con una giustizia sociale e ambientale? Parrebbe di sì, ma bisogna vedere se gli elettori sono d’accordo. 

Ci sono tutti gli elementi perché diventi uno di quei film che presentano l’America Latina attraverso i suoi stereotipi. Stiamo parlando della vicenda della Guayana Esequiba, un territorio di 160mila chilometri quadrati che costituisce i due terzi della Repubblica Cooperativa della Guyana (l’ex Guyana Britannica). Gli ingredienti della fiction ci sono tutti: oro e foreste inestricabili, petrolio, dittatori e un’ambientazione esotica, un Paese tropicale che pare inventato dalla fantasia di un romanziere. Basti pensare che la Guyana è popolata al 40% da indiani, non nel senso di indios ma di discendenti di abitanti dell’India, che furono portati fin qui dai colonialisti inglesi. L’improvvisa notorietà di un lembo d’Amazzonia che pareva dimenticato da Dio si deve al fatto che, pochi anni fa, vi sono stati scoperti ricchi giacimenti di greggio, stimati in 11 miliardi di barili. Così il presidente venezuelano Nicolás Maduro si è ricordato che la Guayana Esequiba è da tempi lontani contesa tra il suo Paese e la Guyana, e a inizio dicembre ha organizzato un paradossale referendum “non vincolante” in cui ha domandato ai venezuelani se volessero rientrare in possesso di quella regione. È andata a votare circa la metà degli aventi diritto e con il 95% ha vinto il “sì” al passaggio della Guayana Esequiba a Caracas.

Subito Maduro ha chiesto alle compagnie energetiche venezuelane di entrare nella regione e di avviare estrazioni petrolifere, come se il referendum bastasse a rendere quel territorio davvero “suo”. Il blitz venezuelano ha fatto saltare in aria il lavoro della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, che dal 2018, su richiesta della Guyana, stava esaminando il caso dell’appartenenza della Guayana Esequiba. La vicenda risale al periodo coloniale. La Repubblica Cooperativa della Guyana afferma la legittimità dell’attuale confine, ratificato da un tribunale arbitrale nel 1899. Il Venezuela nega la validità di quella sentenza e pretende il ritorno al più antico confine tra i possedimenti coloniali spagnoli (nei quali rientravano sia il Venezuela sia la Guayana Esequiba) e quelli olandesi, divenuti poi in larga parte britannici. Si tratta di una lite per la sovranità su un territorio che, in realtà, fu usurpato sia dalla Spagna sia dai Paesi Bassi e dal Regno Unito ai legittimi proprietari, gli indios che ancora vivono nelle foreste. Ma questo conta poco: tutti i diritti territoriali dei Paesi americani, dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco, discendono dal diritto di occupazione che le potenze coloniali si auto-attribuirono a discapito di chi abitava quelle terre da millenni. Come facilmente prevedibile, anche questa strana “guerra di Macondo” è subito diventata una tessera nel mosaico delle tensioni geopolitiche globali. Maduro è sostenuto dalla Russia, la Guyana dagli Stati Uniti, in quello che pare un sequel della Guerra Fredda; il Brasile, che confina con entrambi i contendenti, sta tentando una mediazione pacifica, ma nel frattempo muove le sue truppe verso la regione.

Guardando il mondo da questi luoghi, è difficile pensare che la transizione energetica e il superamento delle fonti fossili avverranno in tempi rapidi. Anzi. Il petrolio rimane al centro di tensioni che possono sfociare in conflitti aperti, anche quando di mezzo c’è un Paese come il Venezuela, gigante del greggio che non riesce a sfruttare nemmeno il 50% del proprio potenziale per mancanza di investimenti e corruzione generalizzata. L’interesse degli Stati Uniti è ovvio, la Guyana ripagherà il sostegno di Washington rilasciando licenze estrattive alle compagnie statunitensi. Altrettanto evidente è la ragione del sostegno russo alla bizzarra mossa di Maduro: Mosca vuole aprire nuovi fronti caldi affinché gli Stati Uniti abbassino la guardia in Ucraina. È tutto scontato, alla luce del sole, ma non per questo meno pericoloso: finora il continente americano era rimasto fuori dalla mappa dei conflitti bellici, mentre ora la contesa per la  Guayana  Esequiba potrebbe cambiare la situazione. Se solo Maduro rileggesse la storia dei militari argentini, quelli che nel 1982 tentarono di riprendersi le Malvinas, sarebbe più cauto, perché il nazionalismo come salvagente di un regime che sta affondando è un’arma a doppio taglio. Accende sì entusiasmi immediati, ma poi il popolo si può rivoltare, quando diventa chiaro che l’irredentismo era solo un diversivo utile a far dimenticare questioni ben più gravi.

