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Una delle lezioni che la Cina ha imparato dalla pandemia è che la sua centenaria politica di isolazionismo politico non paga più. Che gli spazi d’azione per una potenza globale che, in realtà, è tale solo dal punto di vista commerciale, si fanno molto stretti, quando gli Stati tornano prepotentemente sulla scena. La leadership cinese, dopo la conferma al potere di Xi Jinping per il terzo mandato, si sente legittimata a svolgere un ruolo politico andando a coprire il ruolo, rimasto vacante dopo la fine dell’Unione Sovietica, di contrappeso agli Stati Uniti. Lo stesso Joe Biden, all’ultimo G20, ha riconosciuto al Paese asiatico lo status di superpotenza, auspicando che Stati Uniti e Cina insieme possano garantire la normalizzazione del commercio mondiale in un contesto internazionale stabile. Pechino pare abbia ascoltato. A metà marzo, nel discorso di presentazione delle tre iniziative cinesi sullo sviluppo, la sicurezza e la civiltà globale, Xi Jinping ha ripreso un classico cavallo di battaglia cinese affermando che la Repubblica popolare non ha mire coloniali, come quelle che hanno avuto altri Paesi, in chiaro riferimento alla storia delle potenze occidentali. Soprattutto, ha sottolineato che i cinesi non vogliono imporre i propri valori o modelli ad altri.

La Cina, quindi, si propone come una potenza globale alternativa agli Stati Uniti, che non intende esportare il proprio modello politico-sociale e che rispetta valori e culture altrui. Ed è una visione, per quanto opinabile, veramente innovativa. Dall’antica Roma in poi, tutte le potenze che hanno avuto una posizione predominante hanno imposto modelli e valori, spesso anche lingua e religione. Quando la Cina dice di essere diversa si rivolge soprattutto ai paesi del Sud del mondo che ancora portano le cicatrici del colonialismo sulla loro pelle. Ma è anche un discorso rassicurante per l’Occidente, che chiarisce che la Cina non intende imporre il proprio sistema ad altri, ma solo fare buoni affari in un clima globale disteso.

La prima “prova sul campo” di questa nuova sfida della Cina, una prova riuscita, è stata l’assunzione del ruolo di mediatrice tra l’Arabia Saudita e l’Iran rispetto al conflitto nello Yemen, che è diventato il martoriato terreno di scontro tra la potenza sunnita, alleata di ferro degli Stati Uniti, e quella sciita, allineata con la Russia sullo scacchiere mediorientale.

Ora la posta in gioco più importante è convincere l’Ucraina, e soprattutto gli Stati Uniti, che la propria proposta di cessate il fuoco per fermare la macchina bellica in Ucraina sia da prendere in considerazione. Con grande abilità, nei dodici punti stilati, Pechino enumera una serie di principi condivisibili da tutti, ad esempio quello del rispetto dell’integrità territoriale, dell’indipendenza e della sovranità degli Stati secondo i criteri dell’ONU. Ma lo fa senza chiedere il ritiro delle truppe di occupazione russe, condizione che l’Ucraina ritiene imprescindibile per iniziare un negoziato e che il Cremlino non accetterà mai. Intanto si consolidano i rapporti commerciali Russia-Cina, con Mosca in netto svantaggio, perché ha perso i clienti occidentali e la sua economia ha un disperato bisogno della ciambella di salvataggio cinese.

Xi Jinping si presenta al mondo come l’unico interlocutore al quale Vladimir Putin dà ascolto, e questo sancisce il fatto che non ci sarà pace in Ucraina senza la presenza della Cina al tavolo dei negoziati. Ma il risultato che Xi Jinping cerca di conseguire si spinge oltre il conflitto, ed è dimostrare che il vero pericolo per il mondo non è la Cina, bensì lo schieramento degli alleati occidentali, impegnati solo a mandare armi a Kiev, mentre Pechino cerca la pace. Una potenza “colomba”, insomma, con antagonisti “falchi”. Il discorso è retorico e discutibile, ma sicuramente guadagnerà molti consensi nei mondi lontani da Washington e da Bruxelles, che ora trovano una potenza globale che parla un linguaggio comprensibile e che gioca la carta del “siamo uguali a voi”.   

Per la prima volta un premio Nobel per la Pace è dovuto comparire davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. Il triste primato è toccato ad Aung San Suu Kyi, simbolo della lotta per la democrazia in Myanmar, a lungo vittima della dittatura militare e poi leader del movimento tuttora al potere nel Paese asiatico. È stato il Gambia, a nome di 57 Stati del mondo musulmano, a presentare l’accusa contro il governo del Myanmar per quello che da molti è stato qualificato come genocidio: la brutale azione di repressione nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya e la sua espulsione dal Paese. Nella denuncia si parla di crimini e stupri di massa ai danni di una popolazione inerme, costretta a fuggire nel vicino Bangladesh. Una vicenda insieme complessa e drammatica, che ha fatto tornare tristemente attuale il concetto di “pulizia etnica”.

