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Si chiude una brutta campagna elettorale per il secondo turno delle presidenziali brasiliane. Nel dibattito faccia a faccia tra Jair Bolsonaro e Lula, soltanto il 7% del tempo è stato impiegato dai candidati per illustrare i loro programmi. Il resto sono stati attacchi reciproci: con accuse di corruzione da parte di Bolsonaro nei confronti di Lula, e di negligenza criminale durante la pandemia da parte di Lula nei confronti di Bolsonaro. È questa la cifra di un’intera campagna che fotografa un Paese spaccato in due, non tanto sulle idee quanto sul riconoscimento stesso della legittimità dell’avversario. Bolsonaro pensa che Lula sia un delinquente, Lula pensa che Bolsonaro sia un criminale. E il Brasile si divide come tra tifoserie calcistiche: salta il dialogo istituzionale, si sentono rumori nelle caserme, vengono tirate per la giacchetta – o per la tonaca – le chiese evangeliche e quella cattolica.

Questo gioco al massacro è stato impostato e sviluppato con successo da Bolsonaro, rompendo definitivamente una tradizione di convivenza tra le forze politiche di opposto segno. Nel continente americano si tratta di un male comune: è accaduto lo stesso negli Stati Uniti con Donald Trump, in Argentina tra peronisti e antiperonisti, in Ecuador tra destra e sinistra. In Argentina si parla di grieta, cioè “spaccatura”, quando si vuol rendere l’idea di una divisione in fazioni contrapposte, senza più dialogo né reciproco riconoscimento. E la democrazia ne risente, perché lo sconfitto sicuramente denuncerà brogli elettorali, pur senza averne le prove, e i suoi elettori non riconosceranno mai come legittimo il vincitore uscito dalle urne.

In Brasile c’è tutto questo ma c’è anche molto di più, perché nel secondo turno delle presidenziali sono in gioco il modello di Paese e l’idea di società: la scelta è tra quella bianca e benestante, che pensa ai poveri come a un fastidio e un pericolo, e quella forgiata da una miscela di etnie, nella quale i poveri sono una speranza se sostenuti da uno Stato che riesce a far crescere l’economia e creare posti di lavoro. Lula e Bolsonaro, è evidente, non sono la stessa cosa, e non solo per la loro storia personale: hanno in testa due Paesi diversi. Uno piccolo e chiuso, che sfrutta le sue potenzialità agricole e tutela gli interessi dei grandi capitali; l’altro più grande e aperto al mondo, potenza regionale e protagonista sulla scena internazionale. Un Brasile che non è solo un gigante agricolo, ma anche una media potenza industrializzata. Domenica si scontreranno due modelli di Paese, eppure non saranno questi i temi in base ai quali una bella fetta di elettori prenderà la sua decisione. A fare la differenza sarà stata la maggior “bravura” di quello che ha dato del criminale all’altro o di quello che ha risposto dandogli del delinquente. Nel teatrino della moderna comunicazione i contenuti sfumano, ma questo non vuol dire che non ci siano. Anzi.

Oceani versus sushi

Pubblicato: 7 ottobre 2022 in Senza categoria

Il ruolo dei mari e degli oceani è vitale per il clima terrestre e tutti sappiamo che grazie alla pesca e al mare vivono milioni di persone, da millenni. Ma oggi quando si parla di mari si parla di autostrade della globalizzazione che, secondo l’OCSE, producono 1.500 miliardi di dollari all’anno, sommando tutte le attività economiche che vi si svolgono. Prima tra tutte l’estrazione di fonti energetiche fossili con le tecniche offshore: gas e petrolio che contano per un terzo dell’estrazione mondiale, ma che rappresentano il 70% delle scoperte di giacimenti a livello mondiale degli ultimi anni. In ordine di importanza abbiamo poi il settore ittico, unico produttore di proteine animali che potrebbe aumentare la sua disponibilità in modo relativamente sostenibile attraverso allevamenti di pesce in mare. C’è poi una miriade di attività di impatto economicamente inferiore ma comunque non trascurabile: dalla crocieristica all’estrazione mineraria, dalla posa di cavi alle bio-prospezioni e alla desalinizzazione.