Saranno mesi molto difficili per gli argentini. Lo shock economico annunciato dal nuovo presidente, Javier Milei, mira a ridurre la spesa pubblica di un importo equivalente al 5% del PIL, ma l’obiettivo a lungo termine è raggiungere il 18% del PIL argentino, una cifra vicina agli 80 miliardi di dollari. In Argentina, contrariamente alle comuni convinzioni, la spesa pubblica totale equivale al 36% del PIL, rispetto a una media europea del 51%. Il problema risiede altrove, ovvero che la base imponibile è molto limitata perché una grande massa di lavoratori e attività economiche operano nel settore informale e, soprattutto, perché il paese è gravato da un enorme debito pubblico, che ha raggiunto i 400 miliardi di dollari nel 2023, il 90% del PIL. Si prevede che l’aggiustamento radicale della spesa pubblica, insieme alla privatizzazione di imprese statali in perdita, porterà il bilancio pubblico a pareggio entro il 2024, ovviamente secondo Milei. Ciò dovrebbe essere ottenuto superando prima un picco di inflazione previsto al 240% nel 2024, rispetto al 180% nel 2023. La liberalizzazione del dollaro, la fine del mercato parallelo, prezzi al consumatore non regolamentati e servizi pubblici pagati al costo reale senza sovvenzioni sono le parole d’ordine, ma dovranno fare i conti con una popolazione impoverita. L’amministrazione uscente di Alberto Fernández ha ricevuto un paese nel 2019 con il 35% della popolazione in povertà e lo consegna con il 40%, compresi gli estremamente poveri, per un totale di 12 milioni di argentini. Questo è uno dei fallimenti più spettacolari del movimento peronista, che, specialmente sotto la guida della coppia Kirchner, aveva adottato una retorica “progressista” dopo essere stato corporativista, neo-fascista e neoliberista in passato.

Dopo il terribile default del 2001, risultato della lunga onda di politiche monetarie degli anni ’90 con il peronista Menem, l’Argentina ha vissuto un periodo di crescita vertiginosa negli anni 2000. È riuscita a risolvere il problema del debito e ha genuinamente aiutato coloro che sono stati colpiti dal default. Tuttavia, l’eterna tentazione populista, specialmente dopo la morte di Néstor Kirchner nel 2010, insieme ai macroscopici errori economici della vedova, Cristina Fernández, è riuscita a creare ancora più poveri, mantenendo un sistema assistenzialista senza speranze, finanziato con il deficit pubblico e la stampa di moneta senza valore, oltre alla distribuzione illimitata di posizioni di potere nello stato e nelle imprese pubbliche, in mezzo a accuse di corruzione fino ai livelli più alti. L’intervallo del governo Macri, tra il 2015 e il 2019, ha solo aggiunto un nuovo gigantesco debito nei confronti del FMI senza cambiare né l’orientamento economico né la macchina assistenzialista che si nutre della povertà. La fase terminale del declino è stato il governo di Alberto Fernández, un avvocato peronista che ha insultato Cristina Kirchner per anni e poi si è alleato con lei nelle elezioni del 2019. Un governo che ha peggiorato le tendenze economiche suicide dei precedenti governi: controlli dei cambi, dollaro parallelo, restrizioni all’importazione, politiche dirigiste a caso e soprattutto spesa pubblica incontrollata senza freni né controlli. Il voto di novembre 2023, che è stata la più grande sconfitta per il peronismo, è stata solo parzialmente una vittoria per Javier Milei; ha pesato di più il voto contro i responsabili del declino degli ultimi 20 anni. E Milei, essendo un outsider, è riuscito a catalizzare il malcontento lasciando fuori dalla lizza il centrodestra storico guidato da Patricia Bullrich, poi recuperato nella composizione del suo gabinetto. Il presidente Milei non ha ideologie politiche ma solo economiche. Nel suo governo ci saranno fedelissimi dalla prima ora, figure chiave della coalizione di centrodestra arrivata terza e settori del peronismo anti-Kirchnerista, oltre a rappresentanti del mondo delle grandi imprese nazionali e multinazionali. Un governo di destra, ma di coalizione, unito nel desiderio di chiudere per sempre l’esperienza kirchnerista. Il punto è che l'”istinto animale” di Milei, anti-establishment e caotico, noto per fare l’economista pazzo in televisione, potrebbe giocare un brutto scherzo alla coalizione se davvero intende mantenere le sue promesse con gli elettori. Per ora prevale la moderazione, semplicemente perché il partito di Milei ha 7 su 72 senatori e 38 su 257 deputati. Senza i voti in parlamento dei deputati e senatori di Macri e dei peronisti anti-K, non si governa.

Per ora, le misure annunciate da Milei assomigliano molto all’esperienza del peronista Menem, che vinse le elezioni nel 1989 in mezzo all’iperinflazione. Grazie alla politica di parità tra il dollaro e il peso e alla privatizzazione delle imprese statali, Menem fornì al paese una stabilità artificiale che collassò con il default nel 2001. Molti elementi del governo di Milei provengono da quell’esperienza, ma il mondo non è più quello degli anni ’90, e ancor meno l’Argentina. In quel momento, il paese sudamericano aveva una percentuale di povertà in linea con i paesi del Mediterraneo europeo e, soprattutto, un grande patrimonio pubblico da vendere o meglio da svendere. Le carte vincenti del nuovo governo potrebbero arrivare dal gigantesco giacimento di gas naturale di Vaca Muerta in Patagonia e dallo sfruttamento del litio nell’estremo nord, oltre alle tradizionali esportazioni di prodotti agricoli. La domanda è se riuscirà a superare le inevitabili scosse politiche e sociali di un piano di aggiustamento così radicale come annunciato. Un aggiustamento, va detto, che qualsiasi candidato vincente avrebbe dovuto affrontare, anche il peronista Mazza. La questione è il tempismo e la sostenibilità politica. Due fattori che gettano seri dubbi sul futuro di Milei, ma se riesce a superare il primo anno, affrontare con successo l’inflazione e mettere in ordine le finanze dello Stato senza aumentare i tassi di povertà, potrebbe avere un futuro politico oltre il suo attuale mandato quadriennale.

