Il 2025 è stato un anno molto intenso dal punto di vista degli avvenimenti mondiali. Sul piano economico, si è registrato un rallentamento delle previsioni di crescita: l’inflazione rimane un dato persistente e, soprattutto, le tensioni geopolitiche continuano a incidere sui prezzi e sulla disponibilità di materie prime e merci. Sono diversi i fattori che hanno contribuito a peggiorare la situazione internazionale, dalle conseguenze del cambiamento climatico, che incidono sempre di più sui mercati agricoli, alla linea seguita dalla presidenza Trump, che ha scatenato una guerra commerciale a colpi di dazi con pochi precedenti nell’ultimo secolo. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha avuto conseguenze anche sull’agenda politica globale. Temi come la questione ambientale e la regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale sono stati praticamente cancellati: il cambiamento climatico viene ignorato perché le ricette per combatterlo passano dal progressivo abbandono dell’energia fossile, di cui gli Stati Uniti sono recentemente diventati grandi esportatori; l’IA perché monopolizzata da poche aziende della West Coast che hanno attivamente sostenuto la rielezione Trump. Su entrambi i temi, la politica ha fatto un passo indietro e concesso la gestione a soggetti privati, prevalentemente statunitensi.

La Cina, però, non è stata a guardare. Ha giocato tutte le sue carte diplomatiche perché la COP30 di Belém non fosse un totale fallimento, sostenendo il gruppo di Stati, guidati da Colombia e Paesi Bassi, che hanno deciso di autoconvocarsi per andare oltre i magri accordi raggiunti in sede ONU. Così, mentre gli Stati Uniti oggi sono i picconatori del multilateralismo nel mondo e impongono la loro volontà con le armi del commercio o, in senso letterale, con quelle delle cannoniere, la Cina è diventata la grande potenza “costruttiva”, che intesse relazioni di cooperazione tra i Paesi. Sull’IA, la competizione tra Pechino e la Silicon Valley è all’ultimo sangue, perché è chiaro che dal controllo di queste nuove tecnologie passa il futuro dell’economia e non solo: l’IA è destinata a rimodellare la società e forse il nostro stesso cervello. Al momento, opera al di fuori di ogni controllo in Occidente e sotto il controllo di un regime in Cina.

I conflitti in corso si sono moltiplicati in parte perché le potenze regionali, nel caos geopolitico attuale, si sentono libere di usare la forza per regolare i loro conti con i vicini. Non solo la Russia, che ha invaso l’Ucraina ormai da quasi quattro anni, ma anche la Thailandia che si scontra con la Cambogia, la vecchia lite per il Kashmir tra India e Pakistan, il processo di progressiva occupazione della Cisgiordania da parte di Israele dopo l’annessione di fatto della Striscia di Gaza. L’altro focolaio di tensioni militari ruota attorno alla strumentalizzazione del problema narcotraffico, che diventa alibi per giustificare violazioni del diritto internazionale e poter agire evitando il coinvolgimento del Congresso. È ciò che stanno facendo gli Stati Uniti al largo del Venezuela, dove da mesi staziona una flotta di guerra che ufficialmente spara e affonda navi sospettate di trasportare droga, ma in realtà sta esercitando una pressione illegale contro l’illegale governo di Nicolás Maduro. Insomma, si pretende di combattere i regimi violando i diritti sui quali si dovrebbe basare la convivenza pacifica tra gli Stati.

Nel complesso, il 2025 è stato un anno contraddistinto da una grande confusione e, anche, macchiato da conflitti sanguinosi in Sudan, a Gaza, in Ucraina. La pace al momento sembra un miraggio, perché le vengono anteposte questioni geopolitiche ed economiche che creano benefici soltanto al comparto bellico. Non potrebbe essere altrimenti, quando i negoziati per la pace sono portati avanti non da diplomatici ma da faccendieri. Le prospettive per il 2026 non sono certo rosee, ma in tanti parti del mondo il “tappo” della corruzione e della cattiva politica è saltato, grazie soprattutto alle proteste civili e all’azione politica dei giovani; e questo movimento è forse il dato più positivo per i mesi a venire.

“Sì, è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana” avrebbe detto Franklin Delano Roosevelt riferendosi al dittatore nicaraguense Anastasio Somoza García. Il weekend scorso abbiamo avuto una versione aggiornata dello stesso concetto da parte di un altro presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha deciso di graziare l’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato a 45 anni di carcere da un tribunale di Manhattan per stretti legami con il Cartello di Sinaloa ai tempi del “Chapo” Guzmán. Questa improvvisa voglia di grazia è arrivata a 48 ore dal voto in Honduras, nel quale Trump è entrato a gamba tesa per tirare la volata a Nasry Asfura, del Partido Nacional, sul quale pesava la macchia di un predecessore dello stesso partito finito all’ergastolo negli USA. È un modo spudorato per tentare di influenzare il processo elettorale in un altro Paese, ma non del tutto nuovo: qualcosa di simile si era visto già lo scorso ottobre, alla vigilia del voto legislativo in Argentina, quando Trump aveva dichiarato che il piano di salvataggio dell’economia argentina sarebbe diventato effettivo solo se a vincere le elezioni fosse stato Javier Milei. Le elezioni le ha poi vinte Milei, ma dei 20 miliardi annunciati dalla Casa Bianca forse ne arriveranno soltanto cinque.

