Poche volte l’andamento dell’economia mondiale è dipeso dalla salute di un popolo, ma in questo 2023 che inizia dipenderà da quella del popolo cinese. I timori che il brusco allentamento delle misure draconiane di prevenzione finora adottate da Pechino contro il coronavirus possa tradursi in un’ondata incontrollata di contagi sono molto forti. I motivi sono diversi, ma i principali rimangono l’alta percentuale dei cittadini non vaccinati, una decina di milioni solo tra gli over-85, e la scarsa efficacia dimostrata nei test dai vaccini cinesi della Sinovac rispetto a quelli a mRna prodotti dalle multinazionali occidentali. In Cile, dove questi vaccini erano stati usati per la prima volta fuori dalla Cina, si è calcolato che la copertura di vaccini Sinovac di prima generazione non superava il 40% di efficacia. Nel 2022, la scarsa circolazione del virus nel Paese asiatico è stata dovuta non tanto ai vaccini, ma alle politiche di isolamento dei focolai, fondate su rigidissimi lockdown. La domanda degli esperti è se la Cina oggi è pronta per sostenere la ripresa economica globale, visto il ruolo determinante che svolge per la filiera produttiva mondiale. La pandemia, infatti, ha messo in evidenza come della Cina non si possa fare a meno: garantisce percentuali che toccano il 40% dei componenti attivi dell’industria farmaceutica e il 35% del mercato mondiale dei microchip, oltre a una enorme quantità di beni che spaziano dall’elettronica avanzata alle terre rare, che sono estratte o elaborate in Cina quasi per il 70%.

Si è così compreso che la globalizzazione è sì una fase dell’economia mondiale nella quale tutti partecipano a un unico e grande mercato, ma questo mercato è tenuto in piedi da pochi Paesi, e soprattutto dalla Cina. Se la salute dei cinesi quindi vacilla, ne risente l’economia di tutto il mondo e in alcuni settori si rischia addirittura la paralisi. Questa è la conseguenza di un processo iniziato negli anni ’80 del secolo scorso, con il trasferimento di interi comparti industriali dismessi dall’Occidente verso la Cina, capace di acquisire velocemente una capacità produttiva che in precedenza non aveva grazie al suo inesauribile serbatoio di manodopera a basso costo, ma anche a zero politiche ambientali e sfruttamento illimitato di energia prodotta dal carbone. Poi il colosso asiatico è diventato esso stesso un grande mercato, ma senza perdere il ruolo di esportatore che, anzi, si è rafforzato nel tempo anche attraverso enormi investimenti diretti in una miriade di Paesi in tutto il mondo. Il vero colpo di reni della Cina è stata però la sua politica estera, non guidata da mire geopolitiche tradizionali ma volta a consolidare il primato economico raggiunto. Stringendo accordi commerciali, Pechino si è garantita rifornimenti certi di quasi tutte le commodities necessarie per la sua economia. E quindi grano, soia, carne, legname dal Sudamerica e minerali strategici dall’Africa, diventata il suo cortile di casa. Per non parlare del resto dell’Oriente, dove spiccano gli accordi con Vietnam e Laos e il sostegno a regimi come quello al potere in Myanmar.

L’espansione della Cina assomiglia molto, almeno da un punto di vista economico, a quella che fu propria dell’Impero britannico, ma senza l’apporto delle cannoniere e senza le colonie, almeno in apparenza. La Cina è dunque una potenza moderna e allo stesso tempo antica, ormai da tempo siede al tavolo dei grandi del mondo ma continua a usare retoriche terzomondiste con i Paesi più poveri. Questo ruolo, però, ora diventa fragile per via del più grande errore commesso da Pechino negli ultimi decenni: quello di non avere voluto, per motivi di orgoglio nazionale, copiare o acquistare i vaccini occidentali, preferendo continuare a seguire la via, rivelatasi fallimentare, del controllo della diffusione dei contagi. Il punto è che la salute del popolo cinese è un problema di tutti: senza la Cina non si uscirà dalla crisi iniziata nel 2019, a dimostrazione del fatto che, oggi più che mai, i problemi e i conflitti arrivano dall’economia molto più che dai missili. Ma a differenza dei carri armati, sono problemi che fanno poco rumore.

Il Natale è stata la prima vera festa ad assumere portata globale, prima ancora della fine della Guerra Fredda. E ciò è accaduto parallelamente al suo progressivo allontanamento dal significato originario, ossia ricordare la nascita in Medio Oriente di quel bambino ebreo che sarebbe diventato il “Figlio di Dio” per i fedeli di una nuova religione, quella cristiana, destinata a svilupparsi soprattutto in Europa e poi a espandersi nel mondo, grazie al colonialismo. Nel senso religioso della ricorrenza, il Natale è una festa di preghiera e di speranza: ma in questi termini coinvolge esclusivamente i cristiani, e cioè solo una parte dell’umanità. Invece la festa del Natale, intesa in senso laico, coinvolge qualche miliardo di persone in più.