In questa analisi ho intenzionalmente tralasciato il tema dei diritti umani e della Memoria, che questo governo metterà in discussione, avendo addirittura negazionisti tra le sue file su quanto accaduto negli anni ’70 in Argentina. Ci saranno sicuramente tentativi di rivendicare una cosiddetta “memoria condivisa”, evidenziando la figura delle vittime innocenti degli attacchi compiuti dei gruppi di lotta armata. Tuttavia, questi temi non hanno minimamente influenzato il dibattito pre-elettorale e non sono previste nell’agenda del nuovo governo misure particolari che li riguardino. Tutto si giocherà sul rapporto tra economia, Stato e società. Ed è su quel campo che si misurerà il successo o la sconfitta di una figura che, in soli 5 anni, grazie alla televisione e ai social media, è riuscita a trovarsi a dirigere un paese del G20.

It will be very difficult months for the Argentinians. The economic shock announced by the new president, Javier Milei, aims to reduce public spending by an amount equivalent to 5% of GDP, but the long-term goal is to reach 18% of the Argentine GDP, a staggering 80 billion dollars. In Argentina, contrary to common beliefs, the total public spending equals 36% of GDP, compared to a European average of 51%. The issue lies elsewhere, namely that the tax base is very limited because a large mass of workers and activities operate in the informal sector, and above all, the country is burdened with a huge public debt, which reached 400 billion dollars in 2023, 90% of GDP. The radical adjustment of public spending, along with the privatization of loss-making state enterprises, is expected to bring the public budget to balance by 2024, according to Milei. This is to be achieved first by overcoming an inflation spike expected to reach 240% in 2024, compared to 180% in 2023. Liberalizing the dollar, ending the parallel market, uncontrolled consumer prices, and public services paid at the real cost without subsidies are the watchwords, but they will have to contend with an impoverished population. The outgoing administration of Alberto Fernandez received a country in 2019 with 35% of the population in poverty and hands it over with 40% in poverty, including the extremely poor, totaling 12 million Argentinians. This is one of the most spectacular failures of the Peronist movement, which, especially under the leadership of the Kirchner couple, had adopted a “progressive” rhetoric after having been corporatist, neo-fascist, and neoliberal in the past.

After the terrible default of 2001, a result of the long wave of monetary policies in the 90s with the Peronist Menem, Argentina experienced a period of vertiginous growth in the 2000s. It managed to solve the debt problem and genuinely helped those affected by the default. However, the eternal populist temptation, especially after the death of Nestor Kirchner in 2010, along with the glaring economic mistakes of his widow, Cristina Fernandez, succeeded in creating even more poor people while maintaining a hopeless welfare system, financed by public deficit and worthless money printing. Add to this the unlimited distribution of positions of power in the state and public enterprises, amid corruption allegations at the highest levels. The interval of the Macri government, between 2015 and 2019, only added a new gigantic debt to the IMF without changing either the economic orientation or the welfare machine that feeds on poverty. The terminal phase of the decline was the government of Alberto Fernandez, a Peronist lawyer who insulted Cristina Kirchner for years and then joined forces with her in the 2019 elections. A government that worsened the suicidal economic trends of Cristina Kirchner’s previous governments: exchange controls, parallel dollar, import restrictions, random dirigiste policies, and above all, uncontrolled public spending without brakes or controls. The vote in November 2023, which was the biggest defeat for Peronism, was only partially a victory for Javier Milei; it weighed more on the vote against the managers of the decline of the last 20 years. And Milei, being an outsider, managed to catalyze discontent, sidelining the historical center-right led by Patricia Bullrich, later included in his cabinet composition. President Milei has no political ideologies but only economic ones. In his government, there will be loyalists from the beginning, key figures from the third-placed center-right coalition, and sectors of anti-Kirchnerist Peronism, as well as representatives of the world of national and multinational big businesses. A right-wing but coalition government, united in wanting to close the Kirchnerist experience forever. The point is that Milei’s “animal instinct,” anti-establishment, and anarchic, known for being the crazy economist on television, could play a nasty trick on the coalition if he truly intends to keep his promises to the electorate. For now, moderation prevails, simply because Milei’s party has 7 out of 72 senators and 38 out of 257 deputies. Without the votes in parliament of Macri’s deputies and anti-Kirchnerist Peronists, governance is impossible.