L’attivismo in stile anni ’80 degli Stati Uniti nel loro ex “cortile di casa” è motivato esclusivamente da considerazioni geopolitiche. In passato Washington costruì, a costo di sostenere le peggiori dittature dell’epoca, una sorta di cordone sanitario per impedire che l’URSS acquistasse nuovi alleati nelle Americhe. Oggi, la potenza contro la quale sono puntate tutti le armi statunitensi, dalla finanza agli eserciti, è la Cina: Paese, che durante gli anni di latitanza degli USA, ha conquistato una posizione di rilievo in quasi tutta l’America Latina. In qualche caso anche in compagnia della Russia di Putin, molto presente in Venezuela, Cuba e Nicaragua come fornitrice di armi.

La politica trumpiana verso l’America Latina ha però radici ideologiche molto più antiche, risalenti al 1823, quando il presidente statunitense James Monroe lanciò la dottrina dell’“América para los americanos”: l’Europa non avrebbe più esercitato ingerenze nel continente americano e, viceversa, gli Stati Uniti non si sarebbero mai impicciati negli affari degli europei. Fu una delle staffette storiche tra le potenze, sempre citata dai manuali di storia, anche se ai primi dell’800 gli Stati Uniti erano soltanto una potenza regionale emergente.

Tornando all’attualità, il punto debole della politica neo-imperiale di Trump è che la Cina offre ai Paesi latinoamericani ciò che gli USA non possono offrire, e cioè la possibilità di commerciare a tutto campo: compra quasi tutte le commodities latinoamericane e investe nell’industria e nelle infrastrutture locali come gli Stati Uniti non sono in grado o non sono interessati a fare. Per questo Trump, nella propria politica, ricorre anche alla minaccia militare, come dimostra il dispiegamento navale al largo del Venezuela. Ciò nonostante, è una politica che a medio termine risulta perdente, perché oggi nemmeno gli Stati Uniti riuscirebbero a mantenere il proprio status quo senza i rapporti commerciali e finanziari con Pechino.

La situazione è ingarbugliata ed è probabile che, alla fine, saranno i Paesi latini a pagare il conto. Oppure no, perché a differenza dell’URSS durante la Guerra Fredda, che pretendeva l’adesione al proprio modello ideologico e politico, la Cina non chiede nulla. Fa affari con dittature e democrazie, governi di destra e di sinistra, adottando un pragmatismo che a Washington è sconosciuto, ma che di questi tempi risulta molto apprezzato. Si tratta di fare politica su un livello diverso, senza immischiarsi negli affari interni di altri Paesi, e di essere pazienti: una strategia di lungo respiro, difficile da intaccare con le sfilate di portaerei o con le minacce via social.

C’è un paradosso che domina la nuova stagione della politica estera statunitense: per difendere l’idea di un’America forte e autosufficiente, Donald Trump è costretto a riannodare i fili con quei Paesi che per anni ha indicato come avversari strategici. La promessa dell’“America First”, agitata come un vessillo identitario, si scontra oggi con la realtà di un’economia globale che non può essere imbrigliata nei confini del nazionalismo economico. E così, mentre la Casa Bianca rimodula i piani tariffari e rilancia negoziati bilaterali, due giganti si stagliano all’orizzonte come partner imprescindibili: Cina e India.

Il nodo principale è quello dei dazi. Dopo un’escalation di minacce e ritorsioni, Washington si trova a gestire un intreccio commerciale molto più complesso di quanto non fosse all’epoca del primo mandato di Trump. L’industria statunitense, dalla manifattura all’hi-tech, è profondamente inserita in catene del valore globali che passano necessariamente per Pechino e New Delhi. Componentistica, semiconduttori, materiali rari, farmaceutica, tessile e prodotti agricoli: direttamente o indirettamente, quasi ogni comparto dipende da forniture asiatiche. La retorica autarchica si è schiantata contro il muro della praticabilità. Negli ultimi mesi la Casa Bianca ha dunque avviato trattative più morbide con la Cina, mirando a un compromesso che salvaguardi gli interessi dei lavoratori statunitensi senza pregiudicare la stabilità delle imprese. L’obiettivo è ridurre alcuni dazi che pesano sull’importazione di beni intermedi, cruciali per l’industria nazionale, in cambio di garanzie sulle pratiche commerciali cinesi e sull’accesso al mercato. Trump non lo dice apertamente, ma il confronto frontale con Pechino ha generato un effetto boomerang: diversi settori statunitensi, dall’automotive all’elettronica di consumo, hanno denunciato costi insostenibili. E a dettare la linea, alla fine, è stata la realtà economica più che l’ideologia.

