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C’è un collegamento fra la notizia, molto amplificata dalla stampa, della causa vinta da 25 ragazzi contro lo Stato colombiano che non protegge come dovrebbe l’Amazzonia e i dati inquietanti dell’AIE, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, sull’aumento delle emissioni di CO2 a livello globale. Notizie positive, come quella colombiana, servono a rassicurarci e a far dimenticare la realtà dei fatti. Che sono impietosi. Secondo l’AIE, nel 2017 le emissioni responsabili del cambiamento climatico sono tornate a crescere: +1,4%, dopo tre anni in cui erano rimaste stabili. L’aumento ha fatto raggiungere alle emissioni il record storico di 32,3 miliardi di tonnellate emesse in un anno. Si tratta per giunta di un dato parziale, perché l’AIE misura solo le emissioni generate dalla produzione di energia e non l’incremento di CO2 dovuto all’agricoltura, all’allevamento di bestiame e alla deforestazione.

I motivi di questa crescita sono riconducibili in buona parte alla ripresa dell’economia mondiale e all’aumento dei consumi in India e in Cina. Ma il principale indiziato rimane la nostra dipendenza, ancora strettissima, dall’energia fossile. L’anno scorso il consumo di carbone è tornato ad aumentare, mentre quello di petrolio ha raddoppiato il ritmo di crescita rispetto a 10 anni fa. Questo grazie al boom del fracking e alle maggiori possibilità di sfruttare il greggio offshore. Gli obiettivi di riduzione fissati alla Conferenza sul Clima di Parigi restano un ricordo sfuocato rispetto alla sete di energia che si manifesta non appena il ciclo economico si rimette in moto.

Il dato dell’aumento delle emissioni non è omogeneo. Gli Stati Uniti, grazie ancora ai provvedimenti della precedente amministrazione e all’uso massiccio di shale gas, segnano mezzo punto in meno rispetto al 2016. India e Cina sono cresciute del 2%, che significa molto in termini assoluti, pur rallentando rispetto agli anni precedenti. La sorpresa vera arriva dall’Europa, che dopo essere stata la prima della classe negli anni 2000, nel 2017 ha aumentato le sue emissioni dell’1,5%. Complessivamente un dato inquietante, che porta l’AIE a scrivere nel suo rapporto che gli sforzi per combattere il cambiamento climatico sono insufficienti. L’allarme è confermato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, agenzia dell’ONU che ha constatato come gli ultimi tre anni siano stati i più caldi nella storia, preannunciando che il 2018 seguirà questa tendenza.

La concentrazione di CO2 nell’atmosfera, 400 parti per milione, va oltre qualsiasi variazione naturale che si sia registrata negli ultimi 800.000 anni. L’agenzia meteorologica dell’ONU stima che la situazione resterà su questi livelli per generazioni a venire. E qui torniamo ai ragazzi colombiani che hanno denunciato con successo lo Stato per i danni inflitti all’Amazzonia, in quanto ha leso i loro diritti generazionali: le future generazioni, anche se dovessero lavorare insieme per ridurre le emissioni di CO2, pagheranno comunque le conseguenze dell’uso dissennato di combustibili fossili fatto dalle generazioni precedenti. E non c’è da riporre grandi speranze, almeno sul breve periodo, nella cosiddetta rivoluzione delle rinnovabili, che resta ancora marginale e non fa la differenza. Senza dubbio la direzione resta quella del ridimensionamento dei consumi e della moltiplicazione della capacità installata di rinnovabili, ma ancora a lungo sarà il petrolio ad accompagnarci, insieme al carbone. Costano relativamente poco e ce n’è a sufficienza per portarci dritti nell’apocalisse climatica.

Immaginare un futuro diverso, e fare di conseguenza gli investimenti necessari, è uno sforzo sistematicamente rimandato a tempi migliori. Per questo fa tanto rumore la notizia dei bravissimi ragazzi che hanno vinto la causa contro uno Stato in nome dei diritti delle prossime generazioni, e così poco si parla di quei dati che implacabilmente ci ricordano che le cose, per ora, non sono affatto cambiate.