For now, the measures announced by Milei closely resemble the experience of the Peronist Menem, who won the elections in 1989 amid hyperinflation. Thanks to the policy of parity between the dollar and the peso and the privatization of state enterprises, Menem provided the country with artificial stability that collapsed with the default in 2001. Many elements of Milei’s government come from that experience, but the world is no longer the one of the 90s, and much less Argentina. At that time, Argentina had a poverty rate in line with countries in the European Mediterranean and, above all, a large public heritage to sell or undersell. The trump cards of the new government could be the start of production of the gigantic natural gas field in Vaca Muerta in Patagonia and the exploitation of lithium in the far north, in addition to traditional exports of agricultural products. The question is whether it will be able to overcome the inevitable political and social upheavals of such a radical adjustment as announced. An adjustment, let it be clear, that any winning candidate would have had to face, even the Peronist Mazza. The issue is the timing and political sustainability. Two factors that cast serious doubts on Milei’s future, but if he manages to overcome the first year, successfully tackle inflation, and put the state’s finances in order without increasing poverty rates, he might have a political future beyond his current 4-year term.

In this analysis, I intentionally left out the topic of human rights and Memory, which this government will challenge, having even denialists among its ranks regarding what happened in the 1970s in Argentina. There will certainly be attempts to reclaim a so-called “shared memory,” highlighting the figure of innocent victims of attacks by leftist armed forces. However, these issues did not influence the pre-election debate and are not expected to be part of the agenda of the new government with particular measures regarding them. Everything will be played out on the relationship between the economy, the state, and society. And it is on that field that the success or failure of a figure who, in just 5 years, thanks to television and social media, managed to rise to lead a G20 country, will be measured.

Serán meses muy difíciles para los argentinos. El shock económico anunciado por el nuevo presidente, Javier Milei, tiene como objetivo reducir el gasto público en un monto equivalente al 5% del PIB, pero el objetivo a largo plazo es alcanzar el 18% del PIB argentino, una cifra asombrosa de 80 mil millones de dólares. En Argentina, contrario a creencias comunes, el gasto público total equivale al 36% del PIB, en comparación con un promedio europeo del 51%. El problema radica en otra parte, a saber, que la base impositiva es muy limitada porque una gran masa de trabajadores y actividades operan en el sector informal y, sobre todo, porque el país está cargado con una enorme deuda pública, que alcanzó los 400 mil millones de dólares en 2023, el 90% del PIB. Se espera que el ajuste radical del gasto público, junto con la privatización de empresas estatales con pérdidas, equilibre el presupuesto público para 2024, según Milei. Esto se lograría primero superando un pico de inflación que se espera alcance el 240% en 2024, en comparación con el 180% en 2023. La liberalización del dólar, el fin del mercado paralelo, precios al consumidor sin control y servicios públicos pagados al costo real sin subsidios son las consignas, pero tendrán que lidiar con una población empobrecida. La administración saliente de Alberto Fernández recibió un país en 2019 con un 35% de la población en situación de pobreza y lo entrega con un 40% en situación de pobreza, incluyendo a los extremadamente pobres, un total de 12 millones de argentinos. Este es uno de los fracasos más espectaculares del movimiento peronista, que, especialmente bajo el liderazgo de la pareja Kirchner, adoptó una retórica “progresista” después de haber sido corporativista, neo-fascista y neoliberal en el pasado.

Después del terrible default de 2001, resultado de la larga ola de políticas monetarias en los años 90 con el peronista Menem, Argentina experimentó un período de crecimiento vertiginoso en la década de 2000. Logró resolver el problema de la deuda y ayudó genuinamente a quienes se vieron afectados por el default. Sin embargo, la eterna tentación populista, especialmente después de la muerte de Néstor Kirchner en 2010, junto con los evidentes errores económicos de su viuda, Cristina Fernández, lograron crear aún más pobres mientras mantenían un sistema de bienestar sin esperanzas, financiado con déficit público e impresión de dinero sin valor. A esto se suma la distribución ilimitada de cargos de poder en el Estado y empresas públicas, en medio de denuncias de corrupción hasta los niveles más altos. El intervalo del gobierno de Macri, entre 2015 y 2019, solo agregó una nueva deuda gigantesca al FMI sin cambiar ni la orientación económica ni la máquina de bienestar que se alimenta de la pobreza. La fase terminal del declive fue el gobierno de Alberto Fernández, un abogado peronista que insultó a Cristina Kirchner durante años y luego se unió a ella en las elecciones de 2019. Un gobierno que empeoró las tendencias económicas suicidas de los gobiernos anteriores de Cristina Kirchner: controles de cambio, dólar paralelo, restricciones a las importaciones, políticas dirigistas al azar y, sobre todo, gasto público descontrolado sin frenos ni controles. El voto en noviembre de 2023, que fue la mayor derrota para el peronismo, fue solo parcialmente una victoria para Javier Milei; pesó más en contra de los gestores del declive de los últimos 20 años. Y Milei, siendo un externo, logró catalizar el descontento, dejando de lado al centro-derecha histórico liderado por Patricia Bullrich, luego incluido en la composición de su gabinete. El presidente Milei no tiene ideologías políticas sino solo económicas. En su gobierno habrá leales desde el principio, figuras clave de la coalición de centro-derecha que quedó en tercer lugar y sectores del peronismo anti-Kirchnerista, además de representantes del mundo de las grandes empresas nacionales y multinacionales. Un gobierno de derecha pero de coalición, unido en el deseo de cerrar para siempre la experiencia kirchnerista. El punto es que el “instinto animal” de Milei, antiestablishment y anárquico, conocido por ser el economista loco en la televisión, podría jugar una mala pasada a la coalición si realmente pretende cumplir sus promesas con el electorado. Por ahora, prevalece la moderación, simplemente porque el partido de Milei tiene 7 de 72 senadores y 38 de 257 diputados. Sin los votos en el parlamento de los diputados y senadores de Macri y los peronistas anti-Kirchneristas, la gobernabilidad es imposible.