I principali rischi per gli ecosistemi marittimi sono determinati da fattori diversi ma sempre riconducibili al genere umano: si tratta del cambiamento climatico, dello sversamento di plastiche e della pesca industriale intensiva. Negli ultimi due decenni la Cina ha costruito la prima flotta peschereccia di acque profonde al mondo. Sono quasi 3.000 navi che rastrellano l’Oceano Indiano ed entrambi gli oceani al largo del Sud America. Agiscono spesso violando acque territoriali e senza rispettare nessun calendario riproduttivo. L’Ong Oceana ha conteggiato lo scorso anno 300 navi cinesi che pescavano al limite delle 200 miglia nautiche delle Galapagos. La fanno da padrone anche nell’Atlantico meridionale, una delle zone più pescose al mondo. Ora Pechino ha varato una “portaerei” della pesca, la Hai Feng 718. È una nave cargo refrigerata che fornisce rifornimenti a oltre 70 navi più piccole e ne raccoglie il pescato, in modo che non debbano tornare ai porti di partenza. Così si pesca sempre, senza dare tregua alla fauna marittima.

Tutto ciò accade perché il mercato mondiale del pesce è stato rivoluzionato dalla moda globale del sushi: oggi si mangia il 30% di pesce in più rispetto a pochi anni fa. Anche in questo settore, le mode globali e i Paesi che operano senza rispettare nulla vanno a braccetto: ciò che diventa cool nei migliori ristoranti di New York o di Milano è il risultato di uno sfruttamento delle risorse naturali condotto come se non ci fosse un domani.  

Il 2022 che si apre potrebbe essere l’anno in cui ci si lascia alle spalle la pandemia oppure la ripetizione del 2021. Abbiamo superato un anno di alti e bassi, passando dall’euforia del pensiero di esserne usciti alla depressione per il ritorno ai grandi numeri dei contagiati. Il punto è che, a due anni dall’inizio della pandemia, si continua a navigare a vista, senza avere risolto nessuno dei problemi che c’erano già e che la pandemia ha potenziato. A cominciare dal cambiamento climatico, non certo influenzato dal virus, bensì dai tentennamenti che si manifestano regolarmente quando arriva l’ora di decidere un cambiamento di rotta, soprattutto sulla sfida energetica. La Cop26 ha messo a nudo le distanze più che i punti in comune. Ora sappiamo che il carbone ci accompagnerà a lungo, che sull’abbandono del petrolio “si vedrà” e che il nucleare è stato rivalutato in versione “energia pulita”. Molti Paesi sfiancati da miseria e disuguaglianze, che sono aumentate ovunque e questo sì per via della pandemia, non considerano una priorità l’ambiente, ma piuttosto il cibo da garantire ai propri cittadini.

La pandemia ha aperto gli occhi ai molti che negli anni avevano assistito quasi muti allo smantellamento dei servizi di base. Sanità pubblica, scuola, reti di welfare erano state lasciate al degrado per favorire i servizi privati, destinati ovviamente a chi se li può permettere. Proprio queste politiche in Africa, America Latina e Asia – a differenza di quanto è successo in Europa – hanno reso il Covid-19 una malattia “di classe”, che ha colpito mortalmente soprattutto chi dipende dalle strutture pubbliche.

Toccare drammaticamente con mano i limiti del sistema ha portato ad alcuni cambiamenti politici. Laddove c’era democrazia e il voto è stato esercitato liberamente abbiamo visto fenomeni di rinnovamento; laddove governano regimi, invece, la situazione è peggiorata. La pandemia ha dimostrato ancora una volta che i problemi di “sicurezza”, che si tratti di terrorismo o di pandemia, sono i migliori alleati di partiti unici, uomini forti e dittatori. In pandemia abbiamo visto anche uno spettacolo inimmaginabile fuori dai film di Hollywood: l’assalto riuscito del Campidoglio statunitense, nel Paese con più armi e polizia in circolazione. 

Ma il 2022 avrà al centro altri temi, oltre alla pandemia e ai rischi per la democrazia. Anzitutto sarà l’anno in cui vedremo se la sfida cinese alla supremazia economica degli Stati Uniti è fattibile. La guerra commerciale aperta da Trump, ancora non totalmente chiusa da Biden, è servita per misurare la forza dei contendenti, protagonisti dell’ordine bipolare che è destinato a subentrare al caos geopolitico attuale. Le due potenze saranno all’altezza? E, soprattutto, saranno in grado di cooperare tra loro per restituire un’architettura sostenibile al mondo? A differenza dello scontro USA-Urss, quello tra USA-Cina è un confronto tra Stati fortemente interdipendenti sul piano commerciale e finanziario, e questo fa la differenza.