L’odierna festa dell’omone rosso che viaggia in slitta, che con la tradizione cristiana nulla ha a che vedere, è un Natale “neutralizzato” dal punto di vista della fede e caricato di nuovi significati e di nuovi simboli universali. I significati acquisiti sono quelli classici della dimensione fiabesca: il giorno di Natale “si torna tutti buoni” e per 24 ore è consentito sperare in un futuro migliore. A Natale è tutto possibile, ma è un possibile che dura poco. Il simbolo laico del Natale è ormai diffuso a livello planetario. Santa Claus, ovvero Babbo Natale, un corpulento nonno vestito di rosso che abita dalle parti del Circolo polare artico circondato da renne e da un esercito fantastico di elfi, con i quali costruisce giocattoli. Ma Santa Claus non è altro che la libera reinterpretazione di un’altra figura religiosa, san Nicola di Mira, il vescovo della Licia che, secondo i resoconti, nella sua vita fu protettore di bambini e fanciulle e diede esempio di grande generosità, donando ai più poveri nei momenti del loro massimo bisogno. Da santo caritatevole a icona della Coca-Cola, il passo è stato relativamente breve: così il giorno di Natale diventiamo tutti buoni come san Nicola, purché si beva la cola, o meglio quell’elisir nato ad Atlanta mescolando foglie di coca, zucchero e cola.

Il Natale della bontà e del dono, soprattutto di quest’ultimo, è diventato il migliore volano per le vendite di fine anno, periodo nel quale si registrano ad esempio i picchi di acquisti di prodotti di elettronica, anche se il Cyber Monday, altra data importante del calendario del consumismo, ormai lo sta superando. Arriviamo così alla festa globale dei buoni sentimenti, per la gioia dei fabbricanti di gadget e di cibi pregiati. Una festa che non discrimina più per appartenenza religiosa o etnica, ma solo per possibilità economica. Una festa laica che va bene in Italia e Germania, ma anche in India, Cina o Nigeria. Una festa non più comandata dal vescovo, ma dai media.

Nella sua versione contemporanea, il Natale ha anticipato di decenni la globalizzazione e il suo valore fondante: quello dell’uguaglianza universale a partire dell’omologazione nei consumi. Un mondo forgiato dalle multinazionali che offrono gli stessi prodotti ovunque, fabbricandoli là dove è più conveniente. È una festa che appartiene al passato e insieme al futuro, che forse domani potrebbe vedere insidiato il suo primato da Halloween o dal Capodanno cinese, ma che gode di una popolarità difficile da scalfire. E, visto che al momento non ha concorrenti, buon Natale anche quest’anno!

Sono passati circa vent’anni da quando l’Unione Europa ha imposto una certificazione per il legname utilizzato per le costruzioni e l’industria del mobile. L’idea era contribuire ad arrestare, in Europa e nel mondo, i processi di deforestazione finalizzati ad alimentare l’industria del legname. Ma la deforestazione non è diminuita, anzi: non potendo più commerciare in Europa i legnami pregiati non certificati, i predatori di foreste ora li vendono alla Cina e all’India. E il problema non è certo solo questo. La situazione è peggiorata soprattutto perché oggi le foreste non si tagliano ma si bruciano: accade per fare posto alle coltivazioni di palme da olio, di soia e cacao, o per ricavare pascoli per allevare bestiame. Su scala globale, tutte queste attività agricole sono cresciute esponenzialmente per via del miglioramento delle condizioni di vita in Oriente, che ha portato a una maggiore domanda di cibo, e anche per il diffondersi di alcune “mode” del settore alimentare. Basti pensare al caso della soia, usata sempre più come foraggio per il bestiame e nella panificazione, e all’andamento del mercato dell’olio di palma, ormai impiegato in tutta la filiera della pasticceria: dal 2000 al 2020, la quantità commerciata nel mondo è quasi quadruplicata.

Ora la Commissione e il Parlamento dell’UE hanno raggiunto un accordo per imporre certificazioni di sostenibilità ambientale e sociale anche a una serie di prodotti “responsabili” di deforestazione come cacao, soia, caffè, gomma, olio di palma: tali prodotti non potranno più essere acquistati da operatori europei se coltivati in terreni che sono stati deforestati dopo il 31 dicembre 2021. In pratica, si condona tutto il degrado delle foreste tropicali che è stato prodotto fino a un anno fa: un degrado di cui l’Unione è responsabile quasi per il 20%. Indipendentemente da queste valutazioni, l’accordo ha un valore quasi solo politico e simbolico. Di sicuro farà felici le società di certificazione e avrà ripercussioni sui prezzi ai consumatori, mentre sul piano concreto applicare la legge sarà difficilissimo e le possibilità di aggirarla saranno alte. Questo perché, ad esempio, soia, caffè e olio di palma vengono raccolti in silos o cisterne usati da più produttori, che fanno perdere le tracce della provenienza, e anche perché, non esistendo registri degli incendi o delle deforestazioni, è impossibile accertare se un appezzamento agricolo sorge in un’area disboscata due anni fa o l’altro ieri.