Por ahora, las medidas anunciadas por Milei se asemejan mucho a la experiencia del peronista Menem, que ganó las elecciones en 1989 en medio de la hiperinflación. Gracias a la política de paridad entre el dólar y el peso y la privatización de empresas estatales, Menem proporcionó al país una estabilidad artificial que colapsó con el default en 2001. Muchos elementos del gobierno de Milei provienen de esa experiencia, pero el mundo ya no es el de los años 90, y mucho menos Argentina. En ese momento, Argentina tenía una tasa de pobreza en línea con los países del Mediterráneo europeo y, sobre todo, un gran patrimonio público para vender o malvender. Las cartas ganadoras del nuevo gobierno podrían ser el inicio de la producción del gigantesco yacimiento de gas natural en Vaca Muerta en la Patagonia y la explotación de litio en el extremo norte, además de las exportaciones tradicionales de productos agrícolas. La pregunta es si podrá superar las inevitables convulsiones políticas y sociales de un ajuste tan radical como el anunciado. Un ajuste, que quede claro, que cualquier candidato ganador habría tenido que enfrentar, incluso el peronista Mazza. La cuestión son los tiempos y la sostenibilidad política. Dos factores que generan serias dudas sobre el futuro de Milei, pero si logra superar el primer año, abordar con éxito la inflación y poner en orden las finanzas del Estado sin aumentar las tasas de pobreza, podría tener un futuro político más allá de su actual mandato de 4 años.

En este análisis, dejé intencionalmente fuera el tema de los derechos humanos y la Memoria, que este gobierno desafiará, teniendo incluso negacionistas entre sus filas sobre lo que ocurrió en la década de 1970 en Argentina. Seguramente habrá intentos de reclamar una “memoria compartida”, destacando la figura de las víctimas inocentes de los ataques de las fuerzas armadas de izquierda. Sin embargo, estos temas no influyeron mínimamente en el debate previo a las elecciones y no se espera que formen parte de la agenda del nuevo gobierno con medidas particulares al respecto. Todo se jugará en la relación entre la economía, el Estado y la sociedad. Y es en ese terreno donde se medirá el éxito o el fracaso de una figura que, en solo 5 años, gracias a la televisión y las redes sociales, logró ascender para liderar un país del G20.

“It’s the economy, stupid!” fu lo slogan vincente che Bill Clinton adottò contro Bush senior quando lo sbaragliò alle elezioni presidenziali del 1992: ed è vero che qualsiasi problema diventa secondario quando i conti di un Paese non tornano. È questa la chiave di lettura corretta per spiegare il “fenomeno Milei” in Argentina. I temi che hanno trovato più spazio sulla stampa internazionale – come i diritti umani, le questioni di genere e la difesa della memoria storica, valori che sicuramente non fanno parte della cultura di Milei – nel dibattito interno all’Argentina hanno avuto una rilevanza marginale. Le questioni importanti sono state altre. In primo luogo, la necessità di una soluzione per il problema dell’inflazione, che quest’anno sta toccando il 142% e che negli ultimi tre anni si è mangiata gran parte del reddito delle famiglie. Che la ricetta sia la dollarizzazione dell’economia, come suggerito da Milei, è opinabile: ma la sua è stata l’unica proposta concreta, contrapposta al silenzio del rivale Sergio Massa, ministro dell’Economia in carica e, quindi, tra i primi responsabili del ciclo inflazionistico. L’altra questione chiave è stata la cosiddetta “lotta alla casta”, certamente non originale ma di stretta attualità in un’Argentina che arriva da vent’anni di peronismo kirchnerista. Soprattutto nell’ultimo periodo, gli scandali di corruzione e la spartizione clientelare delle poltrone delle imprese gestite dallo Stato, affidate a persone senza competenze, sono apparsi eccessivi perfino per gli standard argentini: due decenni di potere e di impunità acquisita hanno portato a eccessi ingiustificabili. La situazione risulta aggravata dall’aumento esponenziale della violenza criminale, dai semplici borseggiatori fino ai narcos, favorito da un sistema giudiziario dalle maglie troppo larghe.