Parallelamente si gioca la partita con l’India e, a differenza della Cina, qui la posta in gioco non è solo commerciale ma anche geopolitica: oggi l’India è un partner strategico per la costruzione di un fronte asiatico alternativo all’area d’influenza cinese. Per questo Washington intende limare i contrasti tariffari che si sono accumulati negli anni, anche a costo di concessioni dal valore simbolico. Le imprese americane puntano a un accesso più ampio al mercato indiano, in particolare nei settori agricolo e tecnologico, mentre l’India chiede condizioni più favorevoli per l’export di prodotti farmaceutici e informatici. Entrambi i governi sanno che un’intesa agevolerebbe le catene di fornitura e ridurrebbe la dipendenza dalla Cina, un obiettivo condiviso anche se non sempre apertamente dichiarato.

Riallacciare i rapporti con i due colossi asiatici non è, per gli Stati Uniti, soltanto una mossa tattica, di riaggiustamento. È invece il riconoscimento implicito del fatto che l’economia nazionale non può permettersi una politica commerciale isolazionista. Da un punto di vista strategico, la competitività degli Stati Uniti passa dalla capacità di rimanere integrati nel sistema globale, non dalla volontà di sottrarsene. E in un mondo dominato da flussi di merci, di capitali e, sempre più, anche di dati, l’illusione dell’autarchia è diventata un lusso troppo costoso perfino per Washington. Lo dimostra, per esempio, la recente eliminazione dei dazi al 10% sui prodotti tropicali quali banane e caffè, che erano ricaduti interamente sui consumatori.

Il concetto di “America First”, comunque, non scompare. Cambia pelle e si trasforma da slogan muscolare in strategia di equilibrio: difendere gli interessi nazionali non significa più chiudere le porte, ma negoziare con maggiore pragmatismo. Cina e India, da rivali ingombranti, diventano interlocutori obbligati di una superpotenza che deve fare i conti con la complessità interdipendente del XXI secolo. Il risultato è una politica commerciale più sfumata, meno ideologica. Un ritorno alla realtà dopo anni di proclami. Perché anche per il Paese che, di fatto, è ancora il centro del mondo, la geopolitica segue una legge antica: nessuno è davvero sovrano, quando il potere viaggia lungo le rotte del commercio globale.

L’accordo per l’istituzione della global minimum tax – l’imposta minima globale del 15% sui profitti delle multinazionali – è figlio di uno dei tentativi più ambiziosi compiuti negli ultimi decenni per riequilibrare la fiscalità internazionale. Nato nell’alveo dell’OCSE e sostenuto con forza dall’amministrazione statunitense, il progetto punta a contrastare l’elusione fiscale e la corsa al ribasso delle aliquote fiscali che da anni caratterizza la competizione tra Stati. Eppure, mentre gli occhi del mondo sono puntati sugli effetti attesi in termini di gettito e giustizia fiscale, in Europa cresce la preoccupazione che la global tax possa trasformarsi in un boomerang. A prima vista, il Vecchio Continente, e l’Unione Europea in particolare, sembrerebbero avere tutto da guadagnare: molti Paesi membri registrano da tempo perdite fiscali significative a causa del trasferimento artificiale dei profitti verso giurisdizioni più favorevoli, spesso interne alla stessa UE. L’armonizzazione minima, quindi, appare una risposta logica. Tuttavia, la dinamica competitiva tra i Paesi UE e il diverso peso delle economie nazionali rischiano di creare un quadro meno favorevole del previsto.

Il primo nodo critico riguarda gli Stati che negli anni hanno costruito parte della propria attrattività economica su un regime fiscale di vantaggio. Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo hanno espresso più volte le loro riserve, temendo un indebolimento del proprio modello di sviluppo. Ma la vera incognita non è solo la resistenza politica: è l’effetto complessivo sull’ecosistema europeo. Se il vantaggio comparato di queste economie venisse meno, l’Europa non guadagnerebbe automaticamente maggiore competitività a livello globale. Anzi, rischierebbe di vedere investimenti importanti spostarsi verso regioni extraeuropee, dove l’innalzamento al 15% è percepito come trascurabile data la presenza di altre condizioni favorevoli, come il basso costo del lavoro o varie forme di deregulation.

Un secondo elemento di fragilità riguarda il ruolo degli Stati Uniti. Washington ha sostenuto l’accordo, ma l’iter di approvazione interna procede a fasi alterne, condizionato dalle tensioni tra Congresso e Casa Bianca. Il rischio è che l’UE applichi pienamente la global tax mentre altre grandi economie restano attardate, generando un’asimmetria normativa. Per le multinazionali con base americana o asiatica, l’Europa potrebbe così diventare un’area fiscalmente più onerosa, con la probabile conseguenza di scoraggiare nuovi insediamenti produttivi.

Sul fronte interno, l’UE si trova a fare i conti con la propria struttura decisionale. La fiscalità resta materia di competenza nazionale e vige il principio di unanimità: ciò ha portato a compromessi che rischiano di indebolire l’impatto della riforma. In alcuni casi, gli Stati membri stanno cercando di compensare l’aumento dell’aliquota minima attraverso altri strumenti di vantaggio, come incentivi settoriali o agevolazioni su ricerca e sviluppo. La conseguenza potrebbe essere una nuova forma di competizione interna, più opaca e meno controllabile.