L’Europa ha invece problemi più caldi, che non riguardano solo il commercio ma anche la sicurezza. La Russia di Putin e la Turchia di Erdoğan sono vicini sempre più ingombranti e insidiano l’Europa su due fronti, da est e da sud. L’Unione Europea, inconsistente dal punto di vista politico, non è all’altezza di reggere la sfida alle sue frontiere portata da autoritarismi esterni e tantomeno di posizionarsi nella contesa tra USA e Cina. Restare al traino oppure fare un balzo in avanti, rafforzando i legami tra i Paesi membri, è il punto sul quale dibattere. Però la distrazione di massa proposta da un’informazione veicolata soprattutto dai social ci propone un’altra agenda: popolata da influencer, cuccioli di animali simpatici, incidenti tra camion, cuochi dilettanti e stellati e tanto terrorismo sulla pandemia, spesso senza basi scientifiche e soprattutto senza buon senso. Dell’agenda del mondo è meglio non parlare, il dibattito ristagna sulla reperibilità di mascherine o tamponi. Sul Titanic, quando l’orchestra suonava per tirar su il morale dei passeggeri, era almeno chiaro a tutti che la nave stava affondando.

Aggrappati al turismo

Pubblicato: 16 ottobre 2021 in Senza categoria

Dopo la Thailandia, le Seychelles, le Maldive, l’Indonesia e l’Egitto, anche il Vietnam ha annunciato una “sandbox” turistica o, meglio, la creazione di “bolle sanitarie” per riaprire le porte al turismo internazionale. La maggior parte dei Paesi asiatici aperturisti è alle prese con la variante delta e con una situazione sanitaria ancora lontana dall’essere sotto controllo, a causa della scarsa diffusione dei vaccini. Eppure hanno fretta di riaprire perché il turismo di massa, soprattutto quello in cerca di mare e sole, rende questi Paesi simili a organismi assuefatti alle droghe pesanti, che passano dal danneggiarsi assumendo droga allo star male per l’astinenza. Per molti di essi il turismo è stato negli ultimi decenni il toccasana che consentiva di incamerare valuta forte e, in questo modo, di mantenere basso il disavanzo pubblico, ottenendo tassi di interesse contenuti al momento di rivolgersi al mercato internazionale dei capitali. Questo in aggiunta, ovviamente, all’occupazione generata dal settore, importante per le casse pubbliche in quanto si tratta di personale in regola e di imprese che fatturano regolarmente e, quindi, versano al fisco.

La riapertura dell’industria turistica di Phuket, Bali o Sharm el-Sheikh non deve meravigliare. Infatti, contrariamente a quanto capita nei confronti di Stati ben più ricchi, gli organismi internazionali e i mercati di capitale si aspettano che i Paesi emergenti registrino avanzi di bilancio, abbiano solide riserve in valuta estera e non eccedano nella spesa pubblica. Sono i parametri in base ai quali si calcolano tassi d’interesse più o meno salati al momento della concessione dei prestiti, e il turismo, insieme alle rimesse degli emigrati, è vitale perché questi Paesi possano raggiungere condizioni favorevoli. A tale logica sfuggono gli Stati con un’economia più matura e bilanciata, che hanno entrate generate anche da esportazioni diversificate e possono contare su un mercato interno più solido. Paesi come quelli che nel Sudest asiatico stanno riaprendo al turismo hanno, viceversa, un settore di beni e servizi dipendente da pochissime voci, tutte collegate alla congiuntura internazionale, come appunto il turismo.

Ecco perché l’industria turistica di massa nei Paesi emergenti è così importante e, al tempo stesso, devastante nei suoi impatti. Crea seri problemi ambientali e sociali, introduce dinamiche esogene sul costo di merci e servizi, opera quasi senza vincoli né controlli. Il turismo, in queste situazioni, non genera processi di reale sviluppo e non viene pensato come opportunità di crescita delle comunità locali, ma solo come “salvadanaio” degli Stati. Che, dunque, chiudono gli occhi davanti allo scempio ambientale o all’imposizione di condizioni di lavoro intollerabili pur di far continuare il flusso di turisti, considerati solo come portatori di valuta forte.

Si tratta di una situazione che si presenta uguale a sé stessa fin dalla nascita turistica di queste destinazioni, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, senza che si sia mai veramente cercato di porre dei correttivi. Il turismo continua a vivere un’enorme contraddizione: genera risorse gigantesche, seconde solo a quelle del settore manifatturiero, ma viene considerato un’attività quasi marginale, finalizzata a tappare buchi dei conti pubblici. Eppure, a differenza dell’industria, del commercio o delle attività finanziarie, il turismo si svolge in luoghi che sono quelli del vivere comune, consumando territorio, acqua, cibo, bellezza; il turista entra capillarmente nella vita delle popolazioni, convive con i residenti, spesso nella stessa casa, e cambia il volto delle città e delle coste, cambia la cultura locale, fa muovere importanti pezzi dell’economia reale. Ma questi aspetti non sono considerati: il turista continua a essere percepito come una specie di convitato di pietra, una questione di vita o morte solo per i conti pubblici.

