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Era inevitabile che la concorrenza tra i produttori di gas prima o poi coinvolgesse l’Europa, il primo mercato acquirente mondiale. Meno scontato che da un lato ci fosse la Russia, storico fornitore di metano via gasdotto, e dall’altra gli Stati Uniti, che fino a pochi anni fa erano a malapena autosufficienti. A mescolare le carte è stata la rivoluzione dello shale gas, e cioè di quel gas che si presenta intrappolato nelle argille anziché in giacimenti “convenzionali”: grazie alla scoperta di giganteschi giacimenti di questo genere nelle pianure centrali degli States, e all’adozione di nuove tecniche di sfruttamento soprassedendo sulle gravi ricadute negative per l’ambiente, Washington è diventata una potenza esportatrice di energia fossile.

Oggi negli Stati Uniti si estrae più petrolio che in Arabia Saudita e più gas che in Russia. Questo boom ha portato, tre anni fa, alla cancellazione del divieto di esportare petrolio e gas: una limitazione che risaliva ai tempi in cui il Paese era fortemente dipendente dall’importazione di fonti energetiche estere. Per gli esportatori statunitensi, tutte imprese private, si è così posto il problema del trasporto del gas via mare, e dunque della sua liquefazione. Gli impianti per liquefazione si sono già moltiplicati in Louisiana, Texas e Maryland, mentre diversi altri sono in cantiere.

Nell’Unione Europea invece la produzione è in declino e il continente è sempre più dipendente dalle importazioni. Gli acquisti sul mercato statunitense finora sono rimasti minimi: solo l’equivalente di 3 miliardi di metri cubi nel 2017, a fronte di un consumo di circa 500 miliardi. La Russia, attraverso il gigante Gazprom, da sola fornisce 200 miliardi di metri cubi, oltre il 40% del consumo europeo. La dipendenza dalla Russia è figlia delle leggi del mercato e non è certo dovuta alla mancanza di impianti di rigassificazione, anzi: i quasi 30 impianti europei vengono usati in media solo al 25% della loro capacità. Il gas statunitense sta infatti dirigendosi prevalentemente in Messico e in Asia, dove spunta prezzi migliori rispetto a quelli che potrebbe ottenere nel Vecchio Continente, che ha molte alternative a disposizione. Perciò le pressioni di Donald Trump affinché i Paesi europei aumentino le importazioni di shale gas made in USA cadono nel vuoto. Quello delle fonti energetiche è un mercato di operatori privati, che non hanno convenienza a fare sconti: gli europei non sono disposti a comprare a un prezzo più alto rispetto a quello offerto dai concorrenti. L’offensiva del gas, con la quale Washington vorrebbe controbilanciare la presenza russa, crolla proprio davanti alla politica dei prezzi, sulla quale non ci sono strumenti di intervento.

Gli unici Paesi che hanno dato segnali positivi agli Stati Uniti lo hanno fatto per motivi geopolitici e non economici. La Germania sta costruendo un terminal di rigassificazione che non è giustificato dall’andamento del mercato, ma è una risposta a Trump che ha accusato Berlino di essere sotto il controllo di Mosca dal punto di vista energetico. Poi ci sono Lituania e Polonia, che storicamente dipendevano al 100% dal metano russo e puntano a crearsi un’alternativa.

Più interessante è l’impatto che lo sbarco statunitense sul mercato europeo del gas ha avuto sulla politica dei prezzi dei fornitori storici. Russia, Algeria e Norvegia hanno rivisto le loro politiche, finora quasi da monopoliste, per venire incontro ad alcune richieste dei clienti, per esempio la fine dell’indicizzazione dei prezzi del gas al costo del petrolio. Dunque per l’Europa la concorrenza energetica rappresenta sicuramente un vantaggio, mentre per gli Stati Uniti è un buco nell’acqua: anziché penetrare nel mercato più ricco del mondo, hanno stimolato i Paesi concorrenti a migliorare la loro offerta. L’idea di Donald Trump, e cioè che le questioni geopolitiche potessero pesare più di quelle economiche, si è dimostrata solo un’illusione: è l’ennesima constatazione dell’allontanamento progressivo degli USA dall’Europa, al quale fa da contraltare un avvicinamento tra gli Stati Uniti e l’Oriente. Dopo 500 anni di protagonismo, l’Atlantico sta progressivamente perdendo la sua centralità a vantaggio del Pacifico.

