Simultaneously, two globally significant meetings took place in Hiroshima, Japan, and Xi’an, China: the G7 and the summit between China and the former Soviet Asian countries. On one hand, there was the old club of Western powers, dating back to the 1970s and effectively surpassed by the formation of the G20 in 1999. On the other hand, there were the new allies of one of the few definite winners of the Russo-Ukrainian war: China. In Hiroshima, essentially a NATO summit was held, given the agendas and positions of the participants, which were all the same. Ukraine was a prominent topic, as well as Taiwan and Palestine, with a brief mention of climate change at the end of the list. In Xi’an, the ancient Chinese capital, leaders from China, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, and Uzbekistan discussed business matters, but also addressed new balances of power. China, which has been investing in Central Asia for some time now—a key region for the Belt and Road Initiative—decided to boost its involvement by pledging $4 billion in financial support and subsidies to these countries that, it can now be said, have moved out of Russia’s orbit. The signing of the Xi’an Declaration essentially marks their stable entry into Beijing’s sphere of influence.

Relations between China and its neighbors have never been easy, especially due to the situation of the Uighurs in Xinjiang, a persecuted and “reeducated” Muslim and Turkic minority by the Chinese state. However, in recent years, China has managed to turn problems into resources, unlike the participants of the G7 club who, lacking the strength to bring about change, end up turning potential into problems. Consider Africa, for instance—a great opportunity for China but merely a problem for Europe. The agenda in Hiroshima is, in fact, a list of grievances without hope. No actions are announced to address the issues that truly concern everyone, such as climate change, migration management, growing public debt everywhere, and prospects for peace in Ukraine.

Meanwhile, China has not only committed to investing in and serving as a platform for the revival of the group of former Soviet Asian countries, but it has also proposed a regional security pact that includes respect for different geopolitical spheres. This is something that, for example, has not been achieved between the European Union and Russia in the past. These are different approaches to international relations: in one case, the burden of imperial and colonial past weighs heavily, now definitively fading away; in the other, pragmatism emerges from those who know that in order to strengthen themselves, they must fly low and that they do not face true antagonists but rather wealthy clients—countries that often distrust Beijing but cannot do without it, having transferred their manufacturing capacity to China since the dawn of the industrial revolution.

Overall, Hiroshima and Xi’an represent two sides of the same coin—the coin of globalization. On one hand, there is the fear of no longer “counting” as before, coupled with the inability to overcome the arrogance of the past. On the other hand, there is the long-term vision and more modest approach of the weaver who, methodically and without getting carried away, achieves one result after another. This is because they have more to offer than mere rhetoric; they have tangible business deals. Ultimately, China has already become a pillar of the emerging new world order.

In simultanea, a Hiroshima in Giappone e a Xi’an in Cina si sono tenuti due incontri di importanza globale: il G7 e il vertice tra Cina e Paesi asiatici ex sovietici asiatici.  Da una parte, il vecchio club delle potenze occidentali, risalente agli anni ’70 e di fatto superato già nel 1999, con la nascita del G20; dall’altra i nuovi alleati di uno dei pochi vincitori certi della guerra russo-ucraina: la Cina. A Hiroshima in pratica si è celebrato un vertice della NATO, viste le agende e le posizioni dei partecipanti, tutte uguali. Tanta Ucraina, ma anche Taiwan e Palestina, con un breve accenno al cambiamento climatico, in coda alle altre questioni. A Xi’an, antica capitale cinese, i leader di Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan hanno parlato di affari, ma anche di nuovi equilibri. La Cina, che sta investendo da tempo in Asia centrale, regione chiave per il passaggio della Nuova Via della Seta, ha deciso di rilanciare promettendo 4 miliardi di dollari di sostegni finanziari e sovvenzioni a questi Paesi, ora lo si può dire, usciti dall’orbita russa: la firma della Dichiarazione di Xi’an infatti, sancisce in sostanza il loro ingresso stabile nell’orbita di Pechino.