La globalizzazione e l’osservatorio che è questo libro: attivati

Lanciamo questa campagna di crowdfunding per rendere possibile un nuovo progetto editoriale di OGzero, che riteniamo urgente e necessario: il libro di Alfredo Somoza, “Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart” , per conoscere e interpretare le dinamiche della globalizzazione in modo puntuale e documentato.

Smascherando le fake news, ma anche andando a indagare sui reali vantaggi della civiltà smart. Uno sguardo critico che vada oltre la retorica trionfalistica sul futuro dell’umanità. La globalizzazione è un fenomeno che ha cambiato la nostra vita con dinamiche nuove e riproposto in veste moderna altre molto antiche. Il libro racconta gli scenari dell’economia mondiale, della lotta per la terra e l’ambiente, dei diritti ottenuti e negati, del gioco delle potenze. Senza ideologismi né compromessi.

Il libro racconta il mondo nel quale siamo già sommersi, anche se ancora non ci è stato del tutto svelato. Il lavoro di Alfredo Somoza è ispirato all’idea che un altro mondo migliore sia ancora possibile, idea che lo accompagna dai tempi in cui partecipò al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre esattamente 20 anni fa. I testi saranno accompagnati da una sezione audio sul sito di ogzero.org con podcast di approfondimento dedicati.

Perché è importante il tuo coinvolgimento

Abbiamo pensato a una campagna di crowdfunding per coinvolgere le persone non esaurendo l’attivazione al semplice acquisto di un libro. Vogliamo utilizzare questa “scusa” per lanciare una community di attivisti geopolitici , a partire dal tema della manipolazione delle informazioni e della globalizzazione, con uno sguardo organico e un’interpretazione potente.

Partecipare alla campagna su Produzioni dal Basso è importante, perché il libro offre chiavi di lettura utili per interpretare il mondo che ci circonda, spesso a partire da notizie che non riescono a guadagnare i titoli dei giornali, talvolta per conflitto di interessi. Il progetto non comprende solo il libro, ma uno sguardo continuativo delle dinamiche globali e delle loro conseguenze. Un osservatorio che l’autore cura da 20 anni con aggiornamenti settimanali che si potranno continuare a seguire nel tempo. Molte cose che troverete in questo libro sarebbero censurate in diverse parti del mondo.

Perché una delle vittime eccellenti della pandemia – e dalla globalizzazione – è stata la democrazia e di conseguenza la libertà di stampa.

per info e sostegno: https://www.produzionidalbasso.com/project/siamo-gia-oltre-partecipa-al-progetto-di-attivismo-geopolitico/

La musica di Bob Marley, scomparso 40 anni fa, ha dato notorietà a una storia che rasenta l’incredibile e che si è svolta tra gli Stati Uniti, la Giamaica e l’Etiopia. Il personaggio da cui bisogna partire per comprendere le parole di Marley è Marcus Mosiah Garvey, sindacalista nato in Giamaica nel 1887 ma vissuto a lungo negli Stati Uniti, dove si trasferì durante la Prima guerra mondiale. Pochi anni prima aveva cominciato a occuparsi delle condizioni di lavoro e di vita degli afroamericani in Giamaica, fondando la Universal Negro Improvement Association, e continuò a farlo nella sua seconda patria. Garvey aveva in mente un grande e originale disegno, quello di riportare in Africa i discendenti degli schiavi, convinto che non avrebbero mai potuto riconquistare la libertà in quella terra di esilio forzato.

Garvey predicava anche una profezia contenuta nella Bibbia amarica che prefigurava l’incoronazione di un imperatore nero in Africa, destinato a estirpare il male e scacciare i dominatori.  Quell’imperatore, nella visione di Garvey, si insediò sul trono dell’Etiopia nel 1930: era Ras Tafari Maconnèn, meglio noto con il nome di Hailé Selassié I, secondo la tradizione discendente da re Salomone e dalla regina di Saba. L’incarnazione della profezia divenne il punto di riferimento di una nuova religione nazionalista, il rastafarianesimo. Garvey riuscì a formare un governo africano in esilio a Harlem e a fondare una compagnia di navigazione, la Black Star Line, per rimpatriare afroamericani in Africa. Qualche decennio dopo, alcuni rasta che vivevano in comunità in Giamaica si trasferirono davvero in Etiopia per vivere nella terra del Leone di Giuda. Hailé Selassié non poteva credere di poter contare su persone che lo consideravano una divinità, arrivate da un’isola distante migliaia di chilometri. 