L’Unione Europea, in realtà, da un lato vorrebbe che il mondo fosse a sua immagine e somiglianza, dall’altro ha bisogno che le materie prime una volta chiamate “coloniali” continuino ad arrivare a basso prezzo. Questo il motivo che spiega, ad esempio, la grande contraddizione dell’aver escluso dall’elenco il mais, che si coltiva anche in zone tropicali deforestate. Il tema che resta tabù è quello dei consumi: non tanto della loro qualità ma della quantità, argomento che è collegato sia allo spreco sia a una serie di disturbi dell’alimentazione. Per quanto riguarda questa certificazione, è certamente giusto voler capire come sono state prodotte le merci che consumiamo, ma è ridicolo pretendere che i prodotti coltivati in zone di foreste primarie non siano cresciuti grazie alla deforestazione, compiuta un anno o dieci anni prima. La vera rivoluzione sarebbe invece limitare le importazioni di queste materie prime, lavorando per una riduzione del consumo degli alimenti collegati alla distruzione delle foreste. Ad esempio, regolamentare o tassare le catene di fast food che spuntano come funghi proponendo carne bovina low-cost da animali foraggiati a soia sarebbe più utile che “certificare” la soia, cosa già in sé improbabile. Ma sappiamo che alla fine le aspirazioni ambientali si infrangono sul totem del consumo e della libertà di consumare come se non ci fosse un domani: prospettiva che, pian piano, sta diventando sempre più realistica. 

A conflitto ancora in corso, e nonostante l’esito militare sia ancora indecifrabile, già si possono individuare alcuni vincitori certi: sono i big del settore degli idrocarburi non convenzionali (e cioè i produttori di “gas di scisto” statunitensi), i qatarioti che esportano gas naturale liquefatto e gli speculatori della Borsa di Amsterdam, cui si aggiungono i produttori non europei di grano e girasole. Soprattutto, la vera grande vincitrice di questa guerra è l’industria bellica: conflitti come quello russo-ucraino servono sia a testare armi nuove sia a stabilire gerarchie rispetto alla qualità, si fa per dire, dei diversi strumenti di morte. L’industria di droni turchi e iraniani low cost ha trovato un’eccellente vetrina che ne allargherà il mercato, soprattutto nei Paesi senza grandi risorse economiche. Ma la parte del leone va all’industria statunitense che, tramite la NATO, ha rifornito l’Ucraina di una grande varietà di armamenti per un valore di 40 miliardi di dollari: cannoni, missili anti-carro Javelin e anti-aerei Stinger, veicoli, droni e lanciarazzi mobili multipli Himars…

Praticamente sono stati svuotati gli arsenali. Da tempo, guerre convenzionali che prevedessero un ricorso massiccio agli armamenti usati dagli eserciti di terra non venivano nemmeno più ipotizzate. Ora non solo sta partendo la corsa per “rifare le scorte”, ma si ricomincerà anche a investire risorse nello sviluppo di questo tipo di armi. Si calcola che la quota di PIL dedicata alla difesa aumenterà velocemente: per Europa e Stati Uniti, già si ipotizza una crescita delle spese militari compresa tra il 7 e il 9%. Anche in altri Paesi gli eserciti si rafforzano, dall’Australia al Giappone è tutto un rivedere strategie e ampliare arsenali. E così, in breve tempo, le priorità del mondo post-pandemia si sono spostate dalla sanità, e dalla necessità di costruire filiere corte di rifornimenti strategici, al settore delle armi, in un contesto globale che all’improvviso si riscopre a rischio di guerre che possono prevedere addirittura l’uso delle armi nucleari. Nel frattempo il cambiamento climatico può attendere: come sempre, viene considerato un tema rinviabile nella logica dell’agenda globale.

L’aumento della spesa militare è l’ennesima dimostrazione del fallimento del sistema di regole e governance globale, del vuoto della politica che ha creduto per decenni che la sola liberalizzazione dei mercati avrebbe portato a un periodo di stabilità mondiale. Il principio secondo il quale “i Paesi legati da interessi reciproci non si fanno la guerra” è crollato con il conflitto ucraino e ora si teme che in giro per il mondo possano aprirsi altre falle, da gestire con le armi.