Non sono mai stati rapporti facili quelli tra la Cina e questi suoi vicini, soprattutto per via della situazione degli Uiguri dello Xinjiang, minoranza musulmana e turcofona perseguitata e “rieducata” dallo Stato cinese. Ma in questi anni la Cina ha saputo trasformare i problemi in risorse, a differenza dei partecipanti al club del G7 che, non avendo più la forza per cambiare le cose, finiscono per trasformare le potenzialità in problemi. Basti pensare all’Africa: grande opportunità per la Cina, solo un problema per l’Europa. L’agenda di Hiroshima è infatti un cahier de doléances senza speranza. Non si annuncia nessuna azione per fare fronte alle questioni che veramente preoccupano tutti, come il cambiamento climatico, la gestione delle migrazioni, il debito pubblico in crescita ovunque, le prospettive di pace per l’Ucraina.

Nel frattempo, la Cina non soltanto si è impegnata a investire e a fare da piattaforma per il rilancio del gruppo dei Paesi ex sovietici dell’Asia, ma ha anche proposto un patto per la sicurezza regionale che ha tra i suoi pilastri il rispetto delle diverse orbite geopolitiche. Ciò che, ad esempio, in passato non è stato fatto tra l’Unione Europea e la Russia. Si tratta di approcci diversi alle relazioni internazionali: in un caso, pesa come un macigno il passato imperiale e coloniale, ormai definitivamente sfumato; nell’altro, emerge il pragmatismo di chi sa che per rafforzarsi deve volare basso, e che di fronte a sé non ha veri antagonisti bensì ricchi clienti, Paesi che spesso diffidano di Pechino ma che non possono farne a meno, avendo trasferito in Cina la loro capacità produttiva, accumulata fin dagli albori della rivoluzione industriale.

Nel complesso, Hiroshima e Xi’an sono due facce della stessa moneta, quella della globalizzazione. Da un lato c’è la paura di non “contare” più come un tempo, abbinata all’incapacità di superare l’arroganza del passato; dall’altra la visione a lungo termine e l’atteggiamento più modesto del tessitore che, metodicamente e senza esaltarsi, porta a casa un risultato dietro l’altro. Perché non ha da vendere solo retorica ma affari concreti, e in definitiva è già diventato un pilastro del nuovo ordine mondiale che sta prendendo forma.

L’Irlanda sta pianificando la creazione di un fondo sovrano nel quale far confluire le tasse pagate dalle multinazionali high-tech statunitensi che sono domiciliate nell’isola. Società che fanno utili nei Paesi comunitari ma non versano localmente le tasse sui loro profitti, preferendo invece pagarle nelle loro sedi di comodo irlandesi. Questo per via del regime fiscale di favore, pari al 12,5%, applicato in Irlanda contro una media europea ben più alta, dal 28% della Svezia al 37% dell’Italia.

Dublino si trova così al centro di una enorme fuga di capitali che sarebbero dovuti ad altri Stati comunitari. Profitti realizzati in Europa ma che, grazie a trucchi legali, le grandi multinazionali riescono a trasferire fino ai paradisi fiscali, rimbalzando tra l’Irlanda e i Paesi Bassi per poi finire nei Caraibi, e sfuggendo alla tassazione nei Paesi dove quegli stessi profitti sono stati generati.

I numeri sono stati forniti dallo stesso governo irlandese, che nel 2022 è stato l’unico in Europa a chiudere il proprio bilancio con un attivo rilevante, un surplus di 8 miliardi di euro equivalente all’1,6% del PIL. A questo risultato hanno contribuito in modo notevole le tasse versate dalle corporation non solo high-tech, ma anche farmaceutiche. Nel complesso si tratta di circa 22 miliardi di euro, pagati da società che solo in minima parte hanno svolto le loro attività in Irlanda. Soldi facili per Dublino, che per avere questo ritorno economico non ha dovuto sostenere spese.

Secondo le autorità irlandesi, il fondo sovrano che ora si vorrebbe creare, simile a quello norvegese del petrolio, entro il 2035 arriverà ad accumulare più di 140 miliardi di euro. Una manna per l’Irlanda, che avrebbe un fondo liquido per risolvere eventuali problemi di bilancio, fare investimenti, sovvenzionare il welfare. Una manna a discapito del resto dell’Europa, però. Perché, se quella cifra corrisponde a una tassazione del 12,5%, significa che la somma che le multinazionali avrebbero dovuto versare al fisco dei Paesi in cui operano sarebbe stata due o tre volte superiore. Contro questa erosione della base fiscale generalizzata, qualche Paese ha già fatto ricorso, contestando cifre milionarie che avrebbero dovuto essere versate localmente.