 

C’è un collegamento fra la notizia, molto amplificata dalla stampa, della causa vinta da 25 ragazzi contro lo Stato colombiano che non protegge come dovrebbe l’Amazzonia e i dati inquietanti dell’AIE, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, sull’aumento delle emissioni di CO2 a livello globale. Notizie positive, come quella colombiana, servono a rassicurarci e a far dimenticare la realtà dei fatti. Che sono impietosi. Secondo l’AIE, nel 2017 le emissioni responsabili del cambiamento climatico sono tornate a crescere: +1,4%, dopo tre anni in cui erano rimaste stabili. L’aumento ha fatto raggiungere alle emissioni il record storico di 32,3 miliardi di tonnellate emesse in un anno. Si tratta per giunta di un dato parziale, perché l’AIE misura solo le emissioni generate dalla produzione di energia e non l’incremento di CO2 dovuto all’agricoltura, all’allevamento di bestiame e alla deforestazione.

I motivi di questa crescita sono riconducibili in buona parte alla ripresa dell’economia mondiale e all’aumento dei consumi in India e in Cina. Ma il principale indiziato rimane la nostra dipendenza, ancora strettissima, dall’energia fossile. L’anno scorso il consumo di carbone è tornato ad aumentare, mentre quello di petrolio ha raddoppiato il ritmo di crescita rispetto a 10 anni fa. Questo grazie al boom del fracking e alle maggiori possibilità di sfruttare il greggio offshore. Gli obiettivi di riduzione fissati alla Conferenza sul Clima di Parigi restano un ricordo sfuocato rispetto alla sete di energia che si manifesta non appena il ciclo economico si rimette in moto.

Il dato dell’aumento delle emissioni non è omogeneo. Gli Stati Uniti, grazie ancora ai provvedimenti della precedente amministrazione e all’uso massiccio di shale gas, segnano mezzo punto in meno rispetto al 2016. India e Cina sono cresciute del 2%, che significa molto in termini assoluti, pur rallentando rispetto agli anni precedenti. La sorpresa vera arriva dall’Europa, che dopo essere stata la prima della classe negli anni 2000, nel 2017 ha aumentato le sue emissioni dell’1,5%. Complessivamente un dato inquietante, che porta l’AIE a scrivere nel suo rapporto che gli sforzi per combattere il cambiamento climatico sono insufficienti. L’allarme è confermato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, agenzia dell’ONU che ha constatato come gli ultimi tre anni siano stati i più caldi nella storia, preannunciando che il 2018 seguirà questa tendenza.

La concentrazione di CO2 nell’atmosfera, 400 parti per milione, va oltre qualsiasi variazione naturale che si sia registrata negli ultimi 800.000 anni. L’agenzia meteorologica dell’ONU stima che la situazione resterà su questi livelli per generazioni a venire. E qui torniamo ai ragazzi colombiani che hanno denunciato con successo lo Stato per i danni inflitti all’Amazzonia, in quanto ha leso i loro diritti generazionali: le future generazioni, anche se dovessero lavorare insieme per ridurre le emissioni di CO2, pagheranno comunque le conseguenze dell’uso dissennato di combustibili fossili fatto dalle generazioni precedenti. E non c’è da riporre grandi speranze, almeno sul breve periodo, nella cosiddetta rivoluzione delle rinnovabili, che resta ancora marginale e non fa la differenza. Senza dubbio la direzione resta quella del ridimensionamento dei consumi e della moltiplicazione della capacità installata di rinnovabili, ma ancora a lungo sarà il petrolio ad accompagnarci, insieme al carbone. Costano relativamente poco e ce n’è a sufficienza per portarci dritti nell’apocalisse climatica.