Nel corso dell’ultimo G20 Joe Biden, rivolgendosi a Xi Jinping, ha detto che se i loro Paesi collaboreranno potranno fornire una soluzione all’instabilità odierna della globalizzazione. Ma forse è troppo tardi, o meglio, forse quella di Biden è una visione troppo ambiziosa per i tempi attuali. Il bipolarismo che si profila tra USA e Cina, infatti, non è paragonabile all’equilibrio della Guerra Fredda. Le potenze regionali che una volta erano comandate da Washington o da Mosca oggi agiscono di testa propria, senza attenersi ai consigli dei partner internazionali. Non è un mistero che la mossa di Putin non ha mai entusiasmato i cinesi: il punto è che Pechino non è stata in grado di fermarla e nemmeno ora sa come convincere la Russia a uscirne. Eppure, mentre il mondo si trascina appesantito da problemi sempre maggiori, c’è sempre chi ha già vinto. Ieri le case farmaceutiche, oggi l’industria bellica, domani chissà. Nel deserto creato dalla politica non ci sono solo sofferenze: ci sono anche tanti, tanti affari da concludere.  

Del Venezuela non si parla ormai da molto tempo. Il Paese sudamericano è uscito dai riflettori dei media internazionali all’inizio della pandemia, per scomparire definitivamente con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Fondamentalmente ciò è accaduto perché gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa impegnati in una campagna a tutto campo contro il governo di Nicolás Maduro, hanno concesso al Venezuela un’apertura che va letta integralmente nella logica della geopolitica del petrolio, scossa appunto dalla guerra Ucraina. È l’ennesima dimostrazione di come i diritti umani e politici si possano barattare senza rimorsi per garantirsi la continuità nei rifornimenti di materie prime strategiche. Sabato 26 novembre, a Città del Messico, l’opposizione e il governo venezuelano hanno raggiunto un accordo di minima per la ripresa del dialogo, agevolato dalla Norvegia in veste di mediatore e – soprattutto – dall’impegno statunitense sullo scongelamento dei capitali venezuelani all’estero, bloccati dalle diverse sanzioni accumulate negli anni dal Paese e dalla sua classe dirigente. I fondi dovrebbero essere investiti nella sanità e per l’alimentazione di un popolo ormai provatissimo: la crisi economica, infatti, risale addirittura a tempi precedenti alle sanzioni, quando fu innescata dall’incapacità dell’erede di Hugo Chávez di gestire l’economia nazionale.

Intanto, il Venezuela è entrato nella storia come lo Stato americano che ha perso la maggior quota di popolazione nel minor tempo. Sono circa 7 milioni, secondo i dati delle Nazioni Unite, i venezuelani che negli ultimi 8 anni sono emigrati in altri Paesi latinoamericani, soprattutto Colombia e Perù, o verso gli Stati Uniti e l’Europa: significa che quasi il 25% della popolazione totale è fuggita cercando opportunità all’estero, un fenomeno che non si era mai verificato in tempi di pace. Eppure il governo di Maduro è ancora al potere e gode di un discreto consenso, ovviamente al netto dei dubbi sulla libertà di espressione e sulla trasparenza degli ultimi processi elettorali, come più volte denunciato. Ma oggi il punto non è questo, bensì il fatto che il termometro dell’importanza dei diritti si è dimostrato fortemente legato a considerazioni di realpolitik. Nulla di nuovo, per carità: è la semplice constatazione della schizofrenia di un mondo che a parole difende i diritti calpestati, esigendo ad esempio che i calciatori delle nazionali occidentali compiano gesti politici ai Mondiali di calcio, ma che non si sogna di interrompere le relazioni finanziarie con il Qatar, né di sanzionare la Cina per la vicenda degli uiguri. E che ora chiude un occhio sul Venezuela dopo averlo messo al bando per anni, anche se il governo che ha dissanguato il Paese non intende cambiare nulla, nemmeno davanti all’esodo di un quarto della popolazione. Probabilmente erano sbagliate le sanzioni, così come ora è sbagliato, in nome del petrolio, fare finta che tutto sia normale a Caracas.

Sarebbe ora, come già chiesto da diversi intellettuali, che l’Occidente si togliesse definitivamente la maschera dell’ipocrisia e affrontasse la realtà in modo pragmatico. Le sanzioni e le condanne, se non sono seguite dai fatti, servono solo a ripulire la propria coscienza, ma chi viola i diritti questo lo sa benissimo. Il re è nudo: dopo secoli di colonialismo, e qualche decennio di finta protezione dei diritti, il mondo ormai si divide tra regimi e parolai. Se i regimi sono sempre esistiti, e continuano a fare il loro gioco, i parolai rappresentano la versione politically correct di un gioco d’interessi che è anch’esso antico come il mondo: che la mia mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Nel frattempo, la democrazia arretra ovunque, e chi pensa che a difenderla basterà una campagna sui social o una dichiarazione roboante sui diritti calpestati o è ingenuo oppure complice.