Questa storia si intreccia con quella di un genere musicale, il reggae, evoluzione dello ska che divenne il veicolo per la diffusione planetaria del rastafarianesimo: soprattutto grazie proprio a Bob Marley, nato in uno slum giamaicano nel 1945, esponente di spicco di un movimento musicale che con lui divenne universale. In Marley non ci sono solo i temi religiosi legati al rastafarianesimo, a partire dalla preghiera a Jah (Geova) e dall’appello ad abbandonare Babilonia-Giamaica per andare in Africa. In Marley c’è tutto Garvey. C’è una religiosità che va aiutata fumando quotidianamente ganja, la marijuana giamaicana.  E ci sono anche la protesta sociale e la voglia di riscossa. Marley è un musicista che ha reso universale la Giamaica per le sue capacità artistiche straordinarie e che ha raccontato una storia che ha radici profonde nel passato del suo Paese, dove le comunità di maroons, schiavi fuggiti dalle piantagioni, costruirono villaggi indipendenti nel cuore delle Blue Mountains, ma anche la storia di Marcus Garvey, oggi dichiarato eroe nazionale, il sindacalista che voleva risolvere la discriminazione alle radici rimpatriando i neri in Africa. E infine l’incredibile collegamento con il Negus etiopico, simbolo di riscossa per i discendenti degli schiavi nei Caraibi.

È una storia che non sembra vera, eppure è soltanto una delle tante storie incredibili che si incontrano nella storia americana. Tutto alla fine si concentra in un solo nome, Robert Nesta Marley detto Bob, morto di cancro a Miami l’11 maggio 1981 e rimasto nella galleria dei musicisti immortali. In soli 36 anni di vita aveva rivoluzionato la scena musicale mondiale, fatto conoscere una religione, diffuso le idee di Garvey e denunciato la povertà e la violenza degli slum giamaicani. Un fuoriclasse che non è mai scomparso da questo mondo, perché la sua musica è frutto della storia, denuncia della schiavitù e speranza di cambiamento: in altre parole, musica classica del ’900.

Come facilmente prevedibile, in mancanza di cooperazione internazionale sulla prevenzione come sulla risposta alla diffusione del Covid-19, è scoppiata la “guerra dei vaccini”. Le case farmaceutiche e gli Stati che producono vaccini sono i giocatori di una inedita “geopolitica vaccinale” che si è determinata in pochi mesi. Prima c’è stata la corsa a mettere a punto per primi un prodotto efficace, con pochi esempi di collaborazione; poi sono cominciati i tentativi di ostacolare o favorire la distribuzione dei vari vaccini in base a criteri politici.  I vaccini della Sinopharm cinese e lo Sputnik russo la fanno da padroni in Africa, America Latina e Asia grazie ai prezzi bassi (in alcuni casi sono stati forniti gratis) e alla velocità con la quale vengono prodotti. Non si registrano finora controindicazioni significative all’impiego di questi vaccini, che tuttavia non riescono a superare le griglie di valutazione dei Paesi occidentali, Stati Uniti e Unione Europea in testa.

Intanto USA e UE fanno blocco a favore delle rispettive multinazionali del farmaco, malgrado gli inconvenienti con i rifornimenti, il mancato rispetto dei termini contrattuali da parte delle aziende e i prezzi molto variabili. Il vaccino prodotto da AstraZeneca, anglo-svedese, è quello più economico in assoluto, solo 1,80 euro a dose, ed è ritenuto tra i più efficaci. Non pochi osservatori, durante il blocco temporaneo del suo impiego stabilito tra l’altro anche da Germania, Italia e Francia, hanno ipotizzato che a questo farmaco si siano dedicate “attenzioni” particolari non solo per motivi scientifici ma anche per la sua provenienza britannica. Proprio la provenienza è il grosso ostacolo per il vaccino russo Sputnik, che in Europa viene usato solo come spauracchio per mettere pressione sui laboratori in deficit di consegna, mentre non si accelera per la sua approvazione presso l’EMA, l’agenzia comunitaria per i farmaci.

Chi è fuori dalla mischia è la Cina, che per prima ha sviluppato un vaccino efficace: ora lo produce anche in altri Stati, come il Brasile, per venderlo soprattutto nei Paesi più poveri. La mappa dell’uso del Sinopharm e degli altri vaccini nel frattempo elaborati in Cina ricalca perfettamente la mappa dei rapporti commerciali cinesi. Il vaccino diventa così una fornitura essenziale che viene incontro ai bisogni dei più deboli, rafforzando ulteriormente le relazioni con Paesi con cui Pechino ha già saldi rapporti commerciali. Anche per la Russia il vaccino Sputnik è chiaramente uno strumento di politica estera: sono i Paesi politicamente più vicini al Cremlino che stanno usufruendo della sua disponibilità, garantita anche a costo di rimandare la vaccinazione della popolazione russa.