Anche se in Myanmar, dove l’azione contro i Rohingya ha goduto di un diffuso sostegno, si sostiene che alla base di ciò che è accaduto non ci siano motivazioni religiose, la persecuzione di questa etnia non rappresenta un caso isolato. In Cina si sta compiendo una delle più grandi violazioni contemporanee dei diritti dei popoli, la “rieducazione” forzata di oltre un milione di musulmani nello Stato nord-occidentale dello Xinjiang. Basta una barba sospetta o l’uso del velo islamico per finire in campi di concentramento e subire un processo di de-islamizzazione forzata che mira a cancellare cultura e lingua. Del caso cinese si parla ancor meno che di quello birmano: da una parte perché anche le vittime di Pechino sono di fede musulmana, dall’altra perché nessuno vuole compromettere i rapporti commerciali con il gigante asiatico. Restando nello stesso continente, anche in Sri Lanka si registrano costanti minacce e atti violenti contro la minoranza musulmana.

Il circo mediatico occidentale, così ligio nel denunciare le persecuzioni ai danni dei cristiani, ignora o sottovaluta la gravità di quanto sta accadendo a diverse minoranze islamiche in Asia. Questo perché si tratta di notizie che incrinano le certezze post 2001, e cioè l’equazione secondo la quale l’Islam, generalmente inteso, preparerebbe le azioni dei terroristi jihadisti “armandoli” ideologicamente. L’identificazione tra Islam e terrorismo ha gettato pesanti sospetti su 1,9 miliardi persone (cioè più del 24% della popolazione mondiale), che secondo questa visione distorta sarebbero potenzialmente pronte a colpire l’Occidente cristiano. Si ignora non solo che il terrorismo jihadista colpisce principalmente civili di religione musulmana, ma anche che nel mondo esistono minoranze musulmane perseguitate quanto e talvolta più di quelle che professano altre religioni. Questa dimenticanza fa il paio con quella della stampa filo-jihadista, che parla solo delle violenze commesse dai “crociati” occidentali: in entrambi i casi, è molto utile nel processo di creazione del nemico esterno.

Storicamente, la creazione della figura del nemico esterno è sempre servita a sollevare cortine fumogene così da evitare di parlare dei propri problemi interni. I sospetti, le “verità indiscutibili”, la sindrome da accerchiamento fanno digerire più facilmente ai cittadini misure che restringono le libertà fondamentali. Mai siamo stati controllati e schedati come oggi, complici anche le moderne tecnologie, eppure non si leva nessuna protesta, perché nella lotta al terrorismo ogni mezzo è giustificato. La parola terrorismo è diventata un passe-partout che consente di bypassare il rispetto dei diritti umani e di introdurre limitazioni sia alla libertà personale sia al diritto alla difesa degli imputati. Con le extraordinary renditions a Guantanamo, ma anche nei lager rieducativi cinesi o nei campi di detenzione in Siberia, il terrorismo di qualsiasi segno, vero o di fatto inesistente, ha fatto fare enormi passi indietro alla civiltà del diritto. Per questo si preferisce ignorare la politica cinese nei confronti dei musulmani, oppure la pulizia etnica birmana. È meglio non impicciarsi nei problemi degli altri per non attirare l’attenzione sulle proprie responsabilità.

 

L’orso in Africa

Pubblicato: 8 novembre 2019 in Mondo
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Da anni ormai si scrive e si discute sulla presenza cinese in Africa. Un continente nel quale Pechino ha individuato non soltanto un produttore di materie prime strategiche, ma anche un mercato quasi vergine. Ed è proprio questa l’importante novità: oltre a estrarre e importare minerali, petrolio e prodotti agricoli, la Cina ha effettuato grossi investimenti acquistando terre e, soprattutto, impiantando apparati industriali di discreto livello. Ciò, in molti Paesi, ha consentito di avviare per la prima volta una trasformazione in loco delle materie prime grezze.

Meno attenzione si presta invece alla presenza africana di altri grandi Paesi, come India, Brasile e soprattutto Russia. È stata proprio Mosca, recentemente, a lanciare un’offensiva diplomatica attraverso la quale punta a recuperare un ruolo importante in Africa, come ai tempi dell’Unione Sovietica. La Russia ha da offrire soprattutto cooperazione militare, cioè armi e addestramento. Merce sempre richiesta e che Mosca si impegna a fornire, dopo aver siglato 20 accordi di cooperazione militare negli ultimi quattro anni. Oggi la Russia di Putin è il primo fornitore di armi in Africa con il 35% del mercato, contro il 17% della Cina e il 10% degli Stati Uniti. Ancora, le agenzie russe di mercenari sono attivissime nel sostenere il generale Khalīfa Haftar in Libia, in cambio di petrolio, e anche il governo della Repubblica Centrafricana. Proprio in questo Paese potrebbe essere costruita la prima base militare russa in Africa.

Ma l’interesse russo non si esaurisce qui. Il Cremlino ha messo a punto un pacchetto che propone di fornire tecnologia e know how per sfruttare meglio i minerali, ovviamente in cambio di concessioni minerarie e commesse per la costruzione di ferrovie, strade e centrali nucleari, una delle specializzazioni dei russi. Che sono già impegnati nella costruzione della prima centrale nucleare egiziana, mentre sono molto avanzate le trattative per dotare anche l’Etiopia di questa tecnologia.