 

 

L’agenzia dell’OCSE per l’energia, l’AIE, ha appena pubblicato uno studio che indica chiaramente quali sono stati i vincitori e i vinti nella guerra del petrolio in corso da tempo tra gli storici produttori dell’OPEC e le imprese che sfruttano lo shale oil con la tecnica del fracking. Ed è un risultato impietoso per l’Arabia Saudita, che in questi anni ha voluto un aumento della produzione di greggio per abbassarne il prezzo, pensando così di danneggiare i produttori di shale oil che hanno costi di estrazione più alti.

La notizia è che gli Stati Uniti, produttori di petrolio “tradizionale” ma anche leader mondiali dello shale oil e dello shale gas, stanno per battere ogni record: tra 10 anni saranno i primi produttori mondiali di petrolio, superando quindi l’Arabia Saudita. Intanto hanno già conquistato il primato nell’estrazione di gas, scalzando la Russia. Gli USA tornano così a essere esportatori netti di energia, condizione che avevano perso nel 1953. E questo a discapito delle previsioni che fissavano il punto di non ritorno per il settore shale se il prezzo del barile fosse scivolato sotto i 60 dollari: non era così, dunque. Ma indubbiamente questa guerra ha lasciato ferite profonde anche nella prima potenza mondiale.

Washington ora deve affrontare problemi enormi, che riguardano sia l’eccessivo indebitamento degli operatori energetici sia i dubbi sul veloce esaurimento dei pozzi e sulla tenuta geologica delle zone sottoposte a fracking, una tecnica estrema che porta alla distruzione del sottosuolo. Questo scenario, ipotizzato dalle promesse elettorali di Donald Trump, che puntava al dominio energetico globale, potrebbe permettere agli Stati Uniti di allentare la loro presenza militare in Medio Oriente. Una notizia che crea ulteriori difficoltà all’Arabia Saudita, già reduce da una sconfitta storica in Siria: qui le bande sunnite sostenute direttamente o indirettamente da Riyad, Isis compreso, hanno fallito nel tentativo di spezzare il “corridoio” sciita che dall’Iran si estende senza soluzione di continuità fino al Libano. Inoltre l’Arabia Saudita deve fare i conti con l’impantanamento nel cortile di casa yemenita, dove non è riuscita a stroncare la ribellione degli Huthi sciiti.

Tutto ciò ha provocato un terremoto interno nella dinastia dei Saud, con l’epurazione di interi settori della nobiltà reale ormai allontanati dai ruoli di potere. Ma la crisi ha conseguenze anche regionali, a partire dal tentativo maldestro di provocare la rottura di quell’alleanza tra sunniti e hezbollah sciiti in Libano che finora ha garantito la fragile stabilità del Paese.

Il progressivo disimpegno statunitense, favorito dalla maggiore autonomia energetica, mette dunque a nudo i problemi dei sauditi, che si sono fatti alfieri di una lotta globale allo sciismo iraniano finendo in realtà con il rafforzarlo, anche alla luce dell’alleanza di Teheran con la Russia in Siria. Molti ipotizzano che si stia delineando un conflitto tra Arabia e Iran. Lo scontro avrebbe inevitabilmente una dimensione globale. È difficile, infatti, pensare che Stati Uniti, Israele e Russia possano rimanere fuori da una questione di tale portata.

Ma il report dell’AIE mette a fuoco anche un altro elemento che tutti i protagonisti dell’infinito grande gioco mediorientale stanno sottovalutando, e cioè il prossimo prevedibile calo in termini percentuali del consumo di energia da idrocarburi per via dell’aumento dell’uso di fonti rinnovabili. Entro il 2040 si stima che il fabbisogno di energia globale crescerà del 30%, ma circa la metà di questo aumento sarà coperto da fonti rinnovabili. Anzi, già dal 2020 per molti Paesi le rinnovabili saranno economicamente più convenienti rispetto al gas per la produzione di elettricità.

In conclusione, lo stretto intreccio fra energia e geopolitica ci accompagnerà ancora a lungo. Una relazione che ha permesso al mondo di progredire in molti campi, ma al prezzo di troppi disastri ambientali e umani. Alla fine ciò che farà la differenza saranno l’evoluzione tecnologica e il singolo cittadino, che sceglierà quale energia consumare o produrre autonomamente. Nel frattempo, i padroni dei rubinetti del greggio questo dato di fatto non lo vogliono nemmeno prendere in considerazione. Per la gioia dei fabbricanti di armi.

