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Com’era prevedibile, il conflitto ucraino si è sdoppiato. Da un lato, pur servendo anche per testare nuove armi, ha assunto i caratteri di un conflitto novecentesco, talvolta addirittura di trincea, nel quale l’elemento umano è importante tanto quanto quello tecnologico. Dall’altro, è a tutti gli effetti un conflitto dei tempi della globalizzazione, nel quale vengono usate come armi le materie prime, l’energia, i legami economici e le alleanze geopolitiche, con contorno di fake news che sono la continuazione della guerra in corso.

Il punto è riuscire a interpretare l’interazione tra queste due modalità, così da capire il reale andamento del conflitto. Al momento, per l’Europa si sono rivelati più pesanti l’aumento del costo dell’energia e le difficoltà di approvvigionamento di fertilizzanti agricoli che la fuga degli ucraini: si pensava si sarebbero rovesciati sull’Unione Europea a decine di milioni, invece i profughi ucraini, numerosi soprattutto nella prima fase del conflitto, sono stati assorbiti senza grossi problemi e non si prospettano altri arrivi massicci. L’arma in assoluto più efficace nelle mani della Russia di Putin è stata finora il metano. Grazie ai gasdotti Mosca ha potuto finanziare il proprio sforzo bellico senza collassare, grazie ai prezzi cresciuti esponenzialmente e ai pagamenti puntuali da parte della stessa Europa che sta rifornendo gli ucraini di armi moderne. Nei primi sei mesi del conflitto i paesi UE hanno versato alla Russia 85 miliardi di euro a saldo della fattura energetica, il 70% della spesa bellica russa secondo fonti autorevoli.

Ora da parte russa arriva la minaccia di una sospensione totale del rifornimento di gas. La svolta può indicare due cose: o che il conflitto sta andando molto male per Putin, ridotto a usare un’arma estrema (e a doppio taglio) per far sì che all’Ucraina venga meno il sostegno europeo; oppure l’esatto contrario, e cioè che la Russia, diversificando il suo parco clienti e guardando soprattutto a Cina e India, si sarebbe messa nelle condizioni di poter minacciare il blocco all’Europa senza pagarne le conseguenze.

Gli esperti propendono per la prima ipotesi, essendo innegabile che, dopo 7 mesi di conflitto, le armate di Mosca non sono riuscite a mettere in sicurezza nemmeno le due province del Donbas, obiettivo primario dell’invasione, e men che meno sono riuscite a piegare l’esercito o il popolo ucraino. Perché, alla fine, un conflitto viene deciso dalle armi. E le azioni sul campo, per quanto “novecentesche”, restano quelle dirimenti, anche se da noi si dibatte solo della sicurezza delle centrali nucleari e del mercato energetico, mentre dell’aspetto puramente militare della guerra non si parla quasi più.

Dissipate le polemiche, spenti i riflettori orientati dalle centrali della disinformazione, conterà vedere se, sul campo, la Russia sarà stata in grado di strappare o no un pezzo di territorio a uno Stato sulla carta molto più debole militarmente. Su questo verrà giudicato nel suo paese Vladimir Putin. Conterà solo se su quel pezzo di Ucraina sventolerà la bandiera gialloblu di Kiev oppure quella rossa blu e bianca di Mosca. Tutto il resto scomparirà. O quasi, perché a noi resterà l’ennesimo avvertimento sul fatto che la transizione energetica è urgente per motivi non solo ambientali ma anche strategici, e che la globalizzazione va rivista, tornando a tutelare i settori strategici e accorciando le filiere. Lezione che però avremmo già dovuto imparare dalla pandemia. Davanti al concentrato di eventi epocali che negli ultimi tre anni hanno colpito il mondo, una sola cosa non si può fare: tirare a campare.

L’orso in Africa

Pubblicato: 8 novembre 2019 in Mondo
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Da anni ormai si scrive e si discute sulla presenza cinese in Africa. Un continente nel quale Pechino ha individuato non soltanto un produttore di materie prime strategiche, ma anche un mercato quasi vergine. Ed è proprio questa l’importante novità: oltre a estrarre e importare minerali, petrolio e prodotti agricoli, la Cina ha effettuato grossi investimenti acquistando terre e, soprattutto, impiantando apparati industriali di discreto livello. Ciò, in molti Paesi, ha consentito di avviare per la prima volta una trasformazione in loco delle materie prime grezze.

Meno attenzione si presta invece alla presenza africana di altri grandi Paesi, come India, Brasile e soprattutto Russia. È stata proprio Mosca, recentemente, a lanciare un’offensiva diplomatica attraverso la quale punta a recuperare un ruolo importante in Africa, come ai tempi dell’Unione Sovietica. La Russia ha da offrire soprattutto cooperazione militare, cioè armi e addestramento. Merce sempre richiesta e che Mosca si impegna a fornire, dopo aver siglato 20 accordi di cooperazione militare negli ultimi quattro anni. Oggi la Russia di Putin è il primo fornitore di armi in Africa con il 35% del mercato, contro il 17% della Cina e il 10% degli Stati Uniti. Ancora, le agenzie russe di mercenari sono attivissime nel sostenere il generale Khalīfa Haftar in Libia, in cambio di petrolio, e anche il governo della Repubblica Centrafricana. Proprio in questo Paese potrebbe essere costruita la prima base militare russa in Africa.

