Posts contrassegnato dai tag ‘Ordine globale’

Nel V secolo dopo Cristo, dopo il passaggio dei Visigoti di Alarico nel cuore dell’Impero e il saccheggio di Roma, il potere imperiale cercò di riorganizzarsi negoziando e stringendo alleanze con i sovrani barbari. Nel frattempo, l’esercito che presidiava il limes con i popoli germanici si riempiva di soldati appartenenti a quelle stesse genti che premevano sul confine, intenzionate a entrare nell’impero e a vivere come i Romani.

Nel suo saggio I barbari, Alessandro Baricco spiega che l’Impero Celeste cinese aveva di fronte a sé due scelte per rispondere al pericolo rappresentato dai popoli delle steppe che premevano sulle frontiere occidentali: commerciare con loro e riconoscerli come interlocutori, ma a rischio di “contaminarsi”; oppure combatterli in campo aperto, fino a sconfiggerli. La Cina imperiale scelse invece una terza via: alzare una gigantesca muraglia che dividesse la civiltà dalla barbarie. Come è noto, la Grande Muraglia non riuscì a fermare l’avanzata dei Mongoli: già nel XIII secolo a Beijing si insediava il primo imperatore di quell’etnia, fondatore della dinastia Yuan.

Gli Stati Uniti, che nel corso dell’800 hanno quadruplicato il loro territorio, sono i diretti responsabili del malsviluppo di quello che considerano il loro “cortile di casa”: i Caraibi e l’America centrale. Proprio da queste regioni oggi proviene la maggior parte dei migranti che preme sulla frontiera meridionale degli USA. È paradossale che una potenza nata e cresciuta grazie al contributo della migrazione, anziché affrontare i problemi che da decenni causano la fuga di moltissimi cittadini da Haiti, Honduras, El Salvador e altri Stati vicini, nel 1993 abbia cominciato a costruire una gigantesca barriera fisica al confine con il Messico per bloccare i migranti: persone che Donald Trump ha dichiarato di considerare barbari a tutti gli effetti. Su questa linea, Washington ha trovato la collaborazione del governo messicano in cambio di aiuti economici.

L’Europa dei nostri tempi non qualifica ancora i migranti mediorientali e nordafricani come barbari, ma sta replicando una pagina di storia che credevamo lontana foraggiando dittatori più o meno conclamati affinché garantiscano il blocco delle partenze dei richiedenti asilo e dei migranti economici. Sette miliardi all’autocrate del Cairo al-Sisi, un miliardo a Kaïs Saïed, il presidente che sta spingendo la Tunisia fuori dalla democrazia, quasi un miliardo elargito negli ultimi anni dall’UE e dall’Italia ai governi fantoccio della Libia. E poi sei miliardi all’autocrate turco Erdoğan per ingabbiare i profughi riparati nel suo Paese, 200 milioni alla Mauritania per bloccare le partenze verso le Canarie, mezzo miliardo al Marocco per controllare le sue frontiere… Una montagna di soldi che finiscono con il sostenere regimi sotto accusa per gravi violazioni dei diritti umani e politici, e nel caso libico direttamente coinvolti nella gestione dei lager nei quali vengono rinchiusi migranti in transito.

Siamo di fronte a una versione mediterranea, “acquatica”, del muro statunitense e della Grande Muraglia cinese, con l’aggiunta del contributo che viene offerto ai sovrani barbari affinché proteggano il limes europeo da altri barbari. In tutti i casi questa politica è fallita, e già si può intuire che lo stesso accadrà con il muro americano e la fortezza mediterranea. Questo perché arroccarsi sulla difensiva anziché affrontare le cause dei problemi è da sempre una posizione perdente, e lo è anche oggi, che si tratti di migrazioni o di cambiamento climatico. Siamo di fronte a problemi ineludibili, che non basta la retorica a risolvere. Possiamo scrivere interi trattati sulla sostenibilità, ma il clima non cambierà se ci limitiamo alle parole e non passiamo ai fatti. Possiamo parlare dell’Europa come del faro della civiltà mondiale, rispettosa dei diritti delle persone, ma i fatti ci raccontano che questa è solo retorica, solo apparenza, perché nel frattempo si foraggiano autocrati che fanno il lavoro sporco per conto terzi. Alla fine, la retorica ambientale e la retorica umanitaria raccontano la stessa cosa: la politica globale che oggi va per la maggiore è nascondere la polvere sotto il tappeto, sperando che nessuno la veda.