 

Qualcosa di inquietante comincia a emergere dal blindato mondo dello shale statunitense, cioè delle compagnie petrolifere che sfruttano giacimenti di metano e di greggio con la tecnica detta “di fratturazione idraulica”. In pratica, si estraggono idrocarburi attraverso la frantumazione a grande profondità di scisti argillosi che ne contengono quantità significative. Oggi i giganti dello shale gas sono gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Algeria, il Canada. Quelli dello shale oil sono sempre USA e Argentina, insieme a Russia e Australia.

Secondo gli esperti è negli Stati Uniti – dove questa industria estrattiva è nata e si è sviluppata – che si trovano le riserve più importanti: soprattutto attorno al gigantesco bacino di Permian, tra il Texas e il New Mexico, che nasconderebbe 60 miliardi di barili di greggio, pari alle riserve del più grande giacimento al mondo di petrolio tradizionale, quello di Ghawar in Arabia Saudita. Eppure è proprio negli States che da quattro mesi le previsioni dell’Agenzia governativa per l’energia, l’EIA, correggono al ribasso le stime sull’estrazione. Non senza polemiche, come quella avviata dal “re dello shale” Harold Hamm, consulente di Donald Trump, che ha accusato l’EIA di avere sovrastimato in passato le proprie previsioni del 100%. La correzione, per ora, parla di una minore produzione di circa 200.000 barili al mese di quel greggio che avrebbe dovuto rendere gli Stati Uniti non solo autosufficienti, ma addirittura esportatori.

Le discrepanze rispetto alle attese, e comunque l’oggettivo rallentamento nell’estrazione, pare siano dovute a questioni più pesanti rispetto a banali errori di calcolo compiuti in passato. La causa sarebbe piuttosto lo stress del Bacino, sottoposto a trivellazioni troppo ravvicinate. Un campanello d’allarme gigantesco, perché riporta subito al grande tema della stabilità geologica di quei terreni che in questi anni sono stati trasformati in una sorta di enorme forma di gruviera, con migliaia di trivellazioni in profondità che non solo hanno contaminato le falde acquifere e avvelenato i fiumi con i liquidi chimici utilizzati nel processo industriale, ma starebbero sostanzialmente rendendo il suolo complessivamente instabile.

La Pioneer Natural Resources, una delle principali società al mondo dello shale oil, in un suo recente report ha scritto di pozzi che stanno diventando difficili da gestire, lasciando intendere che potrebbe essersi verificato il cosiddetto “frac hit”, cioè il danneggiamento di pozzi adiacenti. Un fenomeno che è dovuto alla trivellazione intensiva in poco spazio e che in una prima fase provoca perdita di pressione. Sarebbe questo il risultato della febbre da shale degli anni scorsi, quando si è avuta una corsa senza precauzioni all’aumento dell’estrazione. Un’accelerazione scriteriata dovuta anche all’indebitamento crescente delle società coinvolte, che hanno subito grosse perdite per via del calo del prezzo del greggio derivato dalle politiche dell’OPEC. Con il petrolio a prezzi bassi, molte imprese del mondo shale non riuscivano nemmeno coprire i costi operativi.

Questa situazione, per ora tenuta relativamente riservata, potrebbe mettere in crisi i piani energetici dell’amministrazione Trump, che si basano sul rifiuto di ogni compromesso per contrastare il cambiamento climatico e sul raggiungimento dell’autonomia energetica attraverso i combustibili fossili. Gli Stati Uniti, e anche il Canada, rischiano di pagare prezzi altissimi alla diffusione di queste modalità invasive e distruttive di estrazione petrolifera, avviando vastissimi territori a un futuro da incubo, tra inquinamento, fragilità geologica e sismicità indotta in costante aumento.

Una delle frontiere che dovrebbero essere invalicabili è stata superata: quella che sacrifica la vita e la Terra, in senso lato, a un modello di consumo fuori controllo. Almeno si spera che l’esempio di ciò che sta accadendo nelle pianure statunitensi sia di monito per gli altri Paesi che hanno riserve di questo tipo, ma che sono ancora in tempo per ragionare sulla reale convenienza del loro sfruttamento.