Ma l’interesse russo non si esaurisce qui. Il Cremlino ha messo a punto un pacchetto che propone di fornire tecnologia e know how per sfruttare meglio i minerali, ovviamente in cambio di concessioni minerarie e commesse per la costruzione di ferrovie, strade e centrali nucleari, una delle specializzazioni dei russi. Che sono già impegnati nella costruzione della prima centrale nucleare egiziana, mentre sono molto avanzate le trattative per dotare anche l’Etiopia di questa tecnologia.

Lo scambio economico tra l’Africa e Mosca resta comunque molto modesto: 20 miliardi di dollari di scambi commerciali all’anno contro i 200 della Cina e i 300 dell’Unione Europea, ma l’intenzione è raddoppiarlo in due anni. Nel recente forum Russia-Africa, tenutosi a Sochi sulle rive del Mar Nero, sono stati firmati contratti e intese per un controvalore di 11 miliardi di dollari, accompagnati dall’annuncio della cancellazione dei debiti, a dire la verità inesigibili, accumulati dai Paesi africani nei confronti dell’Unione Sovietica. La diplomazia commerciale russa si pone dunque esplicitamente in continuità con quella sovietica. Da un lato, Mosca si concentra su quegli Stati che un tempo erano “amici” dell’Urss, come Angola, Mozambico, Etiopia o Libia; dall’altro lancia un messaggio ai leader africani, in buona parte illegittimi o sospettati di gravi violazioni dei diritti umani, lasciando intendere che non solleverà mai problemi legati a questi temi. Con Mosca non si rischia l’embargo né altre sanzioni. Anzi, arriveranno armi a qualsiasi condizione, ed eventualmente anche mercenari.

In questo senso l’amicizia con la Russia appare molto più interessante, almeno in certi contesti, rispetto a quella con la Cina che, per via degli stretti rapporti con gli Stati Uniti, almeno formalmente deve “stare attenta” al comportamento che tiene in Africa. Putin gioca invece a tutto campo, approfittando della disarticolazione del mondo di oggi, rinverdendo la geopolitica dell’Unione Sovietica, riconvertita però a pura politica di potenza. Il risultato è che, in Africa, Russia e Cina sono complementari. Una fa ciò che l’altra non è in condizioni di fare: la Cina degli investimenti miliardari e la Russia delle mani libere, per rifornire tutti di armi. È un’accoppiata che in altri scenari si fa più fatica a vedere, ma che nel fragile contesto africano si fa sentire, eccome.

 

C’è un tempismo sospetto nel succedersi degli eventi mediorientali degli ultimi giorni. E’ come un meccanismo impazzito che genera movimenti e reazioni che si manifestano anche a migliaia di chilometri dai luoghi dello scontro. La politica estera statunitense, dai tempi di Bush figlio e della sua lotta al terrore basata sugli interventi in Afganistan e in Iraq, sta incassando frutti indigesti. Il mondo sunnita, fedele alleato di Washington è ora destabilizzato, il mondo sciita che gravita attorno all’Iran, storico antagonista di Washington, è uscito vincitore.

Il collasso dell’Iraq è stata la prima puntata della riscossa di Teheran che non soltanto vedeva sciogliersi il suo principale antagonista, ma in pochi mesi insediava un governo “amico” a Bagdad. La seconda puntata della riscossa iraniana è stata la sua vincente discesa nel conflitto siriano-iracheno, insieme a curdi e russi, per stroncare il progetto dell’Isis di creare un “arco sunnita” che superasse i confini coloniali stabiliti da Francia e Gran Bretagna nel 1916. Il “Sunnistan” dell’Isis è stato un progetto sostenuto politica e finanziariamente dalle monarchie del Golfo e in primis dall’Arabia Saudita e dalla Turchia. L’Isis è un esercito belligerante con truppe e generali provenienti dai ranghi dell’esercito iracheno che aveva in comune con Al Quaida soltanto l’aspetto propagandistico, perché la sua dimensione terroristica finora è stata scagliata soltanto contro i paesi impegnati a combatterli sul campo: Francia, Gran Bretagna, Iran, Turchia (dal voltafaccia di Erdogan), Russia. Al posto del mancato arco sunnita, si è rinforzato quello sciita, che da Teheran arriva in Libano passando dalla Siria e dall’Iraq.

Il progetto del Sunnistan è ora fallito regalando prestigio alla Russia, rilanciando la causa curda, rinforzando gli hezbollah sciiti del Libano e soprattutto regalando all’Iran la posizione di unica potenza militare regionale. Le mosse dell’Arabia Saudita dopo il passaggio di Donald Trump rispetto al Qatar sono difficili da decifrare. Il Qatar sicuramente ha finanziato i Fratelli Musulmani e anche l’Isis (come l’Arabia Saudita), ma era l’unico degli statarelli del Golfo ad avere buoni rapporti con l’Iran e forse questo è bastato per la messa al bando. Nemmeno 72 ore dopo, è stato colpito dall’Isis il cuore istituzionale e simbolico dell’Iran. Il Mausoleo di Khomeini e l’unico Parlamento dell’area che in qualche modo ricordi la democrazia sono stati l’obiettivo dell’Isis in ritirata che sancisce con questo attentato lo status dell’Iran come vittima e non come generatore del terrorismo. Anche gli attentati a Parigi e Londra vanno letti così, l’Isis è allo sbando e sull’orlo di perdere le sue roccaforti in Iraq e Siria, quindi raddoppia gli attentati contro i “crociati” alleati sfruttando l’abbondante manodopera pronta al martirio. Una strategia che senza più capacità belligerante sul campo mediorientale è perdente e residuale.