La situazione dell’Europa è paradossale. Avrebbe la capacità installata per produrre vaccini nei laboratori che costellano l’intero continente, ma per portare avanti lo sforzo ha scelto di dipendere da tre multinazionali, due statunitensi e una con sede centrale in Inghilterra; tra poco si aggiungerà la quarta, Johnson&Johnson, anch’essa a stelle e strisce. Multinazionali che producono in impianti europei, dai quali fanno partire spedizioni di vaccini dirette verso Paesi terzi senza che prima siano stati rispettati gli accordi con la Commissione europea. Il protezionismo vaccinale, infatti, è stato utilizzato sistematicamente solo da USA e Regno Unito, che hanno imposto il divieto di export di vaccini. La posizione europea paradossalmente è quella più debole ed esposta a rischi, ma i veti incrociati difficilmente permetteranno una politica più aggressiva nei confronti dei fornitori. E così, mentre i vaccini sono entrati a fare parte del settore strategico di molti Paesi, in Europa si preferisce tutelare Big Pharma, come se fossimo in una situazione normale. Senza mettere in conto che il problema delle pandemie non è passeggero, come dicono i massimi esperti, ma è destinato ad accompagnarci a lungo.

Le cosiddette “terre rare” sono un insieme di 17 elementi chimici della tavola periodica: più precisamente, il gruppo comprende lo scandio, l’ittrio e i lantanoidi. L’uso di questi minerali è decisivo per la fabbricazione di magneti, superconduttori, fibre ottiche, catalizzatori e vari componenti usati per la produzione di veicoli ibridi. Si può affermare che la rivoluzione tecnologica in corso, senza i minerali contenuti nelle terre rare, difficilmente sarebbe avvenuta. Ma non tutti le hanno a disposizione: la produzione mondiale, infatti, è concentrata in Cina (che da sola garantisce il 62% del mercato), USA (12%), Myanmar e Australia (10% ciascuno). Poi restano le briciole. Un discorso a parte meriterebbero i giacimenti ancora inesplorati o poco sfruttati, molti dei quali localizzati in regioni incontaminate e preziose per l’equilibrio ecologico del pianeta, ad esempio in Groenlandia, Brasile, Tanzania: non a caso, le potenze protagoniste del grande gioco geopolitico si stanno interessando di questi punti nodali.

È evidente che per la Cina, primo produttore mondiale di alta elettronica, essere praticamente monopolista di terre rare rappresenta la perfetta quadratura del cerchio: soprattutto dopo il colpo di Stato in Myanmar, Paese che ora potrebbe aiutare Pechino nell’evoluzione della guerra commerciale con gli USA. Cina e Myanmar controllano insieme il 72% del mercato attuale dei minerali strategici: stranamente, finora nessuno ha messo in relazione il golpe dei militari supportato da Pechino con questo dato.

Le terre rare sono la carta che Pechino si giocherà con Joe Biden nella trattativa per ripristinare le relazioni commerciali tra le due potenze, dopo lo strappo voluto da Donald Trump. Biden, che non ha mai detto di voler eliminare le sanzioni alla Cina, sta studiando la messa a punto di una “lista nera” comprendente oltre 70 imprese cinesi considerate vicine al ministero della Difesa cinese, per non dire che ne sono emanazioni dirette. Imprese sospettate di condurre operazioni di intelligence all’estero per la Cina nei settori dell’industria bellica. Ma se gli USA punissero queste aziende il gioco si farebbe ancora più complesso. Ad esempio, ciascuno dei nuovi aerei militari F35 della Lockheed ha bisogno di 400 chilogrammi di terre rare nei circuiti elettrici e nei magneti: quantità che solo la Cina è in grado di vendere. E mentre Pechino annuncia un restringimento della produzione, gli Stati Uniti sono sempre più preoccupati dalla dipendenza del loro dispositivo di difesa dalla Cina, che rimane il loro principale antagonista economico e, in prospettiva, militare.

Altre restrizioni all’export potrebbero venire da un incremento del consumo interno cinese di terre rare, ora che è stata lanciata una gigantesca operazione di rottamazione di vecchie auto e camion per incentivare l’ibrido e l’elettrico. Ed ecco che questa crisi, inquadrata in un campo più largo, si rivela l’ennesima dimostrazione di come la potenza della tecnologia debba fare i conti – ancora e probabilmente per sempre – con le limitate risorse disponibili sulla terra e con chi le controlla. Ieri petrolio e gas naturale, poi litio e coltan, oggi le terre rare sono le materie prime minerali che fanno girare il mondo da un secolo e mezzo.