 

Alfredo Somoza per #Esteri #RadioPopolare

 

Il prorompente settore energetico nato dalla possibilità di attingere alle riserve di shale gas e shale oil registra la prima vittima causata dal calo del prezzo del greggio. La texana WBH Energy, con sede a Austin, ha chiesto qualche giorno fa la protezione della legge sui fallimenti perché non regge la quotazione del petrolio, ormai scivolata attorno a quota 40 dollari USA al barile. È la prima vittima e non sarà l’ultima.

Le imprese nate attorno al miraggio del petrolio “sotto casa” sono di piccole e medie dimensioni, a differenza di quanto si potrebbe credere osservando i devastanti impatti ambientali delle loro attività. E hanno un bisogno quotidiano di investimenti per mantenere e implementare gli impianti che permettono di effettuare il fracking, ossia di frantumare in profondità le rocce contenenti idrocarburi. Queste rocce, infatti, si esauriscono velocemente e obbligano a una continua attività di prospezione e allargamento dei giacimenti. Si tratta di un’industria che divora denaro, preso a prestito a cuor leggero dalle banche statunitensi quando il petrolio viaggiava sopra i 100 dollari al barile. La sostenibilità finanziaria di queste imprese varia in base alla geologia dei siti, con un pareggio rispetto ai costi che può andare dai 30 agli 85 dollari al barile. Ciò significa che ormai oltre il 60% dell’industria energetica del fracking negli Stati Uniti lavora in perdita, e con il fardello di importanti rate di prestiti da restituire alle banche.

La grande concorrenza e la corsa statunitense all’estrazione di gas e petrolio non convenzionali hanno portato a una sovrapproduzione, diventata un boomerang per le nuove compagnie. Come insegnano i fondamentali dell’economia di mercato, se aumenta la produzione e parallelamente calano i consumi il crollo dei prezzi è garantito. La crisi annunciata dell’industria del fracking, che ha rappresentato il 40% degli investimenti USA negli ultimi anni, rischia di compromettere la crescita economica del Paese e di esporre di nuovo il sistema finanziario a una situazione di emergenza.

Paradossalmente, ma forse no, ciò che ha fatto precipitare la situazione è stata la mossa dell’Arabia Saudita: che ha diminuito il prezzo e aumentato le sue estrazioni di greggio. Una decisione che difficilmente può essere stata presa senza il beneplacito di Washington. Forse, in questa scelta hanno pesato più i fattori geopolitici che quelli economici. Nel senso che un petrolio a questi prezzi mette in difficoltà diversi Paesi ostili agli Stati Uniti, dalla Russia al Venezuela, dall’Iraq all’Iran. Mentre porta benefici a Paesi amici come quelli europei, o a partner d’affari come la Cina.

Forse questo è bastato ad affondare, almeno per ora, un’industria nazionale nascente che aveva contribuito a rompere la dipendenza degli USA dai tradizionali produttori di greggio. Per completare il dibattito in corso bisogna considerare anche un’altra voce, quella delle “sette sorelle” che controllano da un secolo le risorse energetiche mondiali. Le multinazionali del petrolio non si erano fatte prendere dal furore dello shale oil, e oggi sono sedute sulla riva del fiume a guardare i cadaveri delle giovani rivali che passano sotto i loro occhi.

La guerra per quella che troppo frettolosamente è stata definita “energia del passato”, gli idrocarburi, è più che mai in corso. E ancora non si intravvede quale potrebbe essere la fine.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Da mesi la diplomazia europea e quella statunitense stanno lavorando con incontri riservati a un accordo quadro per gli scambi di capitali, merci e servizi tra gli Stati Uniti e l´Unione Europea. Il più grande accordo di tutti i tempi, secondo il Sole 24 Ore, finora praticamente l´unico tra i grandi media a seguire la trattativa.