L’Arabia Saudita con le misure anti-Qatar vorrebbe fare dimenticare velocemente la sua sconfitta geopolitica. Non solo il suo “braccio armato” non è riuscito a consolidare il sunnistan, ma l’intervento militare nello Yemen sta diventando un vero e proprio Vietnam. Se Donald Trump ha promesso nel suo viaggio di sostenere questa politica, che anzitutto destabilizza i suoi alleati (il Qatar ospita la più grande base militare USA della regione), sarà l’Arabia Saudita a pagare il conto. Indebitandosi per comprare armi e ancora armi che potrebbero servire solo per un certo tipo di conflitto, quello contro l’Iran. Una scalation bellica tra Iran e Arabia Saudita rischierebbe di trascinarsi dietro l’intero mondo arabo e le potenze globali, Usa e Russia in primis. Uno scenario da dottor Stranamore, quale sembra essere la cifra della nuovo diplomazia di Washington.

In conclusione, stiamo vivendo l’inizio della fine del conflitto siriano-iracheno e la notizia è che è stato perso dall’Arabia Saudita e dai suoi vassalli. Stanno vincendo un mix di forze che vanno dalla Russia all’Iran, passando dai curdi che diventeranno a tutti gli effetti forze di “stabilizzazione” a conflitto concluso. Gli Stati Uniti hanno puntato sul cavallo perdente, anche se almeno Obama sancì la fine delle ostilità sul nucleare iraniano generando un credito nei confronti degli ayatollah, mentre l’Europa ha sbagliato tutto dall’inizio, aprendo l’autostrada della Jihad ai ragazzi che volevano andare a rovesciare Assad in Siria per ritrovarseli ora di ritorno radicalizzati e con esperienza militare.

E’ come se si fosse giocata una grande partita che ha spostato confini, sfere di influenza, popolazioni, capitali e che ci consegnerà un nuovo Medio Oriente, non più disegnato sui confini coloniali, ma sulla visione dei vincitori. Una riscrittura degli equilibri geopolitici che, come sempre in quella martoriata zona del pianeta, sta avvenendo in un drammatico bagno di sangue.

 

L’Unione Europea dei nostri giorni assomiglia sempre di più a un cristallo incrinato. Le piccole e grandi fratture che rischiano di mandare tutto in frantumi ormai non si contano. A est ci sono due linee di frattura, una esterna e una interna. La prima è il rapporto con la Russia, inquinato dalla politica di accerchiamento della NATO, in stallo dopo i blitz di Mosca in Crimea e in Ucraina. L’altra, interna, riguarda i Paesi dell’ex blocco sovietico entrati a fare parte dell’Unione seguendo il miraggio della stabilità e delle potenzialità del mercato comune, ma che non intendono cedere sovranità né rispettare gli standard comunitari in materia di diritti civili, ritenuti troppo alti.

A sud-ovest si consuma la frattura con la Turchia di Erdogan, prima sopportato e foraggiato in nome del contrasto all’immigrazione, ora considerato invece un provocatore dell’Unione stessa. A sud c’è la frattura più profonda, quella mediterranea, con l’impossibilità di dialogare con la sponda meridionale del mare nostrum in preda a una crisi profonda che, nel caso della Libia, ha portato al collasso dello Stato.

Sul fronte atlantico si delinea un’altra doppia frattura. La prima con gli Stati Uniti di Trump che rinnegano il negoziato per la creazione di un area di libero commercio con l’UE e annunciano una battaglia commerciale a colpi di protezionismo, l’altra con il Regno Unito, che non ha mai amato l’Europa unita e ha deciso di uscirne. Ma non è finita, c’è anche la  frattura generata dagli impegni di bilancio sottostanti alla moneta unica, che vede schierati i “rigoristi” del Nord contro i “flessibilisti” del Sud.

A 60 anni dalla nascita della Comunità Economica Europea tutto lascia intuire che, alla fine, non hanno vinto i fautori dell’ipotesi federale, i cosiddetti Stati Uniti d’Europa, ma piuttosto coloro i quali vorrebbero spostare il percorso europeo verso un semplicissimo mercato unico. Un’era di libero scambio per merci e servizi senza altri vincoli, per la quale paradossalmente si è sempre battuto il Regno Unito: merci libere di viaggiare, persone bloccate dai muri. E sono proprio i muri i simboli di questa regressione, perché nascono proprio in quei Paesi che, per decenni, sono rimasti dietro la “cortina di ferro” sovietica, e che ora rifiutano assistenza a chi scappa da guerre e persecuzioni.

Al di là di come andrà a finire la questione-Brexit, si è tornati a parlare di una vecchia idea, la fantomatica “Europa a due velocità”. Una cerchia di Paesi che si impegnano a rinforzare i legami reciproci e altri Paesi che, invece, si accontentano di partecipare al mercato comune. Se questa linea si imponesse, sarebbe la più bruciante sconfitta per le politiche di questi ultimi 20 anni di allargamento dei confini senza costrutto, di lancio di una moneta senza Stato, di strategie di difesa senza eserciti: una linea che ha creato più danni che benefici.