Non va poi sottovalutato l’effetto sui colossi digitali, che rappresentano uno dei principali target della global tax. Molte big tech hanno costruito la loro presenza europea attraverso strutture che passano per Paesi a fiscalità più bassa. Con l’introduzione dell’aliquota minima globale, alcuni di questi gruppi potrebbero riconsiderare l’organizzazione delle proprie filiali o ridurre gli investimenti nei Paesi comunitari, privilegiando mercati più dinamici e con una popolazione più giovane.

Infine, c’è la questione del tempismo. In un momento segnato da forti tensioni geopolitiche, l’Europa sta attraversando una fase di rallentamento economico e aumento dei costi energetici, e ha difficoltà nel mantenere la propria competitività industriale. In questo contesto, qualsiasi intervento che possa essere percepito come un aggravio fiscale rischia di amplificare l’incertezza. Senza una strategia comune di attrazione degli investimenti, la global tax potrebbe accentuare le divisioni interne anziché ridurle.

L’obiettivo dichiarato della riforma resta condivisibile: garantire che le multinazionali contribuiscano in modo equo ai bilanci pubblici. Ma l’UE, pur essendo tra le regioni più impegnate nella lotta all’elusione, non può ignorare il rischio di diventare l’area dove il nuovo sistema produce gli effetti più rigidi. La sfida resta quella di trasformare la global tax in un’opportunità di riequilibrio, evitando che i principi di giustizia fiscale si traducano in un ulteriore freno alla competitività del continente.

Attorno alla metà degli anni Ottanta, il “buco dell’ozono” fu tra le prime emergenze ambientali globali a scuotere la coscienza collettiva. Le immagini satellitari che rivelavano la presenza di una sorta di voragine chimica nell’atmosfera sopra l’Antartide divennero il simbolo della prima, storica presa di coscienza da parte dell’umanità del proprio potere distruttivo sull’ambiente a livello planetario. Quarant’anni dopo, la storia del buco dell’ozono racconta una rara vittoria della cooperazione internazionale, ma introduce anche un nuovo capitolo di sfide inattese, legate all’industria spaziale e alla proliferazione di satelliti in orbita attorno alla Terra.

Lo strato di ozono è una sottile fascia di gas che si concentra nella stratosfera, tra i 15 e i 35 chilometri di quota. La sua funzione è vitale: assorbe la maggior parte delle radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole, proteggendo la vita sulla Terra da squilibri negli ecosistemi marini e terrestri e da degenerazioni genetiche, che nel caso dell’uomo significano tumori cutanei. Negli anni Settanta, alcuni scienziati individuarono il principale colpevole del suo deterioramento: i clorofluorocarburi (CFC), gas largamente impiegati in frigoriferi, aerosol e sistemi di condizionamento. Queste sostanze, una volta rilasciate nell’atmosfera, migrano verso la stratosfera, dove le loro molecole si spezzano liberando atomi di cloro che distruggono le molecole di ozono, in una reazione a catena. L’allarme divenne concreto nel 1985, quando una squadra di ricercatori del British Antarctic Survey scoprì un assottigliamento record dello strato di ozono sopra l’Antartide. Le indagini satellitari della NASA confermarono la presenza un buco di dimensioni continentali, e la comunità internazionale capì che il problema non poteva più essere ignorato.

La risposta fu rapida e, per molti versi, esemplare. Nel 1987, 46 Paesi firmarono il Protocollo di Montreal, un accordo vincolante per la progressiva eliminazione delle sostanze responsabili dell’impoverimento dell’ozono, in particolare CFC, Halon e altre sostanze chimiche alogenate. L’accordo venne rafforzato nel corso degli anni con numerosi emendamenti e oggi conta la partecipazione di 198 Stati, praticamente la totalità dei membri delle Nazioni Unite. Secondo le valutazioni dell’ONU, si tratta del trattato ambientale più efficace mai adottato: ha impedito l’immissione nell’atmosfera di miliardi di tonnellate di sostanze ozono-lesive e ha permesso un lento ma costante processo di recupero dello strato protettivo. Le stime più recenti dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente indicano che, proseguendo ai ritmi attuali, intorno alla metà del XXI secolo lo strato di ozono potrebbe tornare ai livelli pre-1980. Un risultato che dimostra come la cooperazione globale, sostenuta dalla scienza, possa produrre effetti concreti e duraturi.

Tuttavia, mentre la Terra tenta di guarire le ferite del passato, nuove preoccupazioni si affacciano all’orizzonte. Il boom dell’industria spaziale – alimentata da colossi come SpaceX, Amazon e OneWeb – e il lancio di migliaia di satelliti stanno introducendo nell’atmosfera quantità crescenti di sostanze potenzialmente dannose per l’ozono. Ogni razzo rilascia in stratosfera particelle di fuliggine, ossidi di azoto e composti del cloro e dell’alluminio derivanti dai propellenti. Queste sostanze, pur in quantità molto inferiori rispetto ai CFC del passato, esercitano il loro impatto proprio nella regione dell’atmosfera in cui si trova lo strato di ozono. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Earth’s Future, le emissioni dei lanci spaziali potrebbero crescere di dieci volte entro il 2030, con effetti ancora poco compresi sulla chimica stratosferica. Inoltre, il rientro in atmosfera di satelliti dismessi o bruciati durante il rientro genera una “pioggia” di nanoparticelle metalliche che potrebbero alterare l’equilibrio chimico delle fasce superiori dell’atmosfera, compromettendo i progressi ottenuti in decenni di politiche ambientali.