Davanti all´impantanamento della trattativa globale in ambito WTO (il cosiddetto Doha Round), questo accordo stabilisce nuove regole ultraliberiste all´interno dell´area del pianeta in cui “girano” quasi due terzi dell’economia mondiale. Secondo i negoziatori (ma nessuno sa chi siano né quale mandato abbiano ricevuto), dovrebbe portare enormi vantaggi a entrambi i partner, e in particolare all´Europa, con un aumento degli scambi e incrementi del PIL e dell´occupazione.

Ma il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership, questo il nome dell’accordo – è qualcosa di più di un semplice negoziato di liberalizzazione commerciale. Rimette in discussione ancora una volta il primato della politica, e quindi della democrazia, nei confronti dei poteri forti dell´economia. Se venisse approvato dal Parlamento europeo e da quello statunitense, andrebbe infatti a incidere sui diritti del lavoro e dell’ambiente e anche su quelli di cittadinanza.

Il primo obiettivo infatti non saranno le barriere tariffarie, già abbastanza basse, bensì quelle “non tariffarie”, che riguardano gli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l´omologazione delle normative porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti in Europa, molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce.

Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l´acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l´acqua è una merce come un´altra. Il nocciolo dell´accordo, che si vorrebbe chiudere entro il 2014, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata, grazie alla costituzione di un organismo di risoluzione delle controversie al quale le aziende potranno appellarsi per rivalersi su governi colpevoli, a loro dire, di averle ostacolate. Da questo punto di vista, qualsiasi regolamentazione pubblica rischierà di essere messa in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati.

Non è la prima volta che si cerca di concludere un accordo di questo tipo. Già negli anni ’90 qualcosa di simile fu respinto (l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti); e anche nelle Americhe naufragò l´ALCA proposto da George W. Bush ai Paesi latinoamericani, basato sugli stessi principi.

Uno dei settori più delicati che potrebbero essere modificati dall´accordo TTIP è quello dell´alimentazione, con l´impossibilità – per esempio – di vietare la diffusione degli OGM, perfettamente legali negli Stati Uniti. Ma anche l´uso di ormoni nell’allevamento o di pesticidi in agricoltura. E potrebbe venir meno il principio della tutela della diversità e della territorialità del prodotto.

Acqua, trasporti ed energia sono invece i settori nei quali sarebbe più alto il rischio di privatizzazione, e le comunità che si opponessero sarebbero passibili di denuncia davanti al tribunale competente. Sull´energia si pone anche il problema dell’estrazione dello shale gas (il gas di scisto) attraverso il cosiddetto fracking, cioè la frantumazione in profondità, che tante sciagure ambientali sta creando negli Stati Uniti. Il divieto esistente in Francia per questo tipo di estrazione potrebbe essere contestato dalle imprese che si ritenessero danneggiate. Anche le regole di tutela della privacy potrebbero essere contestate dai giganti statunitensi della comunicazione.

La vittima più clamorosa di questi accordi, però, sarebbe la democrazia. I cittadini, dalla firma dei trattati in poi, non avrebbero più potere di scelta autonoma in materia ambientale, economica e sociale perché vincolati a monte. Addirittura il diritto al lavoro potrebbe essere messo in discussione, se dovesse prevalere il diritto di assumere secondo le condizioni contrattuali degli USA, Paese nel quale non esistono contratti nazionali, e che non ha sottoscritto le normative antidiscriminatorie per motivi di genere o etnia.

Con il TTIP l´Europa, già duramente provata dalle politiche di austerity che limitano seriamente il margine di manovra dei governi nazionali, si avvicinerebbe sempre più al modello sociale ed economico statunitense. Una situazione già sperimentata dal Messico che nel 1994, sottoscrivendo gli accordi NAFTA con USA e Canada, ipotecò seriamente la sua sovranità politica ed economica. Oggi, tra il Messico che voleva diventare “socio” degli Stati Uniti e il ricco vicino del Nord si alza un muro controllato a vista.

L´Europa per fortuna non è il Messico. Ma se le logiche sono le stesse, anche noi rischiamo che l´originale modello universalistico dei diritti, costruito in decenni di lotte sociali, ambientali e sindacali, diventi storia passata. L´Europa “socia” degli Stati Uniti, a queste condizioni, metterebbe fine al sogno della costruzione di un´area di civiltà, valori condivisi e diritti reciprocamente riconosciuti. Ora l´ultima parola passa a una delle istituzioni più ignorate dai poteri forti: il Parlamento europeo, l´assise che oggi rappresenta l´unica istituzione comunitaria con un mandato democratico. Mandato che sarà rinnovato il prossimo 25 maggio. Praticamente l’ultima chiamata per salvare e cambiare la situazione, e per rilanciare il percorso dell’Europa su nuove basi, dicendo no da subito al TTPI.