L’Europa a 28, senza strumenti di governance e veri poteri decisionali, è diventata un elefante paralizzato. L’accelerazione della moneta unica senza una Costituzione comune, la mancata armonizzazione fiscale, la sperequazione delle politiche sociali, le delocalizzazioni interne sono oggi nell’occhio del ciclone dell’opinione pubblica. In buona parte la frittata è fatta: ora bisogna capire come uscirne. Innanzitutto, ed è un presupposto senza il quale tutto il resto si renderebbe inutile, a 60 anni dalla nascita della Comunità i leader che parteciperanno ai festeggiamenti di Roma si dovrebbero guardare in faccia, e con onestà dirsi se sono o non sono disponibili ad andare avanti. Le “due velocità” dovrebbero trasformarsi in un “dentro o fuori”. Se resteranno solo i legami commerciali, non ci sarà nemmeno bisogno di una grande burocrazia, e meno ancora di un Parlamento europeo. L’UE ci costerebbe molto meno, ma perderemmo molte conquiste non solo materiali. Perderemmo soprattutto la cittadinanza dell’unica regione del pianeta nella quale si è tentato di costruire un’area di civiltà e democrazia, e non solo un recinto economico. Un tentativo che – anche se in queste ore molti lo dimenticano – per la prima volta nella storia europea ha evitato guerre e fame.

Oggi i nemici dell’Europa comunitaria, interni ed esterni, sono numerosi e si moltiplicano. Ed è anche questo un segnale che la posta in gioco continua a essere alta.

 

America first, la France avant tout, per la rivincita russa. Sono solo alcuni degli slogan nazionalisti che riecheggiano da Washington a Mosca, da Parigi a Istanbul. Slogan lanciati da politici che sono arrivati, o sperano di arrivare, in modo democratico al potere per rappresentare – secondo loro – la riscossa di popoli impoveriti, umiliati, assediati.

Sono però anche slogan usati da regimi autoritari che uccidono liberi giornalisti, come accade in Russia, o che organizzano “auto-colpi di Stato” per poter massacrare l’opposizione. Il nazionalismo, a differenza delle piante, attecchisce a ogni latitudine e con ogni clima, non distingue tra democrazia e dittatura, è sempre foriero di un aumento della bellicosità ed è stato responsabile dei più grandi genocidi della storia contemporanea.

Qual è il limite tra nazionalismo e legittima difesa degli interessi nazionali? Storicamente, le formazioni politiche della sinistra hanno sempre rifiutato il nazionalismo anteponendogli l’internazionalismo. Cioè l’idea che attraverso la cooperazione internazionale tra le classi subalterne si potesse costruire un futuro migliore per tutti. Questo approccio, ispirato dalle riflessioni marxiane, ha costituito uno dei primi tentativi di interpretare la globalizzazione come elemento di crescita e “circolazione” dei diritti, prima che delle merci.

Ma questa utopia si è drammaticamente incrinata a partire degli anni ’90, quando i sindacati si sono ripiegati su se stessi non preoccupandosi più, almeno attivamente, per le condizioni dei lavoratori di altri Paesi, ma soltanto dei diritti dei propri iscritti. Quando è partita l’ultima ondata di globalizzazione, in Occidente non ci sono mai state proteste per le condizioni di lavoro degli operai dei Paesi nei quali le imprese delocalizzavano, ma solo preoccupazione per i posti di lavoro persi.

La sinistra e le sue ramificazioni sociali perdevano così la dimensione globale proprio mentre questo orizzonte veniva prepotentemente acquisito dal capitale transnazionale. La globalizzazione non ha portato infatti nuovi diritti a nessuno: anzi, spesso ne ha tolti. Perché, se è vero che in diversi Stati ha creato occupazione di massa e migliorato la condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, è anche vero che non ha inciso sulla natura di quei regimi che si sono aperti alle delocalizzazioni, a partire dalla Cina.

Il fenomeno Trump viene oggi spacciato come la rivincita dei ceti medi impoveriti. Il nuovo presidente “parla come mangia”, dosa con sapienza xenofobia e omofobia, spara contro la globalizzazione, contro gli immigrati e contro i vicini poveri degli Stati Uniti. E questa sarebbe la grande novità della politica del XXI secolo? Non solo, i personaggi alla Trump o alla Putin raccolgono consensi e simpatie tra chi ancora si definisce radicalmente di sinistra. Coloro che sarebbero le prime vittime in regimi come quello russo, o che non hanno capito come è formato il blocco sociale e culturale che sostiene Trump, esultano davanti all’uso della forza militare di Mosca o alla fine degli accordi multilaterali decisa da Trump. Il fine, per taluni, continua a giustificare i mezzi.

Ed è davanti a questo scenario, confuso e pericoloso, che va rivalutato il percorso compiuto nei primi anni 2000 a Porto Alegre, in Brasile. I forum sociali mondiali di allora erano raduni molto eterogenei in cui movimenti sociali e forze politiche discutevano della globalizzazione, dei guasti che già si capiva avrebbe prodotto, ma anche delle sue potenzialità, rifiutando l’idea di chiudersi entro i propri confini e lanciando anzi lo slogan “un altro mondo è possibile”. Un mondo da cambiare in una dimensione internazionale, proponendo una nuova stagione di regole e diritti aggiornati al mondo globale. Finora, è stato questo l’ultimo tentativo di trovare una nuova governance globale. Un esperimento che non ha avuto seguito, anche se molti tra i partecipanti sono poi diventati politici di rilievo nei rispettivi Paesi. Ha prevalso invece un timore reverenziale, o complice, nei confronti delle lobby che hanno indirizzato la globalizzazione dimenticandone le ricadute negative.