Oltre all’aspetto fiscale, la possibilità di far migrare il pagamento delle tasse dove più conviene comporta un’ulteriore stortura, e cioè il consolidamento di posizioni che diventano quasi monopolistiche, violando la libera concorrenza. La capacità di investimento, sviluppo di prodotto e promozione che hanno i gruppi che pagano un terzo (se va bene) di tasse rispetto ai concorrenti è sproporzionata, ed è alla base dell’espansione di un settore industriale che non sottostà alle regole nazionali, bensì a quelle di una globalizzazione deregolamentata.

Tutto legale, ma tutto sbagliato. E per i governi nazionali è difficile opporsi, anche perché, nel mondo attuale, queste aziende controllano i flussi dell’informazione: diventerebbero nemiche potenzialmente molto pericolose, in tempi in cui con un tweet si può distruggere un politico o un partito. La buona notizia per l’Irlanda diventa una cattiva notizia per il resto dell’Europa anche perché le proiezioni fatte da Dublino preannunciano la continuità nel tempo di questa versione fiscale del gioco delle tre tavolette. Neanche l’obbligo di alzare la tassazione fino a un minimo del 15%, come deciso dall’OCSE a partire dal 2024, pare poter incrinare questi privilegi.

Il meccanismo di scatole cinesi creato dalle società multinazionali per trasferire i profitti verso l’Irlanda e poi verso i Caraibi è lo stesso utilizzato da sempre dalla criminalità organizzata per depositare denaro nei forzieri delle Cayman, delle Bahamas e di altre isolette. La differenza con le multinazionali high-tech è che i riciclatori di soldi sporchi, o derivati dall’evasione fiscale, non ci hanno mai raccontato che avrebbero reso il mondo migliore.


Ireland is planning to establish a sovereign fund where taxes paid by US-based high-tech multinational companies domiciled on the island will be pooled. These companies earn profits in European countries but avoid paying local taxes on their profits by choosing to pay them in their Irish tax haven offices, thanks to Ireland’s favorable tax regime of 12.5%, compared to a higher European average, ranging from 28% in Sweden to 37% in Italy.

Dublin is at the center of a huge capital flight that should have gone to other EU states. The profits made in Europe are transferred to tax havens by large multinationals using legal tricks, bouncing between Ireland and the Netherlands before ending up in the Caribbean, and escaping taxation in the countries where those profits were generated.

The Irish government provided the numbers, and in 2022, it was the only European government to close its books with a significant surplus of €8 billion, equivalent to 1.6% of GDP. This was significantly contributed to by taxes paid not only by high-tech corporations but also by pharmaceutical companies, amounting to approximately €22 billion, paid by companies that only conducted a small portion of their activities in Ireland. It was easy money for Dublin, which did not have to incur any expenses to receive this economic return.

According to Irish authorities, the sovereign fund that they now want to establish, similar to Norway’s oil fund, will accumulate more than €140 billion by 2035. This would be a blessing for Ireland, which would have a liquid fund to solve any budgetary problems, make investments, and subsidize welfare. However, this would be at the expense of the rest of Europe. If that amount corresponds to a tax rate of 12.5%, it means that the amount that multinationals should have paid to the tax authorities of the countries where they operate would have been two or three times higher. Some countries have already challenged this generalized erosion of the tax base, disputing the millions that should have been paid locally.

In addition to the tax aspect, the ability to migrate tax payments to where it is most convenient creates an additional distortion, namely the consolidation of positions that become almost monopolistic, violating free competition. The investment, product development, and promotion capabilities of groups that pay a third (at best) of taxes compared to competitors are disproportionate and form the basis for the expansion of an industrial sector that does not comply with national rules, but rather those of deregulated globalization.

It’s all legal, but it’s all wrong. And for national governments, it is difficult to oppose, also because, in today’s world, these companies control the flows of information: they could become potentially dangerous enemies, at a time when a tweet can destroy a politician or a party. The good news for Ireland becomes bad news for the rest of Europe because the projections made by Dublin herald the continuity over time of this fiscal version of the shell game. Not even the obligation to raise taxation to a minimum of 15%, as decided by the OECD starting in 2024, seems to be able to crack these privileges.