Alfredo Luis Somoza (Candidato Circoscrizione Nord Ovest – Elezioni Europee 2014 – Lista Altra Europa con Tsipras)

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Il 25 giugno 1876 i guerrieri Sioux e Cheyenne guidati da Toro Seduto sterminarono presso il fiume Little Bighorn il Settimo Cavalleggeri del generale Custer. Era simbolicamente l’ultima vittoria di un popolo che stava scomparendo, incalzato da un modello di vita e di sviluppo che aveva bisogno di quantità illimitate di terre, di minerali, di acqua, di animali. I discendenti dei guerrieri di Toro Seduto vivono oggi in riserve del Nord e Sud Dakota con speranze di vita da Terzo mondo, decimati dall’abbandono, dall’alcolismo, dalla disoccupazione, dall’essere stati sconfitti dalla storia. Il Dakota è stato questo nella storia americana: una terra di grandi lotte e di grandi sofferenze. Oggi qualcosa sta cambiando velocemente grazie alla scoperta di importantissimi giacimenti di Shale gas, l’ultima frontiera nell’estrazione di energia fossile. Con una tecnica molto contestata dagli ambientalisti, si frantumano in profondità dei particolari scisti argillosi che al loro interno contengono gas metano. Questo processo, detto fracking o fratturazione idraulica, è alimentato da milioni di litri d’acqua mescolata ad agenti chimici che vengono iniettati ad alta pressione nel sottosuolo per spezzare le rocce. Solo metà del liquido utilizzato viene recuperato e smaltito, il resto rimane nel sottosuolo. C’è inoltre il sospetto che questa tecnica di frantumazione delle rocce in profondità possa incidere sulla sismicità e infatti non viene utilizzato in zone ad alto rischio di terremoti. I Paesi nei quali si trovano i maggiori giacimenti di Shale gas sono Canada e Stati Uniti, Argentina e Paraguay, Sudafrica e Algeria, Germania e Francia. Se da un giacimento tradizionale si riesce a recuperare il 70% del gas presente, dagli scisti si recupera a malapena il 30%, con la conseguente dispersione nell’atmosfera di grandi masse di gas. Ma tanto basta in un mondo nel quale, senza troppo clamore, la scorta di energia fossile volge progressivamente alla fine. Ormai il petrolio viene estratto da giacimenti marini situati a migliaia di metri di profondità e il gas si recupera frantumando rocce del sottosuolo. Nel vero senso del concetto, stiamo raschiando il fondo del barile, ma culturalmente ci sembra scontato che ci sia l’energia elettrica per le lampadine, il gas per il riscaldamento, la benzina per la macchina. Nel mondo che verrà saranno vincenti non gli Stati oggi ricchi di petrolio o di gas, ma quelli che per tempo avranno investito sulle fonti rinnovabili e spezzato la dipendenza dagli idrocarburi, che nel frattempo saranno sempre più rari e costosi. Nella Riserva di Pine Ridge, le donne Sioux Lakota hanno iniziato una lotta perché vengano cacciate via dalla riserva le quattro fabbriche di alcolici che speculano sulla disgrazia del loro popolo. Dicono queste donne che non c’è futuro se viene distrutta la loro terra e che la prima cosa da fare è liberare gli indiani d’America dal torpore dall’alcol nel quale sono stati indotti perché non vedessero e non sentissero che cosa succedeva alle praterie dove una volta correva libero il bisonte. Questo orgoglio residuo di un popolo che considera la terra come la propria madre e al quale, dopo il furto delle praterie, verrà sottratto anche il sottosuolo interessa tutti noi. Senza terra non c’è futuro per l’umanità  e chi la sfrutta per motivi economici sta superando la soglia di non ritorno. I Sioux Lakota stanno dissotterrando l’ascia di guerra, ma da soli non possono farcela.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)