È in quelle sacche di malcontento, tra i perdenti cioè, che oggi rinasce il nazionalismo in versione 2.0. Un nazionalismo che ci tiene alle forme, ma fino a un certo punto. Che ufficialmente rifiuta qualsiasi collegamento con quelli del passato, ma che ripropone fotocopiate le stesse ricette: chiusura delle frontiere, priorità ai propri cittadini, barriere protezionistiche per tutelare il mercato interno, restrizione delle libertà individuali, ritorno a forme di integralismo religioso, omofobia.

Questo andrebbe ricordato sempre, prima di considerare un grande trionfo la fine del TTIP perché Trump così ha voluto. Ma il neopresidente intende solo proteggere i suoi elettori impoveriti, fregandosene del resto. Invece, chi per anni si è opposto al TTIP in Europa contestava i contenuti e le modalità dell’accordo: non l’accordo in sé. La differenza tra nazionalismi e progressismo dovrebbe essere proprio questa. I nazionalisti vogliono un mondo spezzettato, dove conta la potenza, la forza: vogliono avere mano libera per governare con pugno di ferro in casa loro. Chi si oppone a questa visione dovrebbe lottare ancora per un mondo aperto, nel quale possano viaggiare alla pari merci e persone, e nel quale le regole non siano dettate soltanto dagli operatori economici ma anche dagli interessi dei cittadini, attraverso istituzioni transnazionali.

Per questo l’Europa comunitaria, in un simile scenario, resta una trincea. Perché, pur essendosi allontanata dagli obiettivi che si era data ai tempi della sua nascita, è l’unica area del pianeta nella quale la cooperazione e l’armonizzazione degli interessi hanno portato decenni di pace e prosperità. Per quanto sia da raddrizzare, e velocemente, si capisce benissimo perché, da Putin a Trump, l’Unione Europea sia diventata il bersaglio numero uno. È la somma di quanto odiano di più.

 

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Poche volte nella storia, forse mai, in così pochi giorni un presidente degli Stati Uniti è riuscito a polarizzare l’opinione pubblica non solo del suo Paese ma del mondo intero. Superano ormai la decina le categorie di persone offese o direttamente colpite dalle prime misure del successore di Obama. Molti scoprono con sgomento che Donald Trump sta provando a mettere in atto, e da subito, tutto ciò che ha promesso in campagna elettorale. Ed è questa la grandissima novità, un politico che continua a parlare chiaro anche ora che siede alla Casa Bianca, e soprattutto che vorrebbe mantenere fede agli impegni presi con gli elettori.

La cultura politica del neopresidente è meno che elementare. Da imprenditore non è abituato alla mediazione, ma a cercare di ricavare il massimo profitto oppure a far saltare il banco. Nella testa di Trump c’è una precisa scala di priorità: tutto è secondario rispetto a quell’America first che non riguarda solo la precedenza dei cittadini statunitensi rispetto agli immigrati, ma anche quella dell’economia locale rispetto all’economia globale. Ed è questo il punto di frattura più profondo nella storia recente della potenza americana. Il primo atto esecutivo firmato da Trump è stato l’uscita dal TPP, cioè dal trattato di libero scambio tra 11 Paesi del Pacifico voluto e negoziato da Barack Obama. Un capolavoro della diplomazia di Washington che avrebbe messo alle corde Pechino, isolando la Cina da un gigantesco mercato proprio nel suo cortile di casa. I cinesi, infatti, stanno ancora stappando bottiglie per festeggiare questo inaspettato regalo che offre loro la possibilità di candidarsi a guida della macroregione orientale. E possiamo considerare definitivamente morto anche l’altro grande trattato commerciale in discussione, il TTIP con l’Europa.

Ma non è solo sul fronte degli accordi commerciali che l’aria è cambiata. Trump ha rilasciato due dichiarazioni che potrebbero cambiare la geopolitica mondiale. Da un lato ritiene la NATO obsoleta – e chi può smentirlo! – dall’altro ha giurato che mai impegnerà il suo Paese in imprese belliche che abbiano come obiettivo rovesciare un regime senza avere una soluzione pronta per il dopo. E anche queste sembrano parole sensate, se si pensa ai disastri iracheno, libico, siriano, afgano. Ma la realtà è che non si tratta di saggezza, bensì della semplice applicazione dello slogan America first: nel senso di far prevalere l’interesse immediato degli Stati Uniti evitando di caricarsi dei costi legati al ruolo di gendarme del mondo. È una sorta di ritorno all’Ottocento, quando gli USA erano ripiegati su se stessi, ancora impegnati nell’espansione territoriale verso ovest, e gli interventi all’estero si limitavano a tutelare interessi contingenti in America Latina, Africa o Asia. Una potenza con meno pretese, che gira i cannoni della spesa pubblica verso l’interno del Paese recuperando risorse dai risparmi sul dispositivo militare.