Immaginare un futuro diverso, e fare di conseguenza gli investimenti necessari, è uno sforzo sistematicamente rimandato a tempi migliori. Per questo fa tanto rumore la notizia dei bravissimi ragazzi che hanno vinto la causa contro uno Stato in nome dei diritti delle prossime generazioni, e così poco si parla di quei dati che implacabilmente ci ricordano che le cose, per ora, non sono affatto cambiate.

 

 

L’agenzia dell’OCSE per l’energia, l’AIE, ha appena pubblicato uno studio che indica chiaramente quali sono stati i vincitori e i vinti nella guerra del petrolio in corso da tempo tra gli storici produttori dell’OPEC e le imprese che sfruttano lo shale oil con la tecnica del fracking. Ed è un risultato impietoso per l’Arabia Saudita, che in questi anni ha voluto un aumento della produzione di greggio per abbassarne il prezzo, pensando così di danneggiare i produttori di shale oil che hanno costi di estrazione più alti.

La notizia è che gli Stati Uniti, produttori di petrolio “tradizionale” ma anche leader mondiali dello shale oil e dello shale gas, stanno per battere ogni record: tra 10 anni saranno i primi produttori mondiali di petrolio, superando quindi l’Arabia Saudita. Intanto hanno già conquistato il primato nell’estrazione di gas, scalzando la Russia. Gli USA tornano così a essere esportatori netti di energia, condizione che avevano perso nel 1953. E questo a discapito delle previsioni che fissavano il punto di non ritorno per il settore shale se il prezzo del barile fosse scivolato sotto i 60 dollari: non era così, dunque. Ma indubbiamente questa guerra ha lasciato ferite profonde anche nella prima potenza mondiale.

Washington ora deve affrontare problemi enormi, che riguardano sia l’eccessivo indebitamento degli operatori energetici sia i dubbi sul veloce esaurimento dei pozzi e sulla tenuta geologica delle zone sottoposte a fracking, una tecnica estrema che porta alla distruzione del sottosuolo. Questo scenario, ipotizzato dalle promesse elettorali di Donald Trump, che puntava al dominio energetico globale, potrebbe permettere agli Stati Uniti di allentare la loro presenza militare in Medio Oriente. Una notizia che crea ulteriori difficoltà all’Arabia Saudita, già reduce da una sconfitta storica in Siria: qui le bande sunnite sostenute direttamente o indirettamente da Riyad, Isis compreso, hanno fallito nel tentativo di spezzare il “corridoio” sciita che dall’Iran si estende senza soluzione di continuità fino al Libano. Inoltre l’Arabia Saudita deve fare i conti con l’impantanamento nel cortile di casa yemenita, dove non è riuscita a stroncare la ribellione degli Huthi sciiti.

Tutto ciò ha provocato un terremoto interno nella dinastia dei Saud, con l’epurazione di interi settori della nobiltà reale ormai allontanati dai ruoli di potere. Ma la crisi ha conseguenze anche regionali, a partire dal tentativo maldestro di provocare la rottura di quell’alleanza tra sunniti e hezbollah sciiti in Libano che finora ha garantito la fragile stabilità del Paese.

Il progressivo disimpegno statunitense, favorito dalla maggiore autonomia energetica, mette dunque a nudo i problemi dei sauditi, che si sono fatti alfieri di una lotta globale allo sciismo iraniano finendo in realtà con il rafforzarlo, anche alla luce dell’alleanza di Teheran con la Russia in Siria. Molti ipotizzano che si stia delineando un conflitto tra Arabia e Iran. Lo scontro avrebbe inevitabilmente una dimensione globale. È difficile, infatti, pensare che Stati Uniti, Israele e Russia possano rimanere fuori da una questione di tale portata.

Ma il report dell’AIE mette a fuoco anche un altro elemento che tutti i protagonisti dell