The Chinese box mechanism created by multinational companies to transfer profits to Ireland and then to the Caribbean is the same one used by organized crime for depositing money in the coffers of the Cayman, Bahamas, and other islands. The difference with high-tech multinationals is that money launderers, or those who derive their funds from tax evasion, have never told us that they would make the world a better place.

Una volta Hollywood non guardava al colore dell’attore o dell’attrice per assegnare i ruoli nei film a sfondo storico. Liz Taylor recitava nei panni di Cleopatra e Richard Burton era Marco Antonio, Sylvia Sidney diventava Madama Butterfly e Yul Brynner il re del Siam. Non erano già più i tempi in cui gli afroamericani erano apertamente discriminati, e venivano interpretati da bianchi col volto annerito, ma si trattava di scelte artistiche e commerciali: si andava sul sicuro ingaggiando la star del momento, a prescindere dalla sua “etnia” o dal colore della pelle. Una scelta che è stata criticata, e a ragione, perché effettivamente sanciva il monopolio dei bianchi, preferibilmente anglosassoni, nel mondo del cinema e della comunicazione. Per tutti gli altri non c’erano ruoli se non quelli da comparsa, costretti a interpretare sempre e solo la parte che la storia aveva loro assegnato: lo schiavo egizio, l’“indiano” che lancia il grido di guerra mentre assalta la diligenza, il giapponese kamikaze, il nero al lavoro nella piantagione…

Al di là del macinare sempre e comunque i soliti luoghi comuni sugli “altri” popoli, qualcuno si chiede se Hollywood fosse a tutti gli effetti razzista o se la discriminazione si manifestasse solo nello star system, nell’esclusione dei “non bianchi” dalla possibilità di avere ruoli importanti. Ma, forse, la storia di dominazione e la certezza di superiorità dei bianchi si celavano proprio nella supposizione che un attore bianco potesse recitare qualsiasi ruolo, mentre un nativo americano poteva interpretare solo l’“indiano”, un afroamericano solo ruoli “da nero” e via incasellando.

La grande rivoluzione dei nostri giorni, che però genera commenti spesso increduli o di condanna, è che gli attori neri, asiatici e latinoamericani stanno cominciando a interpretare figure che storicamente non rientrano tra i loro antenati, emancipandosi dai ruoli subalterni che sono stati loro appiccicati in passato. Lavorano e vengono scelti solo perché sono bravi attori e attrici. Come nel caso della regina Carlotta interpretata dalla afro-britannica India Ria Amarteifio o del magistrale Arsène Lupin interpretato dal franco-senegalese Omar Sy. Senza dubbio è cambiata la sensibilità del pubblico, e sul mercato del cinema e delle serie tv si sono affacciati miliardi di spettatori non bianchi, ma occorre anche considerare che dalle scuole di teatro e recitazione delle metropoli multietniche d’Europa e America escono sempre più bravi attori e attrici di ogni origine, e in grado di recitare bene, a prescindere dalla loro storia familiare o etnica.

È un mondo che cambia, ma che ancora si divide tra giovani e vecchi. I primi non trovano nulla di strano nel veder rappresentata, anche nei media, la stessa società nella quale vivono; i secondi si scandalizzano del fatto che la regina Carlotta sia interpretata da un’attrice di colore, ma sono gli stessi ai quali andavano bene la Cleopatra di Liz Taylor e la Madama Butterfly di Sylvia Sidney. E forse qui c’è un residuato delle ideologie razziste del passato, nel pensare che non a tutti gli attori sia concessa la libertà di rappresentare qualsiasi figura, a prescindere del colore della pelle. Perché scompaia questo pregiudizio dovrà passare ancora del tempo, ma la veloce crescita economica e politica di popoli una volta marginali, e ora coinvolti nella globalizzazione, sicuramente accelererà la scomparsa di quest’eredità di una storia non proprio edificante.

In the past, Hollywood didn’t consider an actor’s skin color when casting for historical films. Elizabeth Taylor played Cleopatra, Richard Burton played Mark Antony, Sylvia Sidney became Madame Butterfly, and Yul Brynner played the King of Siam. It was no longer the era when African Americans were openly discriminated against and portrayed by white actors in blackface. Instead, these casting choices were based on artistic and commercial decisions, hiring the biggest stars of the moment regardless of their ethnicity or skin color. However, this choice was rightfully criticized for reinforcing the monopoly of white, preferably Anglo-Saxon, actors in the film and entertainment industry. Other actors, including people of color, were only offered minor roles such as the Egyptian slave, the “Indian” who war-cries while attacking the stagecoach, the Japanese kamikaze, or the black plantation worker.