Per possederle, o per controllare chi le possiede, sono state combattute guerre, si sono organizzati colpi di Stato, occupazioni di Paesi, operazioni di corruzione di massa. Questo perché la logica che da sempre prevale, e che pare sia eterna, è quella del tentativo di accaparrarsi in esclusiva una fonte di rifornimento così da prevalere sul rivale di turno, ovviamente senza mai ipotizzare forme di cooperazione per lo sfruttamento. E questo non vale solo per i minerali. Stiamo vedendo lo stesso meccanismo nella gestione globale dei vaccini, dove il principio del diritto alla cura, inteso come diritto umano, è stato archiviato in fretta tra Stati che diventano predoni di dosi e laboratori che speculano sulla vita delle persone.  

 

Il populismo ha origini ottocentesche, risalenti ai movimenti antizaristi e socialisti della Russia. Successivamente il concetto fondamentale del populismo, cioè l’autoproclamarsi unici e legittimi rappresentanti di un intero “popolo”, ha avuto differenti derive ed evoluzioni. Anche se vengono classificati in altro modo, nazismo e fascismo nacquero come movimenti populisti, poi degenerati verso il totalitarismo. Una delle varianti più note del populismo è quella latinoamericana, variamente declinata da Getúlio Vargas e Juan Domingo Perón fino a Hugo Chávez. Più recentemente, con Donald Trump hanno conosciuto il populismo anche gli Stati Uniti, così come in Europa, e in particolar modo in Italia, sono cresciuti diversi partiti, di destra o di sinistra, che ricalcano quell’impronta. 

Una delle caratteristiche politiche del populismo è l’arrivare al potere in nome dell’interesse esclusivo di un popolo, o di un ceto sociale “popolare”, per poi agire nel senso opposto. Tra i casi più clamorosi si possono citare le esperienze di Alberto Fujimori e Carlos Menem, presidenti rispettivamente del Perù e dell’Argentina, che smantellarono il welfare e massacrarono i pensionati e la scuola. Ma anche Trump, presentatosi come il “crociato” dei bianchi impoveriti, nei suoi quattro anni di mandato ha varato una sola riforma fiscale importante, ed era a favore delle grandi corporation.

Esiste infine un altro populismo, più subdolo e meno riconoscibile: quello delle aziende della Silicon Valley. Marchi che hanno lavorato per anni per essere percepiti come rivoluzionari, presentandosi perfino come salvatori del genere umano, come profeti di un futuro mondo smart nel quale tutto sarà più bello e facile. Uber, AirBnb, WeWork, JustEat, Amazon, e ovviamente i venditori di software e device ipertecnologici, promettono un futuro migliore e più democratico. L’autonarrazione di questi marchi è sempre la stessa: lavorano esclusivamente per il nostro bene, ci rappresentano, ci danno ciò di cui abbiamo bisogno e che avremmo sempre voluto avere. Questo populismo mediatico appare rassicurante anche perché usa in malafede la fiducia nella scienza e nell’innovazione. In malafede perché solo di business si tratta, senza altro scopo che non sia vendere un prodotto, veicolarlo attraverso la pubblicità.

Si tratta di gruppi talvolta sostenuti da investitori pericolosi, come l’Arabia Saudita, e che sfuggono a uno dei presupposti fondamentali del capitalismo: redistribuire una parte del profitto a favore della comunità attraverso le tasse. Così, piattaforme che per alcuni hanno reso il mondo più smart lo hanno imbarbarito per molti altri. Il lavoro ridotto a un precariato estremo e senza vie d’uscita, l’imposizione di prodotti e prezzi, la desertificazione dei tessuti produttivi locali sono solo alcune delle criticità prodotte dai populisti della Silicon Valley. Che non hanno bisogno di elezioni per governare e, per di più, hanno trovato una formidabile alleata nella pandemia di Covid-19. Che continuano indisturbati ad accumulare miliardi nei forzieri dei paradisi fiscali caraibici. E che hanno accumulato una massa enorme di informazioni sulle nostre vite, sui nostri gusti e sulle nostre paure, come mai nessuno aveva nemmeno sognato di poter fare nell’intera storia dell’umanità.

Questi populisti ci accompagnano continuamente, tramite le app che tutti abbiamo installato nei nostri smartphone e ogni volta che acquistiamo i loro servizi e prodotti. Non è come quando si va dal fornaio sotto casa e si sa che quel signore vende semplicemente un bene che ha prodotto, destinato a uno scopo preciso. I populisti californiani della Silicon Valley non si limitano a venderci farina e acqua: ci vendono l’idea che saranno loro a cambiarci la vita, a renderci più liberi e democratici anche se viviamo sotto un regime, a renderci tutti fratelli anche se tre quarti dell’umanità non possono spostarsi liberamente, a cancellare le differenze di genere e di etnia anche se nella vita reale femminicidi e xenofobia sono in crescita. È un bel mondo quello dei populisti della Silicon Valley. Nessuno prima aveva mai pensato che per vendere una merce ci fosse bisogno di una fantastica narrazione, di spararla così grossa. Loro lo hanno fatto, e per questo sono diventati miliardari. Grazie a noi che facciamo finta di crederci. Almeno per ora.