Con Trump si sancisce così la fine definitiva dell’illusione dell’unipolarismo, cioè della possibilità che un solo Paese potesse tenere le redini dell’ordine internazionale. Nascerà un ordine multipolare, che c’è già nei fatti, con gli USA, la Russia e la Cina. Ma senza l’Europa. Ci aspettano una nuova Jalta e una nuova spartizione delle aree di influenza. L’America di Trump sarà più piccola dell’America imperiale di Bush o Clinton, ma più realistica: con questo presidente gli Stati Uniti non saranno più alleati scontati per nessuno. I cosiddetti valori dell’Occidente – la democrazia e il rispetto dei diritti umani come linee guida per sancire alleanze e combattere guerre – vengono consegnati alla Storia. Conteranno solo gli interessi, come ai tempi delle cannoniere. L’Europa ancora frastornata dalla Brexit, e a rischio sfaldamento, ne prenda atto subito.

 

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Il 2016 che si chiude è stato un anno ricco di eventi internazionali, di svolte e di sorprese. Il conflitto mediorientale ha prodotto ancora morti, distruzione, tragedie. Nel 2015 il protagonista era stato l’Isis, nel 2016 sono tornate in campo le potenze mondiali, la Russia e gli USA, e quelle regionali, come Turchia e Iran. La svolta bellica in Iraq e in Siria ha visto anche il protagonismo dei curdi che, in mezzo al grande caos, si stanno ritagliando pezzo dopo pezzo la tanto agognata costruzione di uno Stato. Uno scenario nel quale si sono incrociate e mescolate guerre intestine tra minoranze etniche e religiose, tra governi e governati, e sul quale sono tornati a misurarsi gli eterni contendenti della Guerra Fredda in versione aggiornata. Uno scenario nel quale la democrazia e il rispetto dei diritti umani, storici paraventi per le scorribande neocoloniali, sono ormai sfumati. Si rinforzano gli Assad e gli Al Sisi, i talebani diventano interlocutori sempre meno nascosti, e l’Arabia Saudita ridimensionata nella Mezzaluna fertile si rifà sullo Yemen. Il Medio Oriente si incammina velocemente verso la ridefinizione dei confini e delle rispettive signorie, ma la consolidata ricetta dei tiranni che garantiscono stabilità, a prescindere dai metodi, si riconferma l’unica strategia delle potenze per quella martoriata zona del pianeta.

In Europa la costruzione comunitaria traballa e si riaccendono paure di ritorni a un passato che si pensava sepolto. La Brexit, la crescita dei partiti estremisti, la fine annunciata dell’ideale europeista mettono a nudo l’inconcludenza di una politica che si è accontentata di gestire l’esistente, dimenticandosi delle sofferenze, delle paure, dei bisogni dei cittadini. Cittadini sempre più esclusi dal dibattito relativo all’economia e alla globalizzazione, ma che detengono ancora l’arma più efficace per punire o premiare: il voto.

L’evento che ha creato più rumore mediatico in assoluto, l’elezione del candidato antisistema Donald Trump, un nome uscito dal cuore del sistema, va letto in quest’ottica. Le contraddizioni che hanno portato il magnate di New York a diventare presidente degli Stati Uniti si spiegano soltanto nel clima generalizzato di ritorno al protezionismo, dovuto al fallimento di una parte delle promesse della globalizzazione: quelle che riguardavano i Paesi occidentali, dai quali sono usciti capitali e competenze per andare a creare economia altrove, lasciandosi alle spalle deserti sociali nelle vecchie città manifatturiere.  Nuovi ceti medi in Oriente e nuove povertà in Occidente sono le due facce della stessa moneta. Ma la moneta è stata accumulata solo da pochi soggetti, transnazionali, che hanno dato vita a un gigantesco impero mondiale esentasse senza mai farsi carico dell’impatto delle loro politiche industriali.

Il 2016, insomma, è stato un anno pieno di segnali negativi, e non solo per la crisi che si trascina. La pazienza è finita in molti Paesi, la politica lo ha capito ma ormai non ha più il potere di invertire la rotta: i giochi sono fatti da altri, il “si salvi chi può” diventa una tentazione di massa. In questo panorama, una sola potenza è rimasta stabile e agisce da forza stabilizzatrice. La Cina. L’unica potenza che prescinde dal consenso popolare, che garantisce continuità alle sue politiche, che continua a investire capitali in giro per il mondo. È però impensabile un unipolarismo basato solo su Pechino, il mondo ha bisogno di altri pesi e contrappesi. E nell’anno che arriva sarà questa l’urgenza per la comunità internazionale: pensare lungo, uscire dalla logica dell’emergenza e del volare basso, tornare a immaginare e a fare politica globale.

 

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P di petrolio

Pubblicato: 16 novembre 2015 in Mondo
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L’incontro tecnico dell’Opec tenutosi a fine ottobre a Vienna ha fotografato una situazione molto delicata per i Paesi che hanno seguito la linea dettata dall’Arabia Saudita a fine 2014: e, cioè, non tagliare l’estrazione di greggio anche se i prezzi, per via della crisi economica, stavano precipitando. Una strategia che l’Arabia Saudita aveva già adottato con successo nel 1986, quando era riuscita a portare il prezzo del barile sotto i 10 dollari USA, determinando il collasso della produzione statunitense. Il bersaglio di oggi è sempre Washington.