Despite the common stereotypes about “other” ethnic groups, some wonder whether Hollywood was actually racist or if discrimination was limited to the star system, excluding non-white actors from major roles. However, it’s possible that the history of domination and the belief in white superiority was hidden in the assumption that white actors could play any role while Native Americans could only portray “Indians,” African Americans were limited to “black” roles, and so on.

The great revolution of our times, which however often generates incredulous or condemning comments, is that black, Asian, and Latin American actors are beginning to play roles that historically do not belong to their ancestors, emancipating themselves from the subordinate roles that have been assigned to them in the past. They work and are chosen only because they are talented actors and actresses. This is the case with Queen Charlotte played by Afro-British actress India Ria Amarteifio or the masterful Arsène Lupin played by french-senegal actor Omar Sy. Undoubtedly, the sensitivity of the public has changed, and billions of non-white viewers have entered the film and TV market, but it is also worth considering that more and more talented actors and actresses of every origin are graduating from the theater and acting schools of multi-ethnic metropolises in Europe and America, capable of acting well regardless of their family or ethnic background.

It is a changing world, but one that is still divided between young and old. The former find nothing strange in seeing the same society they live in represented, even in the media; the latter are scandalized by the fact that Queen Charlotte is played by a colored actress, but they are the same people who were fine with Liz Taylor’s Cleopatra and Sylvia Sidney’s Madama Butterfly. And perhaps here there is a residue of past racist ideologies, in thinking that not all actors are allowed the freedom to represent any character, regardless of skin color. It will take time for this prejudice to disappear, but the rapid economic and political growth of once marginalized peoples, now involved in globalization, will certainly accelerate the disappearance of this legacy of a not-so-edifying history.

Viene già presentato come l’oro bianco del XXI secolo ed è l’unico minerale che negli ultimi anni ha moltiplicato più volte il suo valore: oggi è arrivato a costare il 450% in più rispetto al 2020. Stiamo parlando del litio, che dunque fa gola a molti. Senza, non potrebbe esistere la transizione energetica tanto auspicata per porre un freno all’aumento globale delle temperature. Non ci sarebbero automobili elettriche e nemmeno gli smartphone così come li conosciamo. Come succede con i giacimenti di petrolio, concentrati per la maggior parte nel vicino Oriente e in Siberia, anche il grosso dei depositi naturali di litio si trova in zone limitate del pianeta: la principale è il cosiddetto triangolo del litio, a cavallo tra Cile, Bolivia e Argentina. I tre Paesi sudamericani hanno scoperto una ricchezza inaspettata nei deserti di alta montagna dove si trovano le saline, ambienti che si sono rivelati ricchi di questo minerale: insieme, i tre Stati possiedono circa il 59% delle riserve terrestri conosciute. Tra i produttori, attualmente il Cile contende il primo posto mondiale all’Australia, al terzo posto si piazza la Cina e al quarto, molto distaccata, l’Argentina. La Bolivia, che secondo alcune classifiche sarebbe il primo Paese al mondo per riserve, non produce praticamente nulla, e la stessa Argentina estrae litio molto al di sotto le sue potenzialità.

In Sudamerica, dunque, il Cile è l’unico Paese che sfrutta appieno questo minerale, ma lo fa soltanto attraverso due società private, la statunitense Albemarle e la SQM proprietà del miliardario cileno Julio Ponce Lerou, genero del generale Augusto Pinochet. Queste imprese nel 2022 hanno versato allo Stato cileno 5,8 miliardi di dollari tra diritti e tasse, pari all’1,7% del PIL del Paese: è il doppio di quanto ha lasciato nelle casse pubbliche il rame, metallo di cui il Cile è il primo produttore mondiale. Insomma, il litio è davvero l’oro bianco.