La sconfitta di Massa è stata anche una vittoria delle province. Il sistema federale argentino prevede alcune tasse locali, ma le imposte fiscali più importanti, equivalenti alle nostre IVA e IRPEF, sono raccolte dallo Stato centrale, che poi le ridistribuisce sul territorio. Dal 2014 i trasferimenti alle province non amministrate dai peronisti hanno subito costanti tagli a vantaggio dei territori “fedeli”, soprattutto i comuni della periferia di Buenos Aires, storico bastione peronista. Le sovvenzioni per energia e trasporti e gli aiuti sociali sono stati assorbiti quasi tutti dalla provincia di Buenos Aires, mentre le altre venivano emarginate. E così a Córdoba, Santa Fe e Mendoza, le province più importanti dopo quella della capitale, il voto per Milei ha toccato punte del 70%.

Alla base dei populismi di nuova generazione ci sono sempre motivi profondi, che spesso vengono trascurati perché si preferisce raccontarne gli aspetti folkloristici. In America Latina poi, in società ormai spaccate, non si ammettono mai le colpe che portano alla sconfitta, a destra come a sinistra. Il quotidiano “Pagina 12” di Buenos Aires, portavoce del peronismo progressista, il mattino dopo il voto presidenziale ha pubblicato un editoriale spiegando che “il popolo ha sbagliato”. Il problema non è il governo uscente, non è la disastrata economia: è l’elettorato che sbaglia. Un classico di chi, senza mai fare autocritica, prepara la propria parte politica a nuove sconfitte. Ieri Bolsonaro in Brasile, oggi Milei in Argentina, senza dimenticare i candidati “impresentabili” arrivati fino al ballottaggio in Colombia e in Cile: le destre storiche del continente sudamericano diventano marginali di fronte all’emergere dei nuovi tribuni del popolo, in genere ultraconservatori, che riescono a fiutare il malcontento popolare e a tradurlo in proposta politica, giusta o sbagliata che sia. È una capacità che 25 anni fa ebbero i Lula, i Chávez e i Morales, spesso scivolati nel populismo di segno opposto. Oggi occorrono abilità mediatica e la capacità di scuotere le persone perché vadano a votare. Viviamo una nuova era, a cui ancora ci dobbiamo abituare, nella quale chi fa politica deve saper interpretare gli umori, le sofferenze e le aspirazioni della gente non studiando sui trattati di sociologia, ma vivendo tra le persone. E nella quale alla “predica” deve seguire un comportamento personale coerente, perché la politica di oggi è fatta da fedeltà temporanee.  

Nelle elezioni presidenziali argentine del 2023 saranno tre candidati a contendersi la massima carica politica. Soltanto due passeranno al secondo turno, che viene dato quasi per certo. Il paradosso, in un Paese che di paradossi è particolarmente ricco, è che i tre candidati sono tutti ascrivibili al campo del populismo, sia pur con sfumature e intensità diverse. Sergio Massa è il candidato peronista, sostenuto cioè dal partito fondato da Juan Domingo Perón a metà del Novecento, considerato un caposaldo del populismo a livello internazionale. Massa però non arriva dal peronismo bensì dalla destra liberale, ed è attualmente il ministro dell’Economia di uno Stato che veleggia attorno al 130% di inflazione annua e con il 44% della popolazione in condizioni di povertà. In nessun Paese al mondo un ministro corresponsabile di questa situazione potrebbe pensare di candidarsi, ma in Argentina la logica spesso viene sovvertita. Le ricette del populismo peronista-massiano prevedono un welfare clientelare di sopravvivenza, che non viene erogato dallo Stato ma da intermediari ormai diventati soggetti politici informali, finanziato stampando moneta come se non ci fosse un domani. L’inflazione ormai cronica, infatti, non è dovuta a un surriscaldamento dell’economia ma all’incessante produzione di denaro. Del resto, il cambio con il dollaro USA è controllato dallo Stato, che dichiara ufficialmente un tasso fasullo, pari alla metà di quello praticato nella realtà dal fiorente mercato del cambio illegale. Il populismo erogatore di pesos svalutati, “mangiati” dall’inflazione nel giro di un mese, è la cifra degli ultimi anni di governo del presidente Alberto Ángel Fernández, così impopolare che nemmeno si ricandida.

L’altro fronte politico, quello dell’alleanza tra liberali e radicali che nel 2015 portò al potere Maurizio Macri, candida Patricia Bullrich, rampolla di una delle famiglie più importanti del Paese e vicina, da giovane, al gruppo armato dei Montoneros. Lei sì proviene dal peronismo, ma lo ha abbandonato da almeno 15 anni. È stata ministra della Sicurezza di Macri e il suo populismo non passa dall’economia bensì dalla promessa di una svolta securitaria. L’Argentina ha da tempo un serio problema di sicurezza, dovuto da un lato alle conseguenze di una povertà crescente e, dall’altro, al radicamento del narcotraffico nei quartieri più poveri. La ricetta proposta da Patricia Bullrich per combattere questa situazione non accenna minimamente agli aspetti sociali, al ruolo della scuola e alla prevenzione, ma ripete il modello che Nayib Bukele sta portando avanti nel Salvador. Costruire cioè un gigantesco carcere “smart” nel quale rinchiudere e isolare i detenuti. Una prigione moderna, dove non si prenda Internet e lavori personale ben pagato e incentivato. Il modello del Salvador è nel mirino degli organismi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani, ma ha reso molto popolare il suo presidente. Il populismo della Bullrich si caratterizza quindi per la promessa di stroncare la delinquenza soltanto attraverso la repressione e il carcere, lasciando nell’ombra la proposta economica e sociale.