La corsa allo Spazio, un tempo monopolio delle superpotenze, è oggi un business globale che coinvolge centinaia di aziende private. La cosiddetta “mega-costellazione” di satelliti pensata per fornire internet ad alta velocità in ogni punto del pianeta (e, tra poco, un cloud per l’intera umanità) promette vantaggi tecnologici e sociali indiscutibili, ma pone interrogativi urgenti sulla sostenibilità del modello attuale.

La comunità scientifica chiede regole più chiare e una nuova governance internazionale che tenga conto dell’impatto atmosferico dei lanci e dei rientri spaziali. Se il buco dell’ozono fu il campanello d’allarme della fine del Novecento, la sfida odierna è non ripetere lo stesso errore su scala orbitale, magari illudendosi che lo Spazio sia un altrove senza relazioni con la Terra. Ogni razzo che attraversa l’atmosfera lascia una traccia invisibile, ma concreta, nel delicato equilibrio del nostro pianeta. Nel cielo, dove un tempo vedevamo solo stelle, ora orbitano migliaia di satelliti: simboli di progresso, ma anche potenziali agenti di un nuovo tipo di inquinamento. La sfida è assicurarsi che il futuro dell’esplorazione spaziale non comprometta la sottile barriera che, da milioni di anni, ci protegge dal Sole.

Secondo il politologo brasiliano Emir Sader l’imperialismo del XXI secolo è più complesso di quello del passato e presenta una sua dimensione specifica, quella del capitalismo della speculazione finanziaria. Continua però a mantenere la sua vecchia identità, fondata sullo sfruttamento e sulla dominazione a danno di altri Paesi. È moderno ma si fonda sempre su minacce, aggressioni militari e guerre, e non sulle tecnologie più avanzate (oggi in mano alla Cina). Secondo Sader, questo imperialismo sta accompagnando il lento e inesorabile declino della potenza statunitense e potrebbe esaurirsi in pochi decenni. Se così fosse, l’agonia di questa modalità di relazione tra Stati, che consiste pur sempre nel controllare l’effettiva sovranità politica di un’altra società attraverso la forza o creando legami di dipendenza economica e culturale, non sarà certo pacifica.

Fin d’ora, in un pianeta già pieno di guerre, la politica neoimperialista di Donald Trump sta generando nuova conflittualità e trasformando regioni e Paesi fino a ieri pacifici in focolai bellici. È il caso dell’America Latina, dove da decenni non si verificavano tensioni di questo genere e che oggi si ritrova sull’orlo di un conflitto che potrebbe espandersi oltre i suoi confini, coinvolgendo la Russia. Anche la minaccia di intervento militare in Nigeria, il Paese più popoloso d’Africa, arriva come una doccia fredda per la classe dirigente locale, che aspira a entrare nel gruppo dei Paesi “che contano”. In America Latina è il narcotraffico, in Africa la sicurezza dei cristiani, ma si tratta sempre di alibi per una politica imperiale. Reali o solo minacciati, questi conflitti si moltiplicano e i pretesti non riescono a coprire il reale interesse geopolitico che li scatena, ossia contrastare la Cina in una nuova versione della Guerra Fredda a pezzi, per parafrasare papa Francesco.

Quanto la svolta militarista trumpiana possa diventare concreta, lo si vedrà. In ogni caso, questo “risveglio” degli Stati Uniti, dopo decenni di torpore globalista, fotografa un mondo che in realtà sta sfuggendo dalle loro mani. Un mondo nel quale sono state costruite nuove alleanze e nuove geometrie economiche senza chiedere il permesso a Washington, e men che meno alle decadute potenze imperialiste europee. Ciò che è diventato il collante dei rapporti tra i Paesi che una volta chiamavamo del Terzo Mondo è soprattutto l’economia degli scambi, nella quale la Cina è senza dubbio al centro del mondo. Per questo motivo Pechino rifiuta l’uso degli eserciti, rilancia il multilateralismo, si offre per mediare ovunque. È forte del quasi monopolio nella trasformazione di terre rare e litio, del suo primato industriale in settori chiavi come l’elettronica, l’informatica, le tecnologie per la transizione energetica. È conscia del suo peso come compratore, come dimostrato nella trattativa con gli Stati Uniti che includeva l’acquisto di soia da parte della Cina, ma anche della sua inferiorità militare.

Intanto, il neoimperialismo statunitense, forse l’ultimo del secolo, fa sì che Washington si scontri con i suoi alleati storici: ne lede gli interessi, mette in dubbio legami consolidati come quello tra i Paesi NATO, si allontana dall’Europa e quindi dall’Occidente. È più probabile che questa politica finisca con l’accelerare il declino americano, anziché fermarlo. Tutto nasce da un’illusione, dall’ubriacatura che deriva dal possedere il più grande esercito della storia. Ma nel mondo del XXI secolo non bastano le cannoniere, ci vuole molto di più. Bisogna mettere in campo una politica lungimirante, potenza economica e chiavi di interpretazione aggiornate. Tutte capacità imprescindibili per governare il futuro, ma che a Washington al momento non esistono.