In questo contesto si inquadra una recente proposta avanzata dal presidente cileno Gabriel Boric che è stata genericamente etichettata come “nazionalizzazione del litio”. In realtà, la proposta si ispira sì alla nazionalizzazione del rame decisa da Salvador Allende nel 1971, ma non prevede di espropriare chi ha già ottenuto delle concessioni. Piuttosto, Boric mira a far nascere un’impresa mista, di carattere pubblico-privato, per avviare lo sfruttamento di nuovi giacimenti di litio, ma a due condizioni. La prima è dichiarare riserva di biodiversità il 30% del deserto di Atacama, da dove proviene quasi tutto il litio cileno; la seconda è cambiare il metodo di estrazione. Infatti, il metodo attualmente usato in Sudamerica, detto “salamoia”, comporta un grande spreco di acqua, che viene lasciata evaporare in zone dove le riserve idriche sono un bene raro. Secondo i piani del governo, l’acqua utilizzata dovrebbe essere invece re-iniettata nella falda.

Lo Stato cileno non è ovviamente l’unico interessato ad allargare il mercato del litio: nel triangolo sudamericano sono molto attive imprese cinesi, statunitensi e anche russe. In Argentina, il gruppo Tsingshan ha appena investito 800 milioni di dollari nella provincia di Salta; nella stessa area, la Tibet Summit Resources ha annunciato l’acquisto di due giacimenti per un valore di 2 miliardi di dollari. In Bolivia sono sempre i cinesi, ma anche i russi, a proporre partnership al governo di La Paz, che qualche anno fa ha nazionalizzato il litio ma ancora non riesce a estrarre quasi nulla. Per ora, quello avanzato dal Cile è comunque il progetto più interessante. E l’America Latina nel suo complesso, pur tra mille contraddizioni, sta riuscendo proporsi come partner e, soprattutto, a creare una cornice giuridica che tuteli gli interessi nazionali, operazione che finora non è riuscita all’Africa.

Per i Paesi del triangolo del litio le opportunità che si aprono sono sicuramente enormi, sebbene ancora difficili da quantificare. Zone impervie delle Ande, che non sono mai interessate a nessuno, all’improvviso si trovano al centro della guerra commerciale per il possesso delle materie prime chiave della globalizzazione: che, per quanto sia percepita come virtuale, si basa ancora sulla terra e sulle miniere.

Lithium, also known as “white gold,” is the only mineral that has multiplied its value several times in recent years, currently costing 450% more than in 2020. Without lithium, the much-anticipated energy transition to put a brake on global temperature rise would not be possible, and neither would electric cars nor smartphones as we know them. Like oil deposits, which are mainly concentrated in the Middle East and Siberia, most of the natural lithium deposits are found in limited areas of the planet. The main one is the so-called “lithium triangle,” spanning Chile, Bolivia, and Argentina, where unexpected wealth has been discovered in high-mountain deserts, rich in lithium.

Together, the three South American countries own around 59% of the world’s known lithium reserves. Currently, Chile competes with Australia as the world’s leading producer, followed by China in third place, and Argentina in a distant fourth place. Bolivia, which would be the world’s leading country in reserves according to some rankings, produces practically nothing, and Argentina extracts lithium well below its potential.

In South America, Chile is the only country that fully exploits this mineral, but it does so only through two private companies: the US-based Albemarle and the SQM owned by Chilean billionaire Julio Ponce Lerou, son-in-law of General Augusto Pinochet. In 2022, these companies paid the Chilean state $5.8 billion in rights and taxes, equivalent to 1.7% of the country’s GDP, twice what copper, a metal of which Chile is the world’s largest producer, leaves in public coffers.

Against this backdrop, Chilean President Gabriel Boric recently proposed the “nationalization of lithium.” While inspired by Salvador Allende’s nationalization of copper in 1971, the proposal does not involve expropriating those who have already obtained concessions. Rather, Boric aims to create a mixed public-private enterprise to start exploiting new lithium deposits but with two conditions. The first is to declare a 30% reserve of biodiversity in the Atacama Desert, from where almost all of Chile’s lithium comes; the second is to change the extraction method. Currently used in South America, the “brine” method involves a great waste of water, which is left to evaporate in areas where water reserves are scarce. According to the government’s plans, the water used should instead be reinjected into the groundwater.