Il 2019 che scivola via non sarà ricordato di certo per i traguardi raggiunti in materia di politica internazionale. Anche se il bilancio, come sempre, presenta chiaroscuri.

Con la fine della parte più drammatica del conflitto siriano si è riacceso lo scontro decennale tra turchi e curdi, e diverse forze jihadiste, che sulla carta sarebbero state tra gli sconfitti, sono invece finite sotto l’ala di Erdoğan nell’offensiva per il controllo delle frontiere. Il despota di Ankara è riuscito nell’impresa di riposizionarsi in Siria, per tornare a contare in Medio Oriente: ora le sue mire si estendono sulla Libia, a dimostrazione della volontà di fare diventare la Turchia un giocatore di peso nell’intera regione. Anche la Russia di Putin, dopo aver incassato il risultato nella vicenda siriana, ora sta intervenendo direttamente su diversi fronti africani con l’arma dei contractors, o meglio dei mercenari, seguendo l’esempio inaugurato dagli Stati Uniti con la guerra dell’Iraq.

Fuori da questo contesto, è scomparsa dai radar la questione nordcoreana. Dopo gli incontri tra Donald Trump e Kim Jong-un è come se l’armamento nucleare del Paese asiatico si fosse volatilizzato. Non è stato annunciato il disarmo, non è stato consentito l’accesso di ispettori ai siti nucleari nordcoreani, eppure la diplomazia USA canta vittoria. Questa vicenda conferma ancora una volta che, per i regimi ostili agli Stati Uniti, l’unica assicurazione sulla vita è l’arma nucleare. E proprio perché non la possiede, l’Iran sta pagando il prezzo salato di sanzioni economiche che hanno creato un diffuso malessere tra la popolazione. Si tratta della stessa arma economica utilizzata contro Cuba, rimpiombata nei tempi bui del “periodo speciale”.

Le linee di frattura esistenti si sono ulteriormente aggravate. Fratture sociali, come quelle che hanno alimentato le rivolte in Ecuador, Cile e Libano; fratture politiche, che hanno destabilizzato la Bolivia e Hong Kong, fratture del sistema multilaterale di relazioni, con il fallimento della conferenza Cop25 sul cambiamento climatico e l’agonia dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, meglio nota come WTO. Il mondo che, secondo la retorica della globalizzazione, marciava sempre più compatto verso un futuro di crescita, prosperità e superamento dei confini, a fine 2019 si ritrova invece con rigurgiti nazionalisti e razzisti pressoché ovunque, con l’aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, con oltre 6.000 chilometri di muri vecchi e nuovi, che tentano inutilmente di arginare le conseguenze del grande disordine. Sono, queste, tutte conseguenze del mancato raggiungimento di un nuovo ordine dopo la fine di quello bipolare della Guerra Fredda. Davanti al fallimento del tentativo degli Stati Uniti di reggere da soli l’equilibrio internazionale, le medie e grandi potenze scalpitano per occupare, influenzare, determinare gli equilibri di singole parti del mondo, nel tentativo di consolidare i propri cortili di casa.

L’unica altra grande potenza globale oltre gli USA, la Cina, basa la sua forza sul commercio e quando interviene su altri fronti, come in Africa, lo fa sempre per tutelare i rifornimenti di materie prime del suo apparato produttivo. Tutte le altre potenze, dalla Russia alla Turchia passando per l’India, possono solo permettersi di consolidare i loro hinterland, operando al massimo interventi “spot” fuori contesto geografico, come fa Putin in Venezuela o a Cuba. Nulla di solido, nulla di duraturo.

Il 2020 sarà anno di elezioni negli Stati Uniti e il risultato potrebbe confermare o modificare questo quadro. Ormai, nel campo occidentale, resta solo Washington. Dopo la Brexit, l’Unione Europea conta ancora meno, e soprattutto non riesce a superare la sua crisi di identità. Come si diceva una volta del Giappone, l’UE è sempre più un gigante economico e un nano politico. Questo vuoto di politica, che nessuno per ora è in grado di colmare, resta il grande punto interrogativo sul futuro prossimo. Se l’Europa si dovesse svegliare, questo racconto andrà riscritto. Se invece continuerà a dormire, avremo ancora sogni agitati.