Dopo 25 anni, grazie alle scoperte che hanno permesso l’estrazione massiccia di idrocarburi “non convenzionali” (e in particolare di shale oil e shale gas, il petrolio e il gas ottenuti frantumando scisti argillosi in profondità), gli Stati Uniti erano riusciti a toccare una punta produttiva di 1,2 milioni di barili al giorno: il primo mercato consumatore mondiale di energia era arrivato vicino al pareggio e all’autosufficienza. La mossa saudita è stata orchestrata per infliggere un colpo mortale a questo nuovo genere di concorrenza. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali, infatti, ha come protagoniste piccole e medie imprese senza grande capitalizzazione, fortemente dipendenti dal credito; e, soprattutto, a causa della dispendiosità delle tecniche di estrazione, produce guadagni solo se il petrolio si vende sopra i 60 dollari al barile.

A distanza di un anno dal rifiuto dell’Arabia Saudita, e quindi dei Paesi Opec, di tagliare la produzione per stabilizzare i prezzi, sono due le conseguenze non previste. La prima è che, nonostante la crescita della capacità estrattiva statunitense si sia sostanzialmente arrestata a fronte dell’aumento del 2,4% registrato nell’anno precedente, non c’è stato il fallimento delle imprese estrattive, che continuano a produrre anche se non crescono più. La seconda, più preoccupante per i sauditi, è il malumore crescente tra i Paesi Opec.

Ecuador, Venezuela, Iran e altri membri sono alle prese con gravi problemi di bilancio e mal tollerano il perdurare di questa strategia che impedisce il ritorno a livelli sostenibili del prezzo del barile. Una sofferenza che si allarga a diversi Paesi non Opec, come il Messico, la Russia e altri Stati ex sovietici rappresentati da Mosca. I problemi non si fermano però qui. Il manovratore saudita è stato avvertito dal Fondo Monetario Internazionale che, di questo passo, tra 5 anni le sue finanze rischieranno di virare in rosso, mentre i Paesi del Golfo, suoi stretti alleati, dopo avere perso 38 miliardi di dollari di entrate in un anno, avranno il bilancio in rosso del 13% già nel 2015.

Questa mossa strategica dell’Arabia Saudita finora ha portato vantaggi soltanto ai consumatori, che possono disporre di una benzina a prezzi ribassati, ma a lungo andare le conseguenze potrebbero essere gravi per tutti. Infatti, ciò che più sta risentendo della politica di sovrapproduzione e prezzi bassi è la fase di ricerca e aggiornamento tecnologico. Non investe più in ricerca il settore shale, ma non lo fa nemmeno quello “tradizionale”. Si pongono così le basi per una futura carestia di greggio, e quindi per grandi bolle speculative.

La diplomazia petrolifera è al lavoro per trovare soluzioni. Perché ciò accada, però, è necessario che i produttori storici riconoscano l’esistenza di un nuovo e potente competitor: l’industria delle estrazioni non convenzionali, con la quale fare i conti e magari anche qualche accordo. Il monopolio della gestione della produzione, e quindi dei prezzi, si è oggi seriamente incrinato, e non sarà l’Arabia Saudita a porvi rimedio da sola.

Ai consumatori non resta che aspettare che la ricerca sull’energia sostenibile faccia nuovi passi in avanti – e servono passi da gigante – perché la dipendenza dal petrolio cali. Una dipendenza che nell’ultimo secolo ha “giustificato” politiche nefaste, e che ha responsabilità non marginali nell’odierno caos internazionale.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Chi pensava che la Russia post-sovietica fosse condannata alla marginalità si sbagliava. Ma si sbagliava anche chi era convinto che Mosca potesse controbilanciare la potenza degli Stati Uniti, come ai tempi della Guerra Fredda. In realtà, il bipolarismo è stato irrimediabilmente consegnato alla storia: sotto la guida ferrea di Vladimir Putin, la Russia sta conquistando passo dopo passo un posto nel mondo multipolare. E non è poco.

I conflitti che oggi vedono coinvolta la Russia ci fanno capire come questo Paese stia ricostruendo e difendendo il suo spazio geopolitico storico, risalente ai tempi degli zar. Ucraina, Crimea e Siria sono collegate da un filo rosso che riguarda le frontiere con la NATO, il controllo del Mar Nero e la presenza navale nel Mediterraneo. Il blitz quasi indolore con il quale Mosca si è annessa la Crimea ha imposto il primo stop ai cambiamenti politici che avrebbero potuto mettere in pericolo le presenze ritenute strategiche dalla Russia.

La vicenda Ucraina è più complessa, perché la prevalenza di partiti ostili a Mosca nel Parlamento di Kiev avrebbe potuto far passare sotto traccia, implicita nel pacchetto di adesione all’UE, l’entrata del Paese nella NATO, e quindi lo spostamento dell’alleanza militare guidata dagli USA verso ovest. Nulla hanno risolto gli Accordi di Minsk, che pure hanno fatto scattare la tregua tra le minoranze russofile sostenute da Mosca e l’esercito ucraino: di fatto, nelle tre province confinanti è avvenuta una secessione che va bene alla Russia e lega le mani a Kiev.

In Siria, infine, ha avuto un peso decisivo il sostegno russo al governo di Damasco, alleato di ferro fin dai tempi dell’URSS, quando governava il padre di Bashar al-Assad. Non è certo una coincidenza che la porzione di Paese ancora controllata dal presidente alauita si sviluppi a ventaglio dalla base navale russa di Tartus, l’unico presidio di Mosca nel Mediterraneo.