Lo scambio economico tra l’Africa e Mosca resta comunque molto modesto: 20 miliardi di dollari di scambi commerciali all’anno contro i 200 della Cina e i 300 dell’Unione Europea, ma l’intenzione è raddoppiarlo in due anni. Nel recente forum Russia-Africa, tenutosi a Sochi sulle rive del Mar Nero, sono stati firmati contratti e intese per un controvalore di 11 miliardi di dollari, accompagnati dall’annuncio della cancellazione dei debiti, a dire la verità inesigibili, accumulati dai Paesi africani nei confronti dell’Unione Sovietica. La diplomazia commerciale russa si pone dunque esplicitamente in continuità con quella sovietica. Da un lato, Mosca si concentra su quegli Stati che un tempo erano “amici” dell’Urss, come Angola, Mozambico, Etiopia o Libia; dall’altro lancia un messaggio ai leader africani, in buona parte illegittimi o sospettati di gravi violazioni dei diritti umani, lasciando intendere che non solleverà mai problemi legati a questi temi. Con Mosca non si rischia l’embargo né altre sanzioni. Anzi, arriveranno armi a qualsiasi condizione, ed eventualmente anche mercenari.

In questo senso l’amicizia con la Russia appare molto più interessante, almeno in certi contesti, rispetto a quella con la Cina che, per via degli stretti rapporti con gli Stati Uniti, almeno formalmente deve “stare attenta” al comportamento che tiene in Africa. Putin gioca invece a tutto campo, approfittando della disarticolazione del mondo di oggi, rinverdendo la geopolitica dell’Unione Sovietica, riconvertita però a pura politica di potenza. Il risultato è che, in Africa, Russia e Cina sono complementari. Una fa ciò che l’altra non è in condizioni di fare: la Cina degli investimenti miliardari e la Russia delle mani libere, per rifornire tutti di armi. È un’accoppiata che in altri scenari si fa più fatica a vedere, ma che nel fragile contesto africano si fa sentire, eccome.

 

Quest’estate si è confermato il dato divenuto ormai consueto verso la fine di agosto: anche nel 2018 la temperatura media registrata nel mondo è salita, facendo segnare un nuovo record. E tra luglio e settembre si è drammaticamente manifestata l’intera gamma di fenomeni associata al cambiamento climatico: incendi, siccità, nubifragi, uragani, afa record. Il campanello d’allarme sulle condizioni di salute della Terra sta suonando da anni, ma rimane inascoltato. L’ultimo grande tentativo di porre rimedio al cambiamento climatico, o almeno di rallentarlo, è stato l’accordo raggiunto a Parigi nel 2015, ma è bastato l’arrivo di un nuovo inquilino alla Casa Bianca perché buona parte delle linee guida e degli impegni scaturiti da quella conferenza fossero dimenticati.

C’è chi continua a inquinare molto, come i Paesi dell’Asia industrializzata o gli Stati Uniti, e chi ha fatto passi in avanti, come l’Unione Europea o la piccola Costa Rica, ma i “virtuosi” non pesano a sufficienza per bilanciare il tutto. Soprattutto perché è tornata protagonista una fonte energetica fossile che si pensava sarebbe stata totalmente eliminata dal ciclo produttivo: il carbone, responsabile per l’80% delle emissioni di CO2 del settore energetico. L’illusione dell’abbandono del carbone era stata alimentata dalla Cina, che da sola è responsabile del 50% del consumo globale e che fino al 2016 aveva ridotto il ricorso a questa fonte. Ma dal 2017 l’estrazione carbonifera a livello globale è tornata a crescere soprattutto per l’aumentata domanda dell’India, secondo Paese al mondo per consumo. Nel frattempo anche negli Stati Uniti l’industria del carbone, da tempo in declino, ha registrato un aumento di produttività e di export, così come promesso in campagna elettorale da Donald Trump. E anche la Germania non ha abbandonato definitivamente la lignite.

L’ennesima illusione che oggi ci viene proposta come soluzione all’inquinamento sono le automobili elettriche. Ma proprio l’aumento della domanda di elettricità ha paradossalmente fatto tornare protagonisti il carbone e la lignite: macchine pulite, elettricità sporca potrebbe essere lo slogan. Allo stesso modo l’industria “smart”, che si sgancia sempre di più dall’impiego diretto dei combustibili fossili, è dipendente dall’elettricità generata ancora in alta percentuale da energia fossile.

Il cambiamento climatico sta mutando le condizioni di vita, le abitudini e l’economia di molti territori. Così come nel Galles si stanno impiantando vigneti e in Groenlandia si torna a coltivare la terra, in Australia e in California la siccità e gli incendi stanno riducendo la capacità produttiva di un’agricoltura ormai a rischio. I profughi climatici non esistono più solo nelle previsioni e nei report, spesso giudicati “provocatori”, degli esperti dell’ONU: sono diventati una realtà drammatica, in Africa come in molte regioni in rapida desertificazione di Paesi ad alto reddito. Da un sondaggio condotto nel 2017 in 38 Paesi è emerso che il cambiamento climatico è considerato dal 61% del campione la seconda minaccia alla sicurezza del mondo dopo l’ISIS. Una minaccia molto selettiva dal punto di vista sociale, perché le sue conseguenze si abbattono soprattutto sui mondi rurali dove gli agricoltori non sono sostenuti dallo Stato, mentre nelle città il caldo uccide senzatetto, anziani e malati poveri, cioè quelle categorie che non possono permettersi abitazioni climatizzate e muoiono a decine, se non a centinaia, ormai ogni estate in Europa.

Del cambiamento climatico si discute ormai da decenni. Per molto tempo è rimasto un tema per ambientalisti e per scienziati, mentre la politica si limitava a fingere di ascoltare. Oggi le sue conseguenze bucano il muro del silenzio che sopra questa vicenda è stato costruito. Il cambiamento climatico non è più esercizio teorico, ma drammatica realtà percepita da qualsiasi cittadino. Eppure la politica continua a prendere tempo, incurante del fatto che il tempo è ormai quasi scaduto, prima che si giunga a scenari poco rassicuranti per tutti.