The Chilean state is not the only one interested in expanding the lithium market. Chinese, US, and Russian companies are highly active in the South American triangle. In Argentina, the Tsingshan Group has just invested $800 million in the province of Salta, and in the same area, Tibet Summit Resources has announced the purchase of two deposits for $2 billion. In Bolivia, the Chinese and Russians are proposing partnerships to the La Paz government, which nationalized lithium a few years ago but still cannot extract much. For now, Chile’s project is For now, the project advanced by Chile is still the most interesting. And Latin America as a whole, despite many contradictions, is managing to position itself as a partner and, above all, to create a legal framework that protects national interests – an operation that Africa has not yet been able to achieve. For the countries of the lithium triangle, the opportunities that are opening up are certainly enormous, although still difficult to quantify. Impenetrable areas of the Andes, which have never interested anyone, suddenly find themselves at the center of the commercial war for the possession of key raw materials for globalization, which, however virtual it may be perceived, is still based on land and mines

Ya se presenta como el oro blanco del siglo XXI y es el único mineral que en los últimos años ha multiplicado varias veces su valor: hoy en día cuesta un 450% más que en 2020. Estamos hablando del litio, que es muy codiciado. Sin él, no sería posible la transición energética tan deseada para frenar el aumento global de las temperaturas. No habría automóviles eléctricos ni smartphones tal como los conocemos. Al igual que ocurre con los yacimientos de petróleo, concentrados principalmente en el Oriente Medio y Siberia, la mayor parte de los depósitos naturales de litio se encuentran en zonas limitadas del planeta: la principal es el llamado Triángulo de Litio, entre Chile, Bolivia y Argentina. Los tres países sudamericanos han descubierto una riqueza inesperada en los desiertos de alta montaña donde se encuentran las salinas, ambientes que se han revelado ricos en este mineral: juntos, los tres estados poseen alrededor del 59% de las reservas terrestres conocidas. Entre los productores, actualmente Chile compite por el primer lugar mundial con Australia, China se sitúa en el tercer lugar y Argentina en el cuarto, muy por detrás. Bolivia, que según algunas clasificaciones sería el primer país del mundo en reservas, prácticamente no produce nada, y Argentina extrae litio muy por debajo de sus posibilidades.

En Sudamérica, por lo tanto, Chile es el único país que aprovecha al máximo este mineral, pero lo hace solo a través de dos empresas privadas, la estadounidense Albemarle y la SQM propiedad del multimillonario chileno Julio Ponce Lerou, yerno del general Augusto Pinochet. Estas empresas en 2022 aportaron al Estado chileno 5.8 mil millones de dólares en derechos y tasas, equivalente al 1.7% del PIB del país: el doble de lo que dejó en las arcas públicas el cobre, metal del que Chile es el primer productor mundial. En resumen, el litio es realmente el oro blanco.

En este contexto se enmarca una reciente propuesta presentada por el presidente chileno Gabriel Boric que ha sido genéricamente etiquetada como “nacionalización del litio”. En realidad, la propuesta se inspira en la nacionalización del cobre decidida por Salvador Allende en 1971, pero no prevé expropiar a quienes ya han obtenido concesiones. Más bien, Boric apunta a crear una empresa mixta, de carácter público-privado, para iniciar la explotación de nuevos yacimientos de litio, pero con dos condiciones. La primera es declarar reserva de biodiversidad el 30% del desierto de Atacama, de donde proviene casi todo el litio chileno; la segunda es cambiar el método de extracción. De hecho, el método actualmente utilizado en Sudamérica, llamado “salmuera”, implica un gran desperdicio de agua, que se deja evaporar en zonas donde las reservas de agua son un bien escaso. Según los planes del gobierno, el agua utilizada debería ser reinyectada en la capa freática

El Estado chileno no es obviamente el único interesado en ampliar el mercado del litio: en el triángulo sudamericano hay empresas chinas, estadounidenses y también rusas muy activas. En Argentina, el grupo Tsingshan acaba de invertir 800 millones de dólares en la provincia de Salta; en la misma área, Tibet Summit Resources ha anunciado la compra de dos yacimientos por valor de 2 mil millones de dólares. En Bolivia son los chinos y los rusos los que proponen asociaciones al gobierno de La Paz, que hace unos años nacionalizó el litio pero aún no puede extraer casi nada. Por ahora, el proyecto más interesante es el presentado por Chile. Y América Latina en su conjunto, a pesar de mil contradicciones, está logrando presentarse como un socio y, sobre todo, crear un marco legal que proteja los intereses nacionales, una operación que hasta ahora no ha tenido éxito en África.