 

Nel 1985 l’economista egiziano Samir Amin formulava la “teoria dello sganciamento” ipotizzando la creazione di flussi commerciali e politici “sud-sud” come unica via per il superamento dei rapporti iniqui tra il Nord e il Sud del mondo. In sostanza Amin considerava questa come l’arma risolutiva in mano ai Paesi del “Terzo Mondo” per porre fine alla loro storica dipendenza dai rapporti coloniali e neocoloniali con l’Occidente. Molto tempo è passato e alcuni tentativi sono stati fatti, a partire dalla creazione del Mercosur, primo blocco economico interamente formato da Paesi sudamericani. Ma la svolta, con la materializzazione delle teorie di Amin, potrebbe verificarsi ora, proprio dove meno ce la si aspettava.

È l’Africa, infatti, che grazie ai rapporti “stretti” con la Cina, criticatissimi dalle vecchie potenze coloniali, ha trovato la spinta per integrarsi economicamente, da sola. Il 1° gennaio di quest’anno, nel silenzio assordante della stampa mondiale, è nata l’area di libero scambio più grande al mondo: il Trattato di Libero Commercio Continentale Africano, noto con l’acronimo inglese AfCFTA, riunisce 54 Paesi africani al fine di realizzare un’unione doganale, abbattendo dazi e armonizzando le regole commerciali. Non si tratta di un’unificazione che ambisce alla costruzione di una nuova entità sovranazionale – come invece l’Unione Europea e, almeno sulla carta, il Mercosur – ma del tentativo di agevolare la circolazione di merci e servizi in tutto il continente, con l’obiettivo dell’autosufficienza. In pratica l’intero continente diventerà area di libero scambio, con la sola esclusione dell’Eritrea. Parliamo di un miliardo e duecentomila persone, una popolazione in crescita veloce, e di 2.500 miliardi di dollari di PIL.

Secondo i pronostici, entro i prossimi 7 anni l’unificazione delle regole e dei dazi sulle merci porterà a una crescita del 7% del PIL di questo continente-area economica e a un aumento pari a 500 miliardi di dollari nello scambio tra i Paesi dell’area. Attualmente il 90% dell’export africano è diretto fuori dal continente: per fare un confronto, la quota di export dell’Unione Europea diretta all’esterno dell’UE è del 40%. Accrescere l’incidenza del commercio infracontinentale spezzerebbe la dipendenza totale dai mercati terzi. I motivi dell’attuale scarsità degli scambi tra Paesi africani sono diversi. Sicuramente ciò dipende dal fatto che l’export africano è costituito soprattutto da materie prime, ma un peso notevole hanno anche le difficoltà concrete a muovere merci e spostare servizi tra i Paesi senza finire imbrigliati nella rete di dazi, corruzione, ostacoli burocratici.

Alla decisione storica di costituire una zona di libero scambio di portata continentale non è estraneo il peso acquisito in Africa dalla Cina, primo importatore, esportatore e investitore internazionale nel continente. La Cina non ha soltanto sostituito i tradizionali legami postcoloniali con i Paesi europei o con gli Stati Uniti, ma ha effettuato enormi investimenti sulle infrastrutture e sulla trasformazione in loco delle materie prime, dando il via alla nascita di un settore industriale in diversi Stati africani. Per la Cina, l’Africa non è soltanto un cliente da maltrattare o un fornitore da sfruttare, come è sempre stata per tutti gli altri “partner”, ma un continente strategico sul quale investire. La creazione dell’area di libero scambio diventerà un volano ulteriore per la presenza produttiva cinese perché le merci prodotte (o le materie prime trasformate) localmente potranno essere spostate da una regione all’altra del continente senza pagare dazi. Si tratta di una mossa mai nemmeno immaginata da Paesi come Francia, Belgio, Regno Unito, Germania o Italia, che concepirono l’Africa come uno scrigno dal quale trafugare tesori senza restituire nulla.

Eppure l’Africa che oggi decide di cominciare a camminare tutta insieme ha una forza che va oltre l’interesse contingente di Pechino e costituisce un precedente a livello mondiale. Il fatto che un insieme di Paesi le cui frontiere furono disegnate a tavolino dai governi europei decida di creare una comunità con regole comuni, e di superare almeno in parte quei confini, è una delle migliori notizie degli ultimi anni, anche se quasi nessuno l’ha rilevato.