 

Tra le vittime della grande crisi economica iniziata nel 2008 c’è sicuramente il multilateralismo. Almeno, il multilateralismo inteso come l’armonizzazione regionale dei mercati delle merci, dei servizi e dei capitali in preparazione di un unico mercato mondiale, secondo l’orizzonte prospettato dal WTO: una realtà che già esiste nell’Unione Europea, nel Nafta e nel Mercosur, dove le merci girano senza dazi né barriere, anche se, nel caso del Nafta, lo stesso non vale per le persone. La presidenza Obama si era congedata con la fine dei negoziati per un grande accordo regionale (cioè il TPP, l’area di libero scambio di 12 Stati dell’area del Pacifico), e con il TTIP con l’Unione Europea in discussione. La presidenza di Donald Trump ha ribaltato il tavolo cambiando radicalmente strategia, passando dalla costruzione di aree di libero scambio che escludessero la Cina all’isolazionismo e alle ritorsioni per equilibrare la bilancia degli scambi laddove questa pende a sfavore di Washington.

Per questo le comunità multilaterali non interessano a Trump, perché portano benefici a tutte le parti in gioco e non modificano, se non di poco, il saldo finale. Il TPP ha subito un duro colpo da quando gli USA si sono ritirati, ma gli altri Stati del “club” hanno deciso di continuare lo stesso da soli. Trattandosi di un’area di Paesi del Pacifico, è scontato che la Cina proverà a subentrare alla potenza americana. Il TTIP pareva morto e sepolto, ma a sorpresa il segretario statunitense al Commercio Wilbur Ross ha comunicato alla commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, di essere pronto a chiedere al suo Parlamento un mandato negoziale per riaprire le trattative. È più una minaccia che una prospettiva di cooperazione: per Trump la ripresa del negoziato TTIP significherebbe tornare a insistere su quei punti che hanno precedentemente stoppato il dialogo, per esempio le questioni dell’agroalimentare e della giustizia, per poi ritenersi libero di applicare dazi e penalità all’Europa rea di non voler accettare la sua “generosa offerta”.

Dunque il negoziato, come affermava il Comitato No TTIP, non era davvero su un binario morto, e oggi potrebbe preludere a una vera e propria guerra commerciale. I contenuti critici del TTIP non riguardano più solo il principio di precauzione sull’alimentare, gli OGM o i tribunali privati. Ora quel trattato potrebbe diventare una clava da usare contro l’Unione Europea perché si adegui ai bisogni dell’inquilino della Casa Bianca. Trump deve disperatamente portare a casa risultati prima delle elezioni di midterm (cioè di metà mandato) che daranno un segnale forte per capire se la sua avventura si concluderà tra due anni oppure tra sei.

Se il trumpismo non sarà un fenomeno destinato a scomparire a breve, l’Europa dovrà rivedere le sue priorità da subito e immaginare un suo posizionamento nel mondo a prescindere da Washington. Il Mercosur sudamericano aspetta da 15 anni la firma di un accordo di libero scambio e in Africa, proprio la settimana scorsa, è nata l’African Continental Trade Area, formata da 44 Stati che elimineranno il 90% di dazi e tasse sulle merci africane e apriranno alla libera circolazione delle persone. Il futuro del multilateralismo, ai tempi dello sbando statunitense, passa sempre di più dai Paesi che fino a poco tempo fa erano ermeticamente chiusi: in questo mondo alla rovescia, almeno questa è una buona notizia. Starà all’Europa dimostrare di essere in grado di costruire con questi Paesi rapporti equilibrati e reciprocamente vantaggiosi. C’è spazio per un nuovo multilateralismo che convenga a tutti, soprattutto a quelle aree come l’Africa finora escluse dalla globalizzazione.

Alfredo Somoza per #Esteri @RadioPopolare

 

Dopo tante polemiche sulle prime misure in materia di politica estera adottate da Donald Trump, finalmente si comincia a vederne il senso, e soprattutto a capire a chi si ispira il presidente degli Stati Uniti. Ricostruendo velocemente i suoi primi passi, si parte dallo smantellamento del TPP, l’accordo economico del Pacifico che escludeva la Cina, fortemente voluto da Barack Obama, e dal congelamento del suo equivalente atlantico, il TTIP con l’Europa. Poi sono iniziate le minacce ai due Paesi nei confronti dei quali gli Stati Uniti, anno dopo anno, accumulano colossali disavanzi negli scambi commerciali: 350 miliardi di dollari con la Cina e altri 60 miliardi con il Messico. Poi la minaccia all’Europa di applicare ritorsioni sull’import se non verrà chiusa la vertenza sul blocco delle carni americane nell’Unione Europea.

Dalle intimidazioni verbali Trump è passato anche alle vie di fatto, per ribadire la potenza militare del suo Paese. Il bombardamento a colpi di missili Tomahawk di un aeroporto siriano (preventivamente svuotato di mezzi militari dai russi, che erano stati preavvertiti), il lancio in Afghanistan della bomba convenzionale più potente mai esistita, il viaggio della potente “Armada” verso la Corea. Nel complesso, il messaggio è stato chiarissimo. Prima alla Russia, all’Iran e alla Turchia, “invitate” a non provare nemmeno a spartirsi ciò che resta della Siria senza Washington al tavolo. Poi alla Cina, alla quale gli Stati Uniti hanno dimostrato che potrebbero cancellare dalla faccia della terra la Corea del Nord, storico alleato di Pechino, anche senza usare il nucleare.