Alla base di tutti i discorsi c’è sempre lui, il calcio. Uno sport nato in Inghilterra, come quasi tutti i giochi di squadra moderni, ed esportato in quasi tutto l’Occidente dai dirigenti delle compagnie britanniche durante la globalizzazione di fine Ottocento. Piaciuto velocemente nel resto d’Europa e anche (soprattutto) in Sudamerica, ha poi contagiato l’Africa, l’Asia e infine il Medio Oriente. La grande differenza, nella passione per questo gioco, è quella tra i Paesi dove a calcio giocano praticamente tutti i bambini e quelli dove il calcio è, più o meno, una moda. I grandi scrittori che hanno raccontato il calcio sono nati dove il calcio si beve col latte materno: basti pensare all’uruguayano Eduardo Galeano, all’argentino Osvaldo Soriano, all’italiano Gianni Brera o all’inglese Nick Hornby. Autori che hanno dato una dimensione letteraria e anche fantastica al calcio, ad esempio con la partita tra socialisti e comunisti nella Terra del Fuoco, arbitrata da un figlio di Butch Cassidy, raccontata da Soriano.

Il gioco del pallone non è solo lo sport di base per milioni di ragazzi, e sempre più anche per moltissime ragazze, ma anche un fenomeno sociologico, psicologico e perfino antropologico. È ampiamente risaputo come questo gioco – che qualcuno, parafrasando Marx, definisce “oppio dei popoli” – sia strumentalizzabile da regimi in cerca di visibilità. Lo fecero per primi i militari brasiliani, che “sequestrarono” le vittorie della nazionale e la figura di Pelé, seguiti a ruota dai militari argentini che nel 1978 organizzarono il primo vero Mondiale della vergogna. Senza dimenticare i mondiali di Putin nel 2018, per arrivare all’edizione 2022 in Qatar. Il colpo d’occhio offerto dal palco d’onore dello stadio al-Bayt, durante la cerimonia di apertura, faceva venire i brividi: vi era rappresentata una sorta di “nazionale” del totalitarismo: al-Sisi, Erdoğan, il principe saudita Bin Salman, oltre allo sceicco del Qatar Al Thani. Un mondiale-business che produrrà un giro d’affari di 7,5 miliardi di dollari e che lascerà alla Fifa un miliardo di profitto.

Intanto, per il Mondiale del 2030 si candidano Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Tutti Paesi dove il calcio non è mai stato praticato né seguito, ma che hanno bisogno di una vetrina globale che il gioco del pallone può dare. Una vetrina che, però, è stata costruita nel tempo da milioni di bambini italiani, francesi, brasiliani e argentini che fin da piccoli sognavano di diventare bravi giocatori per poter aiutare la propria famiglia. Perché il calcio è stato un formidabile ascensore sociale, sebbene riservato a pochi, selezionati non sulla base degli studi o del lavoro ma dell’abilità con i piedi.

Per questo i bambini, e non solo loro, malgrado tutto seguiranno il Mondiale 2022. Perché è un’opportunità che si presenta ogni 4 anni che consente di dire “siamo i migliori”. Perché quella coppa rende orgogliosa una nazione, e seguire il calcio alza l’autostima di persone povere che vedono gente come loro che è riuscita ad emergere. Il calcio è tutto questo e anche di più, e nessuno staterello autoritario, per quanti miliardi spenda, potrà mai appropriarsi di una briciola di questa storia. Perché non si tratta di una storia costruita da generali o da principi, ma da milioni e milioni di diseredati che sono corsi dietro un pallone per farsi valere, per farsi sentire.

Dopo anni di caos, il mondo sembra avviarsi verso un nuovo ordine. Le elezioni di midterm che hanno rafforzato Joe Biden negli Stati Uniti, il ritorno del Brasile tra i protagonisti globali, lo stallo del conflitto ucraino-russo e la continuità al potere di Xi Jinping in Cina lasciano intuire che sta iniziando una nuova fase nel tormentato scenario internazionale, messo a dura prova dalla pandemia e dal ritorno dei conflitti che coinvolgono potenze nucleari. Il tutto si può sintetizzare nel discorso che Biden ha pronunciato davanti al leader cinese a margine del G20 di Bali, quando ha affermato che “come leader delle principali economie del mondo,dobbiamo gestire la competizione dei due nostri Paesi”. Da un lato, si è appellato alla Cina perché cessi la competizione, ormai arrivata sull’orlo della guerra commerciale, che in realtà è stata iniziata da Donald Trump. Dall’altro, ha riconosciuto a Pechino lo status di unica potenza mondiale con la quale gli Stati Uniti si devono misurare.