E poi c’è lui, il candidato a sorpresa che rischia di diventare presidente: l’economista Javier Milei, una versione estrema di Trump e Bolsonaro. Ripropone, radicalizzandole, le ricette elaborate dall’economista Domingo Cavallo e applicate da Carlos Menem negli anni ’90 del secolo scorso, che cambiarono per sempre (e non in meglio) lo Stato argentino. Milei ha promesso di chiudere la Banca Centrale, eliminare il peso adottando il dollaro, licenziare migliaia di dipendenti pubblici che sono stati nominati dalla “casta”, chiudere i ministeri “inutili” quali l’Ambiente o il Welfare, rompere le relazioni diplomatiche con qualsiasi Paese comunista, Cina inclusa, e cambiare la linea internazionale dell’Argentina schierandola sempre e solo con gli Stati Uniti. Il populismo di Milei è quello della “sparata”: promette ciò che sa benissimo che non potrà fare, soprattutto perché, anche vincendo, non avrebbe la maggioranza parlamentare. Ma crea aspettative, si scaglia contro i politici, anche se lui stesso lo è, e convince persone che non hanno gli strumenti per giudicare ciò che dice. Dopotutto, nasce come personaggio televisivo: ha una capacità di usare i media superiore a quella di tutti gli altri candidati.

Alle primarie obbligatorie del mese di agosto, i tre candidati si sono divisi l’elettorato in fette quasi uguali. Un terzo di voti a testa per ciascuna sfumatura di populismo. Forse, ancora una volta, l’Argentina anticipa i tempi rispetto al futuro che ci aspetta. Abbiamo già conosciuto gli Orbán, i Bolsonaro, i Trump, ma in contesti dove c’erano forze responsabili in grado di contrastarli. In Argentina non è così. L’intera offerta politica ha il marchio di fabbrica del populismo, che non è sinonimo di una politica “popolare”, non lavora per elevare la condizione economica e culturale della gente, ma usa il popolo per raggiungere i propri obiettivi, assecondando e amplificando gli umori della strada. In Argentina vincerà chi sarà in grado di lisciare il pelo degli elettori con le promesse, vere o false, che faranno più rumore, che sembrino più rivoluzionarie e facciano sognare, almeno per quei pochi giorni che passano tra l’insediamento di un presidente populista e la smentita delle promesse fatte in campagna elettorale.

Il cambiamento climatico incide sempre più sulla vita quotidiana delle persone in tutto il mondo. L’ultimo caso di cronaca viene dal Paese dove il riscaldamento anomalo del Pacifico fu battezzato con il nome di Niño: il Perù. Come in tutti i Paesi del Pacifico americano, in Perù si fa largo uso dell’agrume che chiamiamo lime. È un ingrediente essenziale del piatto nazionale, il ceviche, a base di pesce o molluschi crudi marinati, appunto, nel succo di questo frutto. Ma gli effetti dell’ultimo Niño costero, e cioè le anomale precipitazioni che si sono registrate sulle coste del Pacifico, hanno portato alla scarsa fioritura degli alberi di agrumi, favorendo una moltiplicazione delle altre piaghe che possono colpire queste colture e determinando un crollo della produzione di lime. Come sempre accade in casi simili, si è innescato anche un fenomeno speculativo con il risultato del raggiungimento di un prezzo record per l’agrume. Attualmente lo si sta vendendo a 25 soles al chilo, poco più di 6 euro, ma ha toccato punte di 80 soles (20 euro), cifra ragguardevole in Sudamerica. Questa fiammata dei prezzi è andata a intaccare la cultura gastronomica peruviana, rendendo costoso un cibo popolare come il ceviche: molti consumatori hanno aderito a un boicottaggio del lime che pare abbia provocato un lieve calo dei prezzi.

Sul tema, che rimane caldissimo in Perù, è intervenuto pubblicamente il ministro dell’Economia Alex Contreras, che ha distribuito consigli ai cittadini. Per la precisione, consigli su cosa mangiare: aggiornando la celebre frase sulle brioche attribuita a Maria Antonietta, in realtà un clamoroso falso storico, Contreras ha suggerito di mangiare pollo ai peruviani che non possono più permettersi il ceviche. La vicenda ha del grottesco, se non fosse che ancora una volta vediamo emergere la nostra fragilità, e soprattutto quella delle nostre consuetudini, davanti al gigantesco problema del cambiamento climatico, aggravato da un modello di consumo che rende ancora più fragile la Terra. In Sudamerica, in Africa, nell’Asia meridionale si sta sempre più disboscando per produrre avocado, lime, mango, ananas, olio di palma, fiori, soia, foglie di coca. La deforestazione incide fortemente sull’anidride carbonica liberata in atmosfera, poiché di solito avviene incendiando i boschi per creare piantagioni, a loro volta destinate a essere pericolosamente esposte ai capricci di un clima impazzito. Siccità alternata a piogge alluvionali, aumento di eventi meteorologici estremi e nuove malattie pongono giganteschi punti interrogativi sulla sostenibilità di questo modello, utile soltanto agli interessi dei fornitori del grande circuito dei consumi globali: quelli che determinano i prezzi delle materie prime e che impongono le mode attraverso le serie TV, il cinema e la miriade di cuochi (o pseudo tali) che infesta la comunicazione social.