I messaggi sono stati velocemente recepiti, con la Russia che ha abbassato il suo profilo sullo scenario mediorientale, accontentandosi di controllare i territori nei quali si trovano le sue basi militari siriane. E con la Cina che ha accettato una gigantesca concessione commerciale. Con l’accordo firmato tra USA e Cina la settimana scorsa, infatti, il mercato cinese si riapre alle carni statunitensi, bloccate dal 2003 per via della “mucca pazza”; inoltre la Cina apre anche alle sementi OGM prodotte dalle multinazionali USA, alle importazioni di shale gas e alle carte di credito Visa e Mastercard, che finora non potevano operare sul grande mercato asiatico. Di contro, gli statunitensi troveranno più carne di pollo nel piatto.

Come si può facilmente intuire, in questo accordo la parte del leone la fa Trump, che strappa una consistente riduzione del deficit commerciale negli scambi con la Cina. Ma Pechino cosa avrà in cambio, oltre a vendere petti di pollo? Molto, forse più di quanto ci si aspettava fino a poco tempo fa. Ma per rendersene conto occorre ampliare la prospettiva, facendo un passo indietro.

Con quest’ultima mossa Donald Trump ha inferto un’altra picconata a quel sistema di relazioni multilaterali che, in materia commerciale, è fatto da accordi bi e multilaterali e da convenzioni internazionali che fanno capo al WTO. La logica di Trump è quella di ignorare quei livelli e di costruire un sistema di accordi “one to one”, cioè bilaterali puri, nei quali far valere volta per volta la potenza statunitense, magari “agevolando” tali accordi con azioni militari dimostrative.

Le prime mosse di Trump preannunciano il ritorno degli USA all’esercizio di un ruolo di potenza “attiva”. E qui il riferimento storico è inevitabile, perché Donald Trump riprende una delle dottrine geopolitiche più antiche del suo Paese, quella enunciata dal presidente Theodore Roosevelt all’alba del ’900 e che fu battezzata Big Stick Policy, la politica del bastone. Non era esattamente la politica delle cannoniere di britannica memoria, cioè l’imposizione del proprio interesse attraverso le armi, ma una versione più diplomatica dello stesso approccio: il presidente Roosevelt sintetizzava il tutto con la frase «parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano». Il grande bastone oggi è il potere militare – senza paragoni nella storia dell’umanità – detenuto dagli Stati Uniti. Circa il parlare gentilmente, di più non ci è dato sapere.

La Cina ha compreso subito come funziona. Ha incassato il riconoscimento come principale partner asiatico di Washington e ha capito che, smantellando il TPP, gli Stati Uniti finiranno con l’agevolare indirettamente la crescita dell’influenza cinese nel Pacifico. Inoltre il picconamento americano del WTO, organismo che da sempre tiene d’occhio la Cina, potrebbe portare a un “liberi tutti” le cui conseguenze non è ancora possibile valutare, ma che sicuramente farà comodo agli interessi di Pechino.

Ecco, il mondo di Donald Trump è un mondo di relazioni bilaterali dove conta la forza militare, ma nel quale il tuo nemico può anche essere il tuo alleato: in cambio di un vantaggio economico si è disposti a “regalare” all’avversario un vantaggio geopolitico. O viceversa. Si tratta di una politica estera più che mai schiacciata sugli interessi economici della principale potenza, ma anche di una politica estera che lascia tantissimo campo libero all’iniziativa degli altri.

In politica internazionale si pone sempre una questione, che ovviamente vale anche per la politica interna: quella della serietà, del rispetto di quanto si sottoscrive insieme agli altri. Ma c’è anche un’altra questione vitale per ogni Stato – o insieme di Stati – che è quella dell’interesse nazionale. Negli USA, ancora una volta, quest’ultimo diventa il faro della politica estera. Magari, forse, un minimo di orgoglio nazionale “europeo” non guasterebbe neppure sulla nostra sponda dell’Atlantico.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

 

Da sola la demografia non spiega tutto, ma alcune cose sì. Per esempio, che Cina e India, due Paesi che insieme rappresentano oltre un terzo dell’umanità, dovessero prima o poi diventare protagonisti dell’economia globale era fuori discussione. Il punto sul quale è lecito dibattere è perché ciò sia accaduto così in ritardo. E qui le letture possono essere diverse: le interpretazioni storiche rimarcano le colpe del colonialismo, soprattutto quello britannico in India; quelle sociologiche possono appellarsi all’arcaismo della società cinese, millenariamente chiusa su se stessa, il cui isolamento continuò anche dopo l’avvento del comunismo, fino agli anni ’80 e alle prime riforme in senso aperturista.

Dal punto di vista economico, tutti concordano nel dire che la svolta è avvenuta con l’espansione del mercato interno, oltre che con la conquista del primato industriale a livello mondiale da parte della Cina.

