Tre sfumature di populismo

Pubblicato: 20 ottobre 2023 in America Latina
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Nelle elezioni presidenziali argentine del 2023 saranno tre candidati a contendersi la massima carica politica. Soltanto due passeranno al secondo turno, che viene dato quasi per certo. Il paradosso, in un Paese che di paradossi è particolarmente ricco, è che i tre candidati sono tutti ascrivibili al campo del populismo, sia pur con sfumature e intensità diverse. Sergio Massa è il candidato peronista, sostenuto cioè dal partito fondato da Juan Domingo Perón a metà del Novecento, considerato un caposaldo del populismo a livello internazionale. Massa però non arriva dal peronismo bensì dalla destra liberale, ed è attualmente il ministro dell’Economia di uno Stato che veleggia attorno al 130% di inflazione annua e con il 44% della popolazione in condizioni di povertà. In nessun Paese al mondo un ministro corresponsabile di questa situazione potrebbe pensare di candidarsi, ma in Argentina la logica spesso viene sovvertita. Le ricette del populismo peronista-massiano prevedono un welfare clientelare di sopravvivenza, che non viene erogato dallo Stato ma da intermediari ormai diventati soggetti politici informali, finanziato stampando moneta come se non ci fosse un domani. L’inflazione ormai cronica, infatti, non è dovuta a un surriscaldamento dell’economia ma all’incessante produzione di denaro. Del resto, il cambio con il dollaro USA è controllato dallo Stato, che dichiara ufficialmente un tasso fasullo, pari alla metà di quello praticato nella realtà dal fiorente mercato del cambio illegale. Il populismo erogatore di pesos svalutati, “mangiati” dall’inflazione nel giro di un mese, è la cifra degli ultimi anni di governo del presidente Alberto Ángel Fernández, così impopolare che nemmeno si ricandida.

L’altro fronte politico, quello dell’alleanza tra liberali e radicali che nel 2015 portò al potere Maurizio Macri, candida Patricia Bullrich, rampolla di una delle famiglie più importanti del Paese e vicina, da giovane, al gruppo armato dei Montoneros. Lei sì proviene dal peronismo, ma lo ha abbandonato da almeno 15 anni. È stata ministra della Sicurezza di Macri e il suo populismo non passa dall’economia bensì dalla promessa di una svolta securitaria. L’Argentina ha da tempo un serio problema di sicurezza, dovuto da un lato alle conseguenze di una povertà crescente e, dall’altro, al radicamento del narcotraffico nei quartieri più poveri. La ricetta proposta da Patricia Bullrich per combattere questa situazione non accenna minimamente agli aspetti sociali, al ruolo della scuola e alla prevenzione, ma ripete il modello che Nayib Bukele sta portando avanti nel Salvador. Costruire cioè un gigantesco carcere “smart” nel quale rinchiudere e isolare i detenuti. Una prigione moderna, dove non si prenda Internet e lavori personale ben pagato e incentivato. Il modello del Salvador è nel mirino degli organismi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani, ma ha reso molto popolare il suo presidente. Il populismo della Bullrich si caratterizza quindi per la promessa di stroncare la delinquenza soltanto attraverso la repressione e il carcere, lasciando nell’ombra la proposta economica e sociale.

E poi c’è lui, il candidato a sorpresa che rischia di diventare presidente: l’economista Javier Milei, una versione estrema di Trump e Bolsonaro. Ripropone, radicalizzandole, le ricette elaborate dall’economista Domingo Cavallo e applicate da Carlos Menem negli anni ’90 del secolo scorso, che cambiarono per sempre (e non in meglio) lo Stato argentino. Milei ha promesso di chiudere la Banca Centrale, eliminare il peso adottando il dollaro, licenziare migliaia di dipendenti pubblici che sono stati nominati dalla “casta”, chiudere i ministeri “inutili” quali l’Ambiente o il Welfare, rompere le relazioni diplomatiche con qualsiasi Paese comunista, Cina inclusa, e cambiare la linea internazionale dell’Argentina schierandola sempre e solo con gli Stati Uniti. Il populismo di Milei è quello della “sparata”: promette ciò che sa benissimo che non potrà fare, soprattutto perché, anche vincendo, non avrebbe la maggioranza parlamentare. Ma crea aspettative, si scaglia contro i politici, anche se lui stesso lo è, e convince persone che non hanno gli strumenti per giudicare ciò che dice. Dopotutto, nasce come personaggio televisivo: ha una capacità di usare i media superiore a quella di tutti gli altri candidati.

Alle primarie obbligatorie del mese di agosto, i tre candidati si sono divisi l’elettorato in fette quasi uguali. Un terzo di voti a testa per ciascuna sfumatura di populismo. Forse, ancora una volta, l’Argentina anticipa i tempi rispetto al futuro che ci aspetta. Abbiamo già conosciuto gli Orbán, i Bolsonaro, i Trump, ma in contesti dove c’erano forze responsabili in grado di contrastarli. In Argentina non è così. L’intera offerta politica ha il marchio di fabbrica del populismo, che non è sinonimo di una politica “popolare”, non lavora per elevare la condizione economica e culturale della gente, ma usa il popolo per raggiungere i propri obiettivi, assecondando e amplificando gli umori della strada. In Argentina vincerà chi sarà in grado di lisciare il pelo degli elettori con le promesse, vere o false, che faranno più rumore, che sembrino più rivoluzionarie e facciano sognare, almeno per quei pochi giorni che passano tra l’insediamento di un presidente populista e la smentita delle promesse fatte in campagna elettorale.

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