I peruviani passeranno forse al pollo, allevato in modo intensivo e creando gravi danni all’ambiente. Il pollo inevitabilmente subirà un aumento del prezzo e il circolo vizioso ripartirà. La grande industria dell’agrobusiness riesce sempre a compensare le perdite causate dai cambiamenti climatici, mentre la politica si limita ai consigli su cosa mangiare ed esclude a priori di regolamentare il settore, dal punto di vista sia produttivo che ambientale. A noi non resta che aspettare e sperare che il nostro cibo preferito non sparisca o non diventi troppo caro. Se succederà, dovremo provare a cambiare abitudini. Ma le brioche ormai sono finite.

L’albero del banano, originario del Sudest asiatico tropicale, è stato una delle piante che più hanno viaggiato a bordo delle navi delle potenze coloniali e dei trafficanti di schiavi, conquistando un ruolo importante in Africa e, soprattutto, in America Centrale e nelle regioni settentrionali del Sudamerica. La banana era preziosa perché considerata un ottimo alimento per gli schiavi, anche nella sua versione “da cottura”, il platano. Ma la vera fortuna di questo frutto iniziò nei primi anni del ’900, quando i medici statunitensi cominciarono a consigliare alle mamme di far mangiare banane ai figli, in virtù dell’abbondanza di potassio e di altri nutrienti di qualità. La crescita della domanda internazionale trasformò il banano in un albero da piantagione, a discapito di vaste porzioni di foreste tropicali abbattute per coltivare il frutto dorato. Questa espansione, che in breve avrebbe fatto diventare la banana il frutto più diffuso al mondo, fu gestita per decenni in regime di quasi monopolio dalla statunitense United Fruit Company, oggi nota come Chiquita. L’azienda divenne una forza economica, politica e perfino militare in Paesi come Guatemala, Costa Rica, Honduras, Panama. Dettava legge, otteneva privilegi, nominava i governanti e, quando alle elezioni vinceva qualcuno che potesse intaccare i suoi interessi, lo rovesciava: ad esempio, accadde in Guatemala con il socialista Jacobo Árbenz Guzmán, spodestato nel 1954 da un colpo di Stato e sostituito da una dittatura. I Paesi vittime della “piovra verde”, come era conosciuta la United Fruit, divennero così i “Paesi delle banane”.

L’odierno business globale delle banane è miliardario: si contano circa 20 milioni di tonnellate all’anno di prodotto destinato all’export da diverse imprese, oltre a 90 milioni di tonnellate consumate nei mercati interni dei Paesi tropicali e subtropicali.. Ma c’è un punto molto debole, ed è la stessa genetica delle piante, che non hanno semi e si riproducono in modo asessuato. E cioè grazie alla mano dell’uomo, che taglia un pezzo di radice e lo pianta. Perciò tutte le piante di banane sono geneticamente uguali e ed esposte al rischio di essere colpite in massa da patogeni come il fungo Fusarium oxysporum, che fece sparire la varietà Gros Michel da tutto il mondo attorno a metà degli anni ’60. Era la cosiddetta “malattia di Panama”. Da allora il mercato mondiale è stato dominato dalla specie Cavendish, resistente a quel fungo. Ma la specie Cavendish oggi si rivela altrettanto debole di fronte a un’altra varietà del Fusarium oxysporum, individuata in Australia a fine anni ’90: dal 2010 il “nuovo” fungo si è diffuso in Vietnam, Taiwan e Mozambico causando un’epidemia nota come “Tropical Race4”. Attualmente in Mozambico, uno dei grandi produttori africani di banane (circa 800mila tonnellate all’anno), risulta presente ovunque. Si preannuncia dunque una nuova crisi per il settore.

Questa seconda grande crisi destinata a colpire il frutto più venduto nel mondo racconta diverse cose sulla globalizzazione, di ieri e di oggi. La coltivazione a dismisura, a discapito delle foreste, di una pianta fragile, modificata e ibridata nel tempo dall’uomo; una pianta divenuta fondamentale per le esportazioni di interi Paesi e fonte di lavoro per milioni di persone, ma di vero guadagno solo per poche imprese multinazionali.

È il paradosso del primo vero frutto globale, insieme all’ananas, tra l’altro commercializzato dalle stesse compagnie. Perché la globalizzazione omologa il gusto e i consumi: e quando ciò avviene con successo, come con le banane, allora non importa quale prezzo si debba pagare per offrirle sul mercato. Ma poi c’è da fare i conti con la natura, e con i funghi: a meno che non si finisca, come già si sta ipotizzando, a produrre solo banane OGM. Mettendo la scienza al servizio non dell’alimentazione umana, ma di un modello produttivo che nuoce all’equilibrio ambientale e, alla fine, anche alla sicurezza alimentare del genere umano.