Dopo Pechino, anche per New Delhi è arrivata l’ora della trasformazione. Da Paese povero e rurale, l’India sta diventando una grande protagonista dell’economia mondiale: e sarà proprio l’ex madrepatria britannica uno dei primi Stati a fare i conti con questa potenza emergente che, secondo un rapporto appena pubblicato dal FMI, entro il 2022 dovrebbe scavalcare come potenza economica prima il Regno Unito e poi la Germania, andando a posizionarsi al 4° posto dopo Stati Uniti, Cina e Giappone. Certamente, per raggiungere questo obiettivo, nei prossimi 5 anni l’India dovrà crescere a un tasso superiore a quello atteso per il 2017 (7,5%), attestandosi attorno al 10% annuo: ma per gli esperti del Fondo Monetario si tratta di un’impresa possibile.

A spingere il Paese sono i grandi investimenti del premier Narendra Modi nel progetto Make in India, che punta a far diventare anche l’India una “fabbrica del mondo” − in risposta alla Cina − aumentando il PIL del settore manifatturiero dal 17% attuale al 25%. Un obiettivo che può concretizzarsi solo grazie agli investimenti stranieri, che in effetti stanno arrivando senza sosta: nel solo 2015-16 sono stati pari a 55 miliardi di dollari USA. I fattori che potrebbero invece rallentare i piani di crescita indiana sono l’inadeguatezza delle infrastrutture, in parte ancora risalenti all’epoca coloniale, un sistema bancario da risanare, che attualmente fatica a elargire credito a chi vuole produrre, e un sistema fiscale che fa acqua da tutte le parti. A questo proposito, non sarà un’impresa facile l’armonizzazione fiscale tra i diversi Stati della confederazione, che finora hanno goduto di libertà per farsi reciproca concorrenza. Nei prossimi mesi sarà introdotta l’IVA nazionale, che creerà finalmente un mercato unico tra i 29 Stati.

L’impresa più impegnativa però è quella di generare impiego per i 10 milioni di indiani che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro, in un Paese che tocca il miliardo e trecento milioni di abitanti e nel quale il 50% della popolazione ha meno di 25 anni.

Grandi lavori sono in corso, insomma, per permettere all’India di occupare quel posto che la storia e la demografia parrebbero garantirle per diritto. Ma non sempre le cose vanno in questa direzione. Nel gruppo dei Paesi Brics, per esempio, si guarda con apprensione al Brasile, potenza emergente che per qualche anno è stata sulla cresta dell’onda e che ora è precipitata in un’acuta crisi economica e politica, rivelandosi un gigante dai piedi di argilla, come quasi tutte le potenze emerse da poco dal Terzo Mondo. Economie fragili perché lo sviluppo a ritmi serrati spesso è figlio, più che di condizioni interne stabilmente mutate, di operazioni di speculazione internazionale: come quella di chi investiva enormi capitali in Brasile per sfruttare gli alti tassi di interesse, e dopo qualche anno si è ritirato dal Paese facendo precipitare l’economia locale.

Ma nel caso di Cina e India le cose sono diverse. La vastità e le infinite potenzialità del loro mercato interno riescono infatti a neutralizzare, almeno in parte, gli effetti dell’andamento globale dell’economia. L’enorme massa di cittadini è dunque garanzia di uno sviluppo (più o meno) sereno, ma costituisce anche una grandissima sfida, perché riuscire a garantire servizi, sanità, trasporti, cibo e opportunità di lavoro per questa marea di persone è un’impresa che rasenta il miracolo.

Comunque sia, il domani del pianeta apparterrà a queste potenze asiatiche, a lungo relegate ai margini, ma ormai in grado di rivoluzionare i rapporti economici mondiali degli ultimi 500 anni.

 

Con il cambio di presidenza a Washington è entrato in crisi l’intero sistema mondiale degli accordi multilaterali. Gli Stati Uniti sono usciti dal TPP, l’area di libero di scambio del Pacifico, hanno di fatto sospeso il negoziato TTIP con l’Europa e messo in discussione il NAFTA con Messico e Canada, e ora minacciano perfino l’uscita dal WTO. Un mondo alla rovescia, nel quale la Cina difende la globalizzazione e si batte contro il protezionismo mentre gli Stati Uniti diventano sabotatori del libero mercato.

L’Unione Europea, che in questo weekend celebra i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, ha invece riaperto a sorpresa un negoziato che languiva da anni. Quello con il Mercosur, l’unione di Paesi in assoluto più simile a quella comunitaria: perché tra Brasile, Uruguay, Argentina e Paraguay circolano non solo merci ma anche persone, mostrando semplicemente la carta d’identità; inoltre si sta insediando un parlamento e da anni si parla di moneta comune. I negoziati con l’Europa, iniziati nel 1995, parevano essersi bloccati dopo alcuni vertici conclusi senza successo. Addirittura negli ultimi quattro anni le parti non si sono nemmeno incontrate. Eppure lo scambio tra queste aree assomma 57 miliardi di euro di esportazioni europee e 47 miliardi di esportazioni del Mercosur. Una bilancia commerciale nettamente favorevole all’Europa, che però tentenna al momento di concludere.

Questo è accaduto perché la Francia ha esercitato il suo storico veto nei confronti di tutto ciò che riguarda il capitolo agricoltura. I Paesi del Mercosur, secondo Parigi, dovrebbero aprirsi senza dazi ai manufatti europei, mentre l’ingresso dei prodotti agricoli sudamericani sul mercato europeo dovrebbe essere contingentato. Uno scambio diseguale, impossibile da accettare visto quanto pesa l’agricoltura nell’economia dei Paesi sudamericani. Ora, però, sembra che l’aria stia cambiando, per via del naufragio del TTIP e dei timori di un mondo che si sta inesorabilmente chiudendo al libero scambio.