La guerra ibrida tra Stati Uniti e Cina continua svolgersi sottotraccia. Ma, sul piano dei commerci come su quello della geopolitica, è proprio questo lo scontro rispetto al quale tutti gli altri conflitti, a prescindere dalla loro natura, diventano secondari. Sarà infatti il braccio di ferro tra le due potenze a definire quale, tra le due diverse rimaste sul tavolo, sarà la governance mondiale del futuro. Quella dell’amministrazione Trump è sovranista, isolazionista, estranea al diritto internazionale e alle regole del WTO, basata sul potere militare e tecnologico. Quella cinese, invece, è il frutto di una ragnatela di rapporti politici ed economici costruiti negli ultimi trent’anni: multilateralista e pro-WTO, critica nei confronti del colonialismo e del neocolonialismo. 

Gli ultimi due episodi di questa guerra ibrida si stanno combattendo sul terreno della finanza e del commercio. Dapprima, Pechino ha ristretto l’export verso gli USA di metalli strategici, di cui è il fornitore mondiale predominante, dimostrando che senza i metalli estratti in Cina dalle terre rare l’industria ultratecnologica a stelle e strisce si ferma. Il secondo episodio riguarda la soia, di cui gli Stati Uniti sono il secondo produttore mondiale dopo il Brasile. Soia OGM, che si utilizza per produrre biocarburanti e olio commestibile, ma soprattutto come foraggio per il bestiame. La Cina da sola importa il 60% della produzione mondiale. Ora, a ridosso della campagna d’autunno, ha deciso di non comprarne più un grammo dagli Stati Uniti: in altri anni c’erano già ordinativi per 12 milioni di tonnellate.

Dunque, la soia di cui sono assetati i cinesi non sarà più acquistata dai farmer statunitensi, vicini politicamente a Donald Trump, ma in Brasile e in Argentina. È un duro colpo, sferrato tra l’altro quando la soia arriva a maturazione e per i produttori diventa molto difficile, se non impossibile, trovare acquirenti alternativi. Nemmeno durante il primo mandato di Trump, che fu segnato dalla guerra commerciale con la Cina, si era arrivati a quota zero. Certo, Pechino è molto più forte adesso, e lo è per il combinato disposto tra la sua capacità di acquisto di derrate alimentari e il suo status di quasi monopolista dell’export di minerali strategici.

La risposta degli Stati Uniti passa invece da strade tortuose e difficilmente potrà avere successo. L’appoggio senza limiti offerto finora a Javier Milei, presidente dell’Argentina, da Donald Trump, che ha disposto che siano gli USA a salvare l’economia argentina, prevede una contropartita: Buenos Aires deve chiudere lo swap, cioè lo strumento finanziario, che ha firmato con la Cina ed è chiamata a ridimensionare il ruolo di Pechino nei suoi rapporti commerciali. Ma la Cina è il secondo partner economico argentino, dopo il Brasile, e compra carne, cereali, metalli. Tutti prodotti che gli Stati Uniti non acquistano, producendoli invece in proprio. In che modo l’Argentina potrebbe sostituire la Cina con gli Stati Uniti nei suoi rapporti commerciali? Nessuno sa dare una risposta, ed è questa la forza della presenza cinese nel mondo. Mentre Washington minaccia dazi, esercita pressioni, sposta i suoi militari e divide il mondo tra amici e nemici, Pechino acquista merci, investe, parla di concerto tra le nazioni e fa il prestatore di ultima istanza. Soprattutto, non divide il mondo tra amici e nemici: alla Cina, vanno bene quasi tutti.

È difficile sapere come continuerà lo scontro tra i giganti. Se a un certo punto decidessero di sedersi a un tavolo per stabilire nuove regole, e di conseguenza un nuovo equilibrio mondiale, nessuno potrebbe opporsi, e molti conflitti odierni, come per magia, si chiuderebbero. Invece lo scontro politico ed economico continuerà finché non sarà chiaro quanto contino di meno gli USA e quanto conti di più la Cina rispetto al nuovo ordine che subentrerà al caos. 

The key takeaway from the Shanghai Cooperation Organisation (SCO) summit, which concluded on September 1, was the rapprochement between India and China. The two demographic giants have never enjoyed warm relations: India has always defended its strategic autonomy, aligning itself with the U.S.-led geopolitical sphere. Yet both countries know they are the real powerhouses within the BRICS bloc—and that together they could accelerate the global rebalancing now under way, steering the world out of its current chaos.