Fin qui tutte mosse difensive, giocate bene sul piano militare ma con ricadute economiche negative sulla Russia per via dell’embargo occidentale. È proprio a partire da questo presupposto che sta maturando una politica di avvicinamento tra Mosca e Pechino potenzialmente in grado di cambiare l’ordine mondiale. I due Paesi stanno siglando importanti accordi sul piano energetico, dell’industria bellica, delle comunicazioni. La presenza di Putin a fianco di Xi Jinping durante l’imponente sfilata dello scorso 2 settembre a Pechino per i 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale è stata la più che simbolica dimostrazione di una partnership non limitata alla cooperazione tra due Stati, ma estesa anche alla politica internazionale. Non a caso, la Cina sta partecipando economicamente alla difesa di Assad in Siria.

Cos’hanno in comune i due giganti? Poco e molto. Poco perché il profilo demografico, culturale e produttivo della Cina è completamente diverso da quello di un Paese a cavallo tra Europa e Asia, spopolato e forte solo nelle commodities energetiche e minerarie, oltre che in alcuni settori dell’industria bellica. Molto perché si tratta di due regimi che, uno per natura e l’altro per scelta, censurano la libertà di opinione, perseguitano l’opposizione, sono parte di sistemi corruttivi tra i più oliati al mondo. Soprattutto, sono due potenze che stanno tentando di diventare egemoni a livello regionale e di proporsi come imprescindibili per la ricomposizione dell’ordine internazionale. La Russia e la Cina si vedono come potenze globali, e in buona parte lo sono già. O meglio, oggi lo è solo la Cina, ma la Russia farà il possibile per diventarlo: non perché possa davvero raggiungere la capacità industriale e finanziaria cinese, ma perché controlla uno sconfinato spazio geografico e dall’URSS ha ereditato un potere militare secondo solo a quello statunitense, insieme alla stessa bramosia di potenza.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

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Il prorompente settore energetico nato dalla possibilità di attingere alle riserve di shale gas e shale oil registra la prima vittima causata dal calo del prezzo del greggio. La texana WBH Energy, con sede a Austin, ha chiesto qualche giorno fa la protezione della legge sui fallimenti perché non regge la quotazione del petrolio, ormai scivolata attorno a quota 40 dollari USA al barile. È la prima vittima e non sarà l’ultima.

Le imprese nate attorno al miraggio del petrolio “sotto casa” sono di piccole e medie dimensioni, a differenza di quanto si potrebbe credere osservando i devastanti impatti ambientali delle loro attività. E hanno un bisogno quotidiano di investimenti per mantenere e implementare gli impianti che permettono di effettuare il fracking, ossia di frantumare in profondità le rocce contenenti idrocarburi. Queste rocce, infatti, si esauriscono velocemente e obbligano a una continua attività di prospezione e allargamento dei giacimenti. Si tratta di un’industria che divora denaro, preso a prestito a cuor leggero dalle banche statunitensi quando il petrolio viaggiava sopra i 100 dollari al barile. La sostenibilità finanziaria di queste imprese varia in base alla geologia dei siti, con un pareggio rispetto ai costi che può andare dai 30 agli 85 dollari al barile. Ciò significa che ormai oltre il 60% dell’industria energetica del fracking negli Stati Uniti lavora in perdita, e con il fardello di importanti rate di prestiti da restituire alle banche.

La grande concorrenza e la corsa statunitense all’estrazione di gas e petrolio non convenzionali hanno portato a una sovrapproduzione, diventata un boomerang per le nuove compagnie. Come insegnano i fondamentali dell’economia di mercato, se aumenta la produzione e parallelamente calano i consumi il crollo dei prezzi è garantito. La crisi annunciata dell’industria del fracking, che ha rappresentato il 40% degli investimenti USA negli ultimi anni, rischia di compromettere la crescita economica del Paese e di esporre di nuovo il sistema finanziario a una situazione di emergenza.

Paradossalmente, ma forse no, ciò che ha fatto precipitare la situazione è stata la mossa dell’Arabia Saudita: che ha diminuito il prezzo e aumentato le sue estrazioni di greggio. Una decisione che difficilmente può essere stata presa senza il beneplacito di Washington. Forse, in questa scelta hanno pesato più i fattori geopolitici che quelli economici. Nel senso che un petrolio a questi prezzi mette in difficoltà diversi Paesi ostili agli Stati Uniti, dalla Russia al Venezuela, dall’Iraq all’Iran. Mentre porta benefici a Paesi amici come quelli europei, o a partner d’affari come la Cina.

Forse questo è bastato ad affondare, almeno per ora, un’industria nazionale nascente che aveva contribuito a rompere la dipendenza degli USA dai tradizionali produttori di greggio. Per completare il dibattito in corso bisogna considerare anche un’altra voce, quella delle “sette sorelle” che controllano da un secolo le risorse energetiche mondiali. Le multinazionali del petrolio non si erano fatte prendere dal furore dello shale oil, e oggi sono sedute sulla riva del fiume a guardare i cadaveri delle giovani rivali che passano sotto i loro occhi.

La guerra per quella che troppo frettolosamente è stata definita “energia del passato”, gli idrocarburi, è più che mai in corso. E ancora non si intravvede quale potrebbe essere la fine.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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