La Commissione ha chiesto all’Università di Manchester una simulazione delle ricadute che si avrebbero qualora si chiudesse l’accordo: e i risultati dicono che per i Paesi Mercosur i vantaggi si concentrerebbero sul settore agricolo, mentre si avrebbe un calo dell’occupazione in quel settore in Europa. In compenso l’UE avrebbe vantaggi per il suo settore manifatturiero. Fin qui nulla di nuovo. Ma c’è di più. Nonostante una crescita del PIL calcolata tra mezzo punto percentuale per l’Argentina e 1,5% per il Brasile, entrambi i Paesi sudamericani dovrebbero far fronte a un calo occupazionale dovuto al declino dei settori manifatturieri, che si concentrano nelle grandi città, non compensato dalla crescita dell’impiego nelle campagne. In buona sostanza si avrebbe un aumento del reddito agricolo ma il settore non avrebbe praticamente bisogno di manodopera aggiuntiva, essendo stato riconvertito agli OGM.

I dubbi su questo accordo non si esauriscono qui. Si legge infatti nel documento preparatorio al prossimo vertice che la modalità di risoluzione delle eventuali controversie saranno definite “alla luce dei TLC firmati recentemente”. Significa introdurre in questo accordo quella modalità ripudiata dai milioni di cittadini europei che hanno inondato Bruxelles di firme contro gli ISDS: cioè le commissioni arbitrali private che dovrebbero risolvere i contenziosi fra Stato e soggetti privati. L’Unione sta tentando di applicare, in breve sintesi, alcune delle logiche e degli strumenti dell’accordo per ora interrotto con gli Stati Uniti; e, soprattutto, pretende aperture dagli altri tenendo chiusi alcuni dei propri settori produttivi. Si tratta di un liberismo a targhe alterne fuori tempo massimo. L’Unione dovrebbe – eccome! – stabilire relazioni chiare e proficue con il Mercosur, e anche con la Cina e con i Paesi del Pacifico. Ma dovrebbe farlo definendo uno “specifico europeo” nelle relazioni commerciali internazionali, soprattutto ora che gli Stati Uniti si ritirano dalla scena internazionale. Per ora, invece, il comportamento dell’UE continua a risentire dei riflessi condizionati del periodo a stelle e strisce: un periodo che si sta chiudendo, anche se a Bruxelles non l’hanno ancora capito.

 

 

Gli impegni presi da Donald Trump in campagna elettorale, parzialmente confermati nel suo video sui primi cento giorni di governo, hanno gettato nel panico le istituzioni comunitarie europee, che hanno capito di dover archiviare per molto tempo ogni ipotesi di accordo transatlantico di libero scambio con gli USA. E che probabilmente dovranno mettere mano al portafoglio per ripagare l’ombrello militare a stelle e strisce della NATO, incluse le armi di deterrenza nucleare.

Anche il Giappone è preoccupato per gli stessi motivi: maggiori costi per mantenere le truppe statunitensi presenti nel Paese fin dall’epilogo della Seconda guerra mondiale e fine annunciata del TPP, l’area di libero scambio del Pacifico con la quale Barack Obama riconosceva un ruolo importantissimo a Tokyo per mettere fuori gioco la Cina.

In pochi giorni, infatti, questi scenari sono radicalmente cambiati. Anche se l’annunciato muro al confine meridionale pare non rientrare  fra le priorità di Trump, la minaccia di imporre un dazio del 35% alle merci importate negli USA dal Messico potrebbe praticamente annichilire il Paese latinoamericano, che per il 70% del suo commercio estero dipende dall’export verso nord, nell’ambito dell’accordo Nafta che include anche il Canada.

Uno solo dei Paesi minacciati di ritorsioni anti-dumping e di barriere doganali non ha fiatato: anzi, è tornato a giocare a tutto campo, sperando che il “vuoto” americano finisca con l’offrirgli ulteriori opportunità. Si tratta della Cina che, per quanto Trump possa minacciare, detiene 1.270 miliardi di dollari in bond emessi dal Tesoro statunitense.

Ma è sul piano produttivo che i rapporti tra i due Stati difficilmente potranno cambiare di molto. Il 20% della produzione cinese finisce sul mercato statunitense, ma il 60% di queste merci è prodotto da aziende a stelle e strisce. Imprese che hanno delocalizzato, ma che continuano a pagare le tasse negli Stati Uniti. Questo grande sbilanciamento produce 350 miliardi di dollari annui di deficit commerciale, ma al tempo stesso favorisce in buona parte imprese americane. Insomma, siamo di fronte a un grande pasticcio e a una dipendenza reciproca tra potenze come non era mai esistita prima: l’esatto opposto di quanto succedeva durante la Guerra Fredda tra l’URSS e gli USA.

L’apparente serenità cinese davanti a un presidente statunitense ostile nasconde in realtà un grande lavorìo diplomatico che si è svelato a Lima durante i giorni della Conferenza dei Paesi APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation). Nella capitale peruviana, il presidente Xi Jinping ha dichiarato che l’obiettivo del suo Paese è assumere la direzione esclusiva nei negoziati per il libero scambio nell’area del Pacifico, colmando il vuoto che sicuramente sarà provocato dalla sospensione dell’accordo TPP.

Torna prepotentemente d’attualità una delle sigle meno conosciute a livello internazionale, il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), del quale fanno parte la Cina, l’India e una dozzina di altri Paesi che assommano il 48% della popolazione mondiale e il 30% del PIL planetario. Ora questo accordo di libero scambio fa gola agli stessi Paesi che avevano scommesso sul TPP e che si vedono costretti a correre ai ripari. Il primo a compiere il passo formale per aderire alla cordata cinese è il Perù: sarebbe il primo Stato americano a entrare in questo partenariato cui già aderiscono Australia e Nuova Zelanda.

Nel rompete le righe generale si segnala anche l’accordo raggiunto tra 6 Paesi centroamericani e la Corea del Sud.

Insomma, la globalizzazione e le interconnessioni dell’economia mondiale non si fermano perché un presidente, pur se a capo della prima potenza mondiale, decide di mettere i bastoni tra le ruote. Anzi, i primi danneggiati dal nuovo corso sarebbero le aziende del suo Paese (multinazionali che la globalizzazione dei mercati l’hanno voluta e gestita) e i consumatori statunitensi, che pagherebbero carissimi quei prodotti arrivati dall’estero che acquistano tutti i giorni. Ora Trump ha tutto il tempo per esibirsi in una di quelle capriole che i populisti ci regalano spesso, e di fare il contrario di quanto promesso. Ma è bastata la sensazione che il gatto volesse ritirarsi per dare il via alle danze dei topi.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

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Il concetto di interdipendenza applicato alla politica estera compare nel dibattito internazionale in coincidenza con la fine della Guerra Fredda. Prima c’erano le aree d’influenza delle due superpotenze, USA e URSS: senza dubbio all’interno di ciascuna di esse esisteva un grado di interdipendenza più o meno accentuato, ma rimaneva sempre in posizione subordinata rispetto agli interessi della potenza dominante.

A cominciare dagli anni ’90, invece, nelle relazioni internazionali si afferma una progressiva interdipendenza globale che rende meno definito non solo il confine tra politica estera e interna, ma anche il confine tra interessi commerciali e interessi pubblici. Non che gli Stati forti non tutelassero gli interessi delle loro aziende sul piano internazionale (anzi!), ma fino a quel momento non si era mai verificato il contrario: cioè che fossero gli interessi economici a determinare in modo massiccio l’agire delle nazioni. E questo è uno dei risultati più tangibili dell’odierna globalizzazione, fenomeno che ha reso meno protagonisti gli Stati, chiamati costantemente a misurarsi con gli interessi del mondo dell’economia, a finanziarsi sul mercato, cercare nuove aperture commerciali, tutelare il proprio mercato interno.

Tradizionalmente si diceva che i Paesi post-coloniali del Terzo Mondo, al momento di operare scelte politiche, avevano le mani legate non solo per l’oggettiva debolezza ma anche perché la loro economia era determinata esclusivamente da forze esterne. La globalizzazione ha reso più liberi questi Stati, che hanno ridotto la loro dipendenza dalle ex potenze colonizzatrici costruendo – per esempio – rapporti commerciali con Paesi come la Cina. Paradossalmente, però, proprio la globalizzazione sta ora legando le mani alle vecchie potenze occidentali. Un caso macroscopico è quello dell’Unione Europea, dove questo insieme di interessi esterni alla politica incide fortemente sulle istituzioni comunitarie. Il Regno Unito sta sperimentando sulla propria pelle la difficoltà, non ben calcolata al momento del voto per la Brexit, di ritrovare una sua autonomia essendo stata per decenni una parte importante della rete costruita insieme ai partner europei.

Ma il paradosso più grande nel campo dell’interdipendenza è dato dai cambiamenti che il neopresidente statunitense Donald Trump, al netto di qualche gesto simbolico, dovrà necessariamente attuare rispetto agli impegni presi in campagna elettorale. Tutte le sue promesse in materia di politica estera e commerciale vanno infatti a cozzare con gli interessi degli Stati Uniti. Se introdurrà nuovamente i dazi per le merci provenienti dal Messico, danneggerà sia i consumatori statunitensi sia le aziende del suo Paese che negli anni hanno delocalizzato dall’altro lato della frontiera. Se dichiarerà la guerra commerciale alla Cina, rischierà ritorsioni da parte del primo creditore e sostenitore del debito pubblico a stelle e strisce. Se si ritirerà dal TPP, l’accordo del Pacifico, regalerà quell’importante area del mondo proprio a Pechino. Se taglierà fondi alla NATO, potrebbe dare il via a un ripensamento da parte europea nei confronti di quel dispositivo residuato della Guerra Fredda. E se davvero espellerà 10 milioni di clandestini, rischierà di danneggiare l’agricoltura di tutto il Sud-ovest del Paese, oltre a diversi settori dell’industria.

Insomma, anche Washington ha le mani legate. Questo perché gli USA sono stati il Paese nel quale, da Ronald Reagan in poi, la politica si è maggiormente allineata agli interessi dell’economia, dimenticando spesso quelli del popolo. Questa distorsione, che Trump ha compreso e cavalcato in campagna elettorale, potrebbe diventare il suo grande problema ora che deve governare. Farà gli interessi dei suoi elettori o quelli del “sistema”? Per uno nato e cresciuto nel mondo degli affari sarà un vero dilemma. Per la comunità internazionale potrebbe trattarsi di una vera rivoluzione, oppure della conferma dell’inconsistenza della politica nel XXI secolo.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

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