Their combined strength lies in Beijing’s economic and now military might, as well as in the vast scale of their domestic markets and their capacity to produce exportable goods—again, largely driven by China. Together, they are the two nations that have allowed Russia to sustain its war in Ukraine without suffering crippling consequences from Western sanctions. Contrary to Donald Trump’s claim that he could end the conflict “within 24 hours,” it is actually the governments of India and China that could stop it within weeks—simply by refusing to buy Russia’s discounted oil and goods. The issue is one of weapons and fossil fuels, but also of timing. Beijing and New Delhi will continue to keep Putin’s economy on life support as long as it demonstrates their leverage—and as long as it remains clear that Russia has become China’s economic vassal. A colossal vassal, rich in raw materials and armed with a nuclear arsenal that rivals Washington’s—gifted, in a sense, to Beijing by the West itself.

Of course, China and India’s interests are far from identical, shaped by profound cultural and political differences. Deeply religious, democratic, and federal India is not the secular, nominally communist China. Yet when the two giants look outward, those differences fade. India has begun to follow China’s path, making cautious inroads into regions recently “colonized” by Beijing—Central Asia, East Africa, and South America. While it cannot match China’s limitless catalogue of goods and services, India brings to the table advanced technologies in several industries and access to a domestic market of more than 1.4 billion consumers.

Above all, China and India together can offer political shelter to countries that flout international norms or find themselves shunned by the West—a valuable asset in the Trump era. For the likes of Putin’s Russia, Kim Jong-un’s North Korea, Myanmar’s junta, or Maduro’s Venezuela, Beijing and New Delhi’s economic and diplomatic backing—especially China’s, with its UN Security Council veto—is crucial. This explains why the two Asian powers have shown little interest in Gaza or the broader Middle East: their energy supplies are already guaranteed by Russia and Venezuela. Instead, their focus is on Africa—particularly the Maghreb and the sub-Saharan region—where they have quietly supported the coups that pushed France out of its former sphere of influence.

Africa, South America, and South Asia are strategically vital for their deposits of raw materials essential to future industries and for ensuring food security for vast populations. Unsurprisingly, China has just abolished all tariffs on African imports—a pointed lesson for those clinging to outdated privileges or believing that protectionism brings prosperity.

It was only a matter of time: sooner or later, the two nations that together represent nearly half of humanity would realize that, united, they could become the new pole around which the rest of the world revolves. For now, they are only moving closer to that goal—but the contest for dominance in the new world order has officially begun.

La grande notizia emersa dal vertice della SCO (la Shanghai Cooperation Organisation) conclusosi il primo settembre è stato l’avvicinamento tra India e Cina. I due giganti demografici mondiali non hanno mai avuto buone relazioni: l’India ha sempre difeso il proprio ruolo autonomo, collocandosi nella sfera geopolitica degli Stati Uniti. Ma sanno di essere i due Paesi che contano veramente nel gruppo dei BRICS e di avere le carte in regola per far cambiare marcia al processo di riorganizzazione degli equilibri mondiali, indirizzando l’uscita dal caos attuale.

Insieme, hanno una forza che si fonda sul potere economico, e ora anche militare, di Pechino, ma anche sulle dimensioni enormi loro mercati interni e sulla capacità di produrre beni esportabili, anche in questo caso a traino cinese. Insieme, sono i due Paesi che hanno permesso alla Russia di continuare a condurre la guerra in Ucraina senza subire serie conseguenze dalle sanzioni occidentali. Diversamente da ciò che racconta Trump, che affermava di poter chiudere il conflitto in 24 ore, sono i governi di India e Cina quelli che potrebbero fermarlo sul serio in poche settimane, semplicemente non comprando più i prodotti russi in svendita. È una questione di armi ed energia fossile, ma anche di tempo. Pechino e Nuova Delhi continueranno a dare ossigeno a Putin finché avranno dimostrato il loro potere, e finché sarà chiaro che la Russia è diventata un vassallo economico della Cina. Un vassallo gigantesco, ricchissimo di materie prime e dotato di armi nucleari in grado di competere con quelle degli Stati Uniti, che è stato regalato a Pechino dall’Occidente.

Senza dubbio gli interessi di Cina e India non sono esattamente gli stessi, anche per via delle profonde differenze culturali e politiche. L’India della profonda religiosità, e con un sistema democratico su base federale, non è la Cina laica di un regime che rimane nominalmente comunista. Eppure, quando i due giganti guardano il resto mondo, queste differenze si fanno meno rilevanti. E l’India sta iniziando a ricalcare le orme della Cina, insinuandosi timidamente in quei mondi che di recente sono stati “colonizzati” da Pechino: Asia centrale, Africa orientale, Sudamerica. Non ha da offrire le merci e i servizi dell’infinito catalogo cinese, ma mette sul piatto tecnologie non indifferenti in diversi settori produttivi e la possibilità di fare affari con un mercato di oltre 1,4 miliardi di persone.

Soprattutto, Cina e India insieme possono offrire un ombrello politico ai Paesi che infrangono le regole della comunità internazionale o che non sono “simpatici” alle potenze occidentali: un asset che è diventato preziosissimo, ai tempi di Trump. Come per la Russia di Putin, anche per la Corea del Nord di Kim Jong-un, per il Myanmar dei generali e per il Venezuela di Maduro diventa vitale poter contare sul loro sostegno economico e diplomatico, soprattutto quello della Cina, che ha un seggio permanente con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza ONU. Ecco perché di Gaza e del Medio Oriente le due potenze asiatiche non si sono minimamente interessate: hanno il petrolio garantito dalla Russia e dal Venezuela. Invece si interessano, eccome, di Africa, e soprattutto del Maghreb e dell’area subsahariana, dove hanno sostenuto tutti i colpi di Stato che hanno scacciato i francesi dalla zona.

L’Africa, il Sudamerica e l’Asia meridionale sono strategici per i giacimenti di materie prime minerarie necessarie per l’industria del futuro e per garantire la sicurezza alimentare a una popolazione enorme. Non a caso, la Cina ha appena abolito tutti i dazi per le merci africane importate: una lezione per chi vive aggrappato a vecchi privilegi o per chi crede che i dazi portino fortuna.

Era solo una questione di tempo: presto o tardi, i due Paesi che da soli rappresentano quasi metà dell’umanità avrebbero capito che insieme possono provare a diventare il nuovo polo attorno al quale gira il resto del mondo. Per ora si stanno solo avvicinando all’obiettivo, ma la lotta per l’egemonia nel nuovo ordine mondiale è ufficialmente aperta.

L’uso del linguaggio d’odio e delle fake news in politica è nel mirino della stampa internazionale, soprattutto dopo l’omicidio, negli Stati Uniti, dell’attivista della destra radicale Charlie Kirk. Un delitto che racconta due aspetti della società statunitense: una deriva drammatica in materia di salute mentale, potenziata dall’ideologia dell’odio, e le conseguenze della facilità con cui è possibile acquistare legalmente armi da guerra. Ma di questo non si parla, perché la morte di Kirk sta alimentando le centrali della disinformazione che la attribuiscono, senza ombra di dubbi, a una “sinistra violenta” che nella realtà non esiste più praticamente in nessuna parte del mondo. Siamo di fronte a una narrazione che riesce a imporsi su scala internazionale, sdoganando l’idea che piccole minoranze siano rappresentative di intere categorie. Se è vero che qualche leone da tastiera ha esultato sui social network per l’assassinio di Kirk, è ridicolo immaginare che sia rappresentativo di un sentimento condiviso in un mondo così vasto e variegato come quello della sinistra. Lo stesso si può dire a parti invertite: se è vero che esiste una destra ultraradicale che ricorre alla violenza politica e che qualcuno la giustifica, è falso che questi gruppi rappresentino l’enorme massa di persone che vota conservatore.

Questa rappresentazione distorta che riesce a presentare la radicalità, soprattutto virtuale, come se fosse il volto della politica “vera” è il capolavoro della nuova destra, che di fatto governa pochi Paesi, e uno solo davvero importante, gli Stati Uniti. Ungheria, Slovacchia, Argentina sono Stati totalmente marginali per peso e ruolo; solo l’Italia si situa in una posizione intermedia, ma la composizione della maggioranza di governo in qualche modo stempera le punte estreme. Almeno per ora.

I social sono diventati i moltiplicatori perfetti per l’affermazione planetaria di questo modo di fare politica, che è solo apparentemente nuovo. L’insulto, la frase razzista, l’attacco personale e la delegittimazione dell’avversario non sono certo espedienti di recente invenzione: ma in questi anni si è permesso che dilagassero in rete e oggi risultano potenziati, così come, su altri fronti, si è lasciato che crescessero il terrorismo o il narcotraffico, per giustificare il ritorno a rapporti di forza misurati soltanto sulla potenza militare.

In un clima del genere è sempre più difficile trovare mediazioni ai conflitti, quelli in corso come quelli latenti o potenziali. Gli accordi di Oslo del 1993 tra Israele e Palestina erano stati preceduti dal reciproco riconoscimento al diritto all’esistenza delle due entità. Il governo Netanyahu, ma anche Hamas, hanno fatto tornare indietro di decenni le lancette della storia negando all’avversario il diritto di esistere. Anche nella prima fase del conflitto ucraino la Russia metteva in discussione il diritto all’esistenza sovrana dello Stato vicino, accampando pseudo-motivazioni storiche. D’altra parte, a Washington si parla di geopolitica senza riconoscere la sovranità altrui: accade per la Groenlandia e per il canale di Panama, ma anche quando si ipotizza di combattere il narcotraffico invadendo il Messico o il Venezuela.

Tutte queste politiche nascono dalla sistematica demolizione delle storiche istanze multilaterali, che avevano il pregio di mettere sullo stesso piano Paesi piccoli e grandi, ricchi e poveri. Una democrazia planetaria che oggi suona come debolezza: si dà per scontato che solo i potenti debbano guidare il mondo. Il punto è che ci sono molti potenti e ancor più prepotenti, e così il mondo non è più governato da nessuno.

Siamo arrivati alla fase finale della transizione dal vecchio ordine, scaturito dalla Seconda guerra mondiale, a un nuovo assetto che tuttavia appare ancora incerto. L’unica certezza è che alla base del caos odierno ci sono sempre le parole violente, la delegittimazione del rivale, la falsificazione della realtà che spaccia per maggioritarie posizioni minoritarie. I capisaldi di una nuova destra mondiale che, nella realtà, non ha ancora tanti voti, ma sta costruendo una nuova egemonia culturale.