Si potrebbe dunque concludere che un nuovo bipolarismo sia alle porte, ma bisogna essere cauti. Anzitutto, qui non si parla di equilibrio militare: su quel piano, la Cina è lontana anni luce dal poter essere considerata un vero rischio per gli Stati Uniti, come invece lo fu l’Unione Sovietica. Soprattutto, Cina e USA sono fortemente legati tra loro da rapporti commerciali e finanziari costruiti nei decenni precedenti. Nella lunga storia delle potenze mondiali, mai si erano visti due Paesi così vicini economicamente e così lontani politicamente. Ma questa è la complessità e la contraddizione dell’odierna globalizzazione: pur restando politicamente molto distanti si può vendere e comprare lo stesso, e consumare lo stesso. Proprio questo è stato il quadro definito dal discorso di Xi Jinping durante l’incontro con Biden: possiamo essere soci commerciali, possiamo anche lavorare per la pace nel mondo e cercare insieme una soluzione ai cambiamenti climatici, ma non sono permesse critiche né intromissioni nella politica interna di ciascuno. Questo significa che Washington non deve interferire su Hong Kong, deve dimenticare gli uiguri che Pechino “rieduca” in campi di concentramento e non spingere Taiwan sulla via dell’indipendenza, perché l’isola prima o poi tornerà nella madrepatria.

Xi Jinping propone quindi una rilettura aggiornata dei rapporti tra statunitensi e sovietici durante la Guerra Fredda. All’epoca, quando le due potenze discutevano di disarmo, non parlavano di ideologie, ma solo di missili. Pechino vorrebbe ora che, quando Stati Uniti e Cina parlano di commercio, si discutesse solo di dazi e non di diritti umani. Questa impostazione pragmatica contraddice però la linea perseguita negli ultimi anni dalla politica estera di Washington. Se verrà accettata, come lascia intuire il discorso di Biden, si toglierà dal tavolo il tema – o meglio, l’alibi – finora usato per fare pressione sulla Cina, quello dei diritti umani. La questione dei diritti, infatti, non interessava più di tanto nemmeno prima, ma serviva a rafforzare la posizione negoziale americana. Se i rapporti tra i due Paesi saranno schietti, come chiesto da Xi Jinping, sulle violazioni cinesi dei diritti umani calerà un velo di silenzio, in patria e all’estero. Non è certo una bella cosa, anche se eliminerebbe l’uso ipocrita del tema, brandito contro l’avversario come una clava ma rispettato solo a giorni alterni.

Il nuovo ordine internazionale che potrebbe nascere dall’indiscutibile supremazia di Stati Uniti e Cina nega, per la prima volta, un ruolo da protagonista all’Europa, aggrovigliata nei suoi problemi, mentre è destinato ad accrescere il peso di alcune potenze regionali come Turchia, Indonesia, Brasile e, malgrado il conflitto, Russia. Quello che si stabilirà sarà infatti un equilibrio con due poli centrali, Cina e Stati Uniti, e una serie di satelliti, i Paesi del G20. Sarà l’ultima tappa del declino dell’Occidente, al quale resteranno solo gli Stati Uniti come simbolo, in un contesto globale più plurale da tutti i punti di vista: la pretesa superiorità di una parte del mondo rispetto all’altra sarà una questione del passato, relegata nei manuali di storia.

Un atto clamoroso deve, per definizione, suscitare clamore. Nell’odierna società mediatica, attivisti di diverse tendenze hanno spesso preso di mira obiettivi sensibili più per conquistare spazio sui mezzi d’informazione che per le ricadute concrete dei loro gesti a vantaggio della causa sostenuta.

Il jihadismo radicale, quando stava scomparendo dai media internazionali, escogitò la tecnica criminale di colpire i turisti occidentali, ben sapendo che in quel modo avrebbe fatto parlare di sé. Sul Mar Rosso, lungo il Nilo, a Bali, in Tunisia sono stati centinaia i turisti trucidati da gruppi terroristici che puntavano a diffondere le loro folli idee comparendo nelle trasmissioni televisive di tutto il mondo. Dal punto di vista della sicurezza la reazione è stata fulminea. Nei Paesi a rischio, i distretti turistici sono stati chiusi in una morsa militare. Laddove ciò era impossibile – ad esempio in Francia o Belgio, colpiti da attentati indiscriminati contro i passanti – a riportare una relativa sicurezza sono stati da una parte l’intelligence e dall’altra l’indebolimento dei mandanti. Da quando non prende più di mira l’Occidente o gli occidentali nel mondo, il jihadismo armato è, di fatto, nuovamente scomparso dagli schermi.