Para los países del triángulo del litio, las oportunidades que se presentan son sin duda enormes, aunque aún difíciles de cuantificar. Áreas remotas de los Andes, que nunca han interesado a nadie, de repente se encuentran en el centro de la guerra comercial por el control de las materias primas clave de la globalización: que, aunque se percibe como virtual, todavía se basa en la tierra y las minas.

È stato papa Francesco, alcuni anni fa, la prima e finora unica autorità mondiale a denunciare lo scandalo degli sprechi alimentari. Ora abbiamo i numeri per capire quanto questo fenomeno sia davvero un’emergenza. In un mondo dove, secondo il report 2022 della FAO, tre miliardi di persone vivono in condizioni di insicurezza alimentare e oltre 800 milioni di esseri umani soffrono la fame vera e propria, ogni anno ci permettiamo di buttare o sprecare cibo per un valore stimato in 600 miliardi di dollari USA. Questa la valutazione che emerge da un rapporto dell’agenzia di consulenza statunitense McKinsey. Si tratta di una quantità di cibo che rappresenta una quota variabile tra il 33 e il 40% dell’intera produzione mondiale di alimenti. La metà di questo gigantesco spreco avviene durante la raccolta, la movimentazione, lo stoccaggio e la lavorazione. Il resto durante il passaggio al venditore finale e nel frigorifero del cliente. Sono numeri ai quali è difficile credere, quasi metà del cibo prodotto anziché sfamare le persone finisce in discarica. Ed è un problema che riguarda anche l’aspetto ambientale. Basti pensare alla progressiva sottrazione di terreni alla natura e alle foreste per destinarli alle coltivazioni, all’uso della chimica, allo sfruttamento intensivo delle risorse idriche. E poi alla produzione di CO2 da parte dei macchinari agricoli e dell’intera filiera della coltivazione e del raccolto, per non parlare delle emissioni dell’allevamento di bestiame.

Secondo le misurazioni dell’IPCC (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici dell’ONU), l’impatto è del 21% sul totale delle emissioni di CO2, cui andrebbe aggiunta una quota dell’11% dovuto alla deforestazione e del 3,5% derivante dalla gestione dei rifiuti. Insomma, stiamo parlando di circa un quarto del totale delle emissioni che sono alla base del cambiamento climatico. Secondo il report di McKinsey, queste emissioni potrebbero essere ridotte del 70%.

I prodotti più sprecati sono quelli del settore ortofrutticolo e cerealicolo, in primis i pomodori, che in Europa arrivano agli scaffali in rapporto di 65 su 100, mentre nei Paesi del Sud del mondo ce la fanno solo 45 su 100. Il motivo principale della perdita di prodotto è l’eccedenza di produzione, ossia l’eliminazione volontaria di una parte del raccolto per non fare scendere il prezzo di mercato. Il secondo motivo è dovuto al marketing, che ci ha abituati a ortaggi e frutti perfetti, senza macchie né difformità rispetto agli standard: circa un terzo del prodotto è scartato per non “deludere” il consumatore. Un altro motivo sono i problemi relativi alla commestibilità del prodotto, conseguenza, ad esempio, di un uso eccesivo di diserbanti e pesticidi.

Se si razionalizzassero le filiere produttive e si rieducasse il consumatore affinché capisca che anche una banana con qualche macchia è perfettamente commestibile, si potrebbe avere una notevole riduzione dello spreco: ma, come sempre, in questo settore la razionalità non è di casa. Anzi, il consumatore non è stato “diseducato” soltanto sugli aspetti estetici del prodotto, ma anche in relazione alla stagionalità di frutta e verdura. Si è perso il principio per il quale si mangiano quelle cose che, nel proprio territorio, sono disponibili nella stagione in cui ci si trova. Invece il supermercato globale ci offre zucchine, mirtilli, manghi e asparagi 365 giorni all’anno, spesso portandoli sugli scaffali da terre lontane, e senza prestare minimamente attenzione alle ricadute ambientali e sociali: ci sono Paesi nei quali si abbandonano le coltivazioni di base, indispensabili per sfamare la popolazione, per dedicarsi alle varietà destinate all’esportazione, più redditizie. È un grande nodo che va risolto, se davvero si vuole incidere sui cambiamenti climatici. E anche qui, come per l’energia, bisogna incidere su un modello di consumi globali che passa per essere moderno mentre è ormai decrepito, perché continua a basarsi sul presupposto erroneo che le risorse siano illimitate.