Negli ultimi anni la strada del gesto clamoroso è stata percorsa anche da alcuni movimenti ambientalisti. Nulla a che vedere col terrorismo, è ovvio, né nei mezzi né nella causa, che è sicuramente nobile. Ma le tecniche, per quanto pacifiche, seguono lo stesso copione: colpire in modo da bucare lo schermo e far parlare di sé. Il lancio di zuppe e altre cibarie contro i quadri di artisti famosi e i blocchi stradali di Last Generation sono oggi in primo piano. Dal punto di vista della sicurezza, i musei poco potranno fare oltre a proteggere con vetri infrangibili le opere d’arte; e lo stesso vale per la polizia stradale. Ma dal punto di vista degli attivisti, quali sono i risultati ottenuti? Di sicuro, non che i media si occupino di più delle gigantesche mancanze della politica nella risposta al cambiamento climatico. Il cittadino che assiste di persona alle azioni nei musei è inorridito, quello che è vittima dei blocchi stradali esasperato, e chi guarda in televisione ne condivide i sentimenti.

Il salto di qualità, si fa per dire, rispetto alla protesta di Greta Thunberg, che manifestava in silenzio davanti al Parlamento svedese, è notevole. Si è passati da una lotta che suscitava interrogativi in chi ne veniva a conoscenza, avvicinava una generazione alle questioni ambientali e smuoveva la coscienza sporca della politica, alla simulazione del vandalismo.

Il crescendo di azioni di guerriglia culturale e l’idea di fare pagare ai pendolari le colpe dell’umanità sta andando a detrimento della causa che si vuole promuovere. Manifestare davanti alle trivelle o sotto la sede di una compagnia petrolifera non ha la stessa eco mediatica dell’imbrattare un’opera di Van Gogh. Ma nel primo caso il gesto potrebbe generare condivisione e far riflettere, nel secondo finisce con il generare solo rifiuto. Quando si blocca una tangenziale all’ora di punta, le reazioni sono di indignazione e talvolta rasentano la violenza, perché si fa pagare un prezzo non al sistema bensì al singolo lavoratore, al pendolare che già quotidianamente sta in coda nel traffico.

Su questo dovrebbero riflettere i giovani aderenti ai movimenti che spettacolarizzano la battaglia per l’ambiente. Quando una modalità di lotta va a discapito di altre persone o colpisce i simboli di una cultura, quella lotta è perdente in partenza. E chi si batte sul campo contro i guasti del cambiamento climatico, contro il land grabbing, contro lo strapotere delle lobby energetiche non merita di finire nel pentolone della prossima zuppa che sarà lanciata contro un quadro.

Come da copione sovranista radicale, l’uscita dal palazzo presidenziale di Jair Bolsonaro è contrassegnata da disordini, caos e soprattutto dalla mancanza di rispetto verso i meccanismi della democrazia. Qualcosa di già visto dopo la sconfitta di Donald Trump e il tentativo di assalto al Campidoglio. Nella versione sudamericana non ci sono finti “indiani” ad assediare le sedi del potere ma abbiamo i camionisti a fermare il Paese: perché, quando uno dei campioni della nuova destra radicale perde, o c’è stato un imbroglio oppure è vittima di un complotto. È quello che gli stessi leader dicono già mesi prima delle elezioni, preparando l’eventuale sconfitta. Trump e Bolsonaro affermavano che le elezioni – nelle quali poi hanno effettivamente perso – sarebbero state inquinate dalla frode elettorale, anche se erano loro stessi ad avere il potere per impedire eventuali brogli, visto che entrambi erano al governo. Il punto è ovviamente un altro: nella cultura sovranista la sconfitta non è pensabile e la democrazia va bene soltanto quando si vince, mentre quando si perde diventa un optional. Ripropongono una versione aggiornata dei totalitarismi “vorrei ma non posso”: arrivano al potere grazie al voto popolare, quando le urne si rivelano sfavorevoli avvertono la forte tentazione di restare comunque al comando, ma alla fine quella tentazione non si concretizza perché fortunatamente i contrappesi della democrazia funzionano ancora e, soprattutto, perché i militari non seguono più questi fenomeni della politica, preferendo il basso profilo.

Trump e Bolsonaro in realtà non hanno inventato nulla, si sono limitati a rendere più profonda la spaccatura che si è andata creando nelle società occidentali negli ultimi anni. Spaccatura che si manifesta in molti modi diversi: tra città e campagna, tra ricchi e poveri, tra nativi e immigrati, tra perdenti e vincenti nel grande gioco della globalizzazione. Anziché lavorare per rimarginare queste ferite, hanno fatto il possibile per aumentare la divaricazione. Questo agire da incoscienti ha pagato in termini elettorali, almeno inizialmente, e ha trasformato l’agone politico un’arena da corrida, dove non contano le idee né i progetti bensì la capacità di insultare, di raccontare fake news, di demonizzare l’avversario. Il problema per loro è quando il nemico demonizzato riesce comunque a vincere, come successo sia negli USA sia in Brasile: a questo punto la narrazione va in tilt. Come spiegare che un popolo sia così ingrato da non continuare a votarli? Ecco che scatta la “certezza”, ovviamente mai provata, della truffa elettorale e del complotto. È l’unica spiegazione possibile, perfettamente credibile per i seguaci di politici che hanno detto che il Covid non esisteva, che i leader democratici statunitensi violentavano bambini negli scantinati di una pizzeria di Washington o che i comunisti brasiliani avrebbero eliminato la libertà di culto.

Il dramma di Bolsonaro e di Trump è stato il momento in cui la realtà ha presentato loro il conto. Perché la realtà non era quella costruita da loro, ossia quella parallela degli “alternative facts”, ma quella vera. Una realtà nella quale si può vincere e si può perdere, le istituzioni della democrazia si tutelano sia che si governi sia che si vada all’opposizione, e le persone si rispettano sempre. Sul piano collettivo, il dramma è che la cultura, o meglio i veleni, che politici come Bolsonaro e Trump hanno contribuito a diffondere toglie legittimazione all’agire di chi è chiamato a governare dopo di loro. Grazie alla democrazia, che pure ha dato loro l’opportunità di vincere, alla fine in un modo o nell’altro questi eredi di culture totalitarie torneranno a casa: per fortuna oggi non possono andare oltre l’insulto e il sospetto. La democrazia, almeno per ora, è più forte di loro. Ma le ferite che hanno provocato non guariranno presto.

Si chiude una brutta campagna elettorale per il secondo turno delle presidenziali brasiliane. Nel dibattito faccia a faccia tra Jair Bolsonaro e Lula, soltanto il 7% del tempo è stato impiegato dai candidati per illustrare i loro programmi. Il resto sono stati attacchi reciproci: con accuse di corruzione da parte di Bolsonaro nei confronti di Lula, e di negligenza criminale durante la pandemia da parte di Lula nei confronti di Bolsonaro. È questa la cifra di un’intera campagna che fotografa un Paese spaccato in due, non tanto sulle idee quanto sul riconoscimento stesso della legittimità dell’avversario. Bolsonaro pensa che Lula sia un delinquente, Lula pensa che Bolsonaro sia un criminale. E il Brasile si divide come tra tifoserie calcistiche: salta il dialogo istituzionale, si sentono rumori nelle caserme, vengono tirate per la giacchetta – o per la tonaca – le chiese evangeliche e quella cattolica.

Questo gioco al massacro è stato impostato e sviluppato con successo da Bolsonaro, rompendo definitivamente una tradizione di convivenza tra le forze politiche di opposto segno. Nel continente americano si tratta di un male comune: è accaduto lo stesso negli Stati Uniti con Donald Trump, in Argentina tra peronisti e antiperonisti, in Ecuador tra destra e sinistra. In Argentina si parla di grieta, cioè “spaccatura”, quando si vuol rendere l’idea di una divisione in fazioni contrapposte, senza più dialogo né reciproco riconoscimento. E la democrazia ne risente, perché lo sconfitto sicuramente denuncerà brogli elettorali, pur senza averne le prove, e i suoi elettori non riconosceranno mai come legittimo il vincitore uscito dalle urne.

In Brasile c’è tutto questo ma c’è anche molto di più, perché nel secondo turno delle presidenziali sono in gioco il modello di Paese e l’idea di società: la scelta è tra quella bianca e benestante, che pensa ai poveri come a un fastidio e un pericolo, e quella forgiata da una miscela di etnie, nella quale i poveri sono una speranza se sostenuti da uno Stato che riesce a far crescere l’economia e creare posti di lavoro. Lula e Bolsonaro, è evidente, non sono la stessa cosa, e non solo per la loro storia personale: hanno in testa due Paesi diversi. Uno piccolo e chiuso, che sfrutta le sue potenzialità agricole e tutela gli interessi dei grandi capitali; l’altro più grande e aperto al mondo, potenza regionale e protagonista sulla scena internazionale. Un Brasile che non è solo un gigante agricolo, ma anche una media potenza industrializzata. Domenica si scontreranno due modelli di Paese, eppure non saranno questi i temi in base ai quali una bella fetta di elettori prenderà la sua decisione. A fare la differenza sarà stata la maggior “bravura” di quello che ha dato del criminale all’altro o di quello che ha risposto dandogli del delinquente. Nel teatrino della moderna comunicazione i contenuti sfumano, ma questo non vuol dire che non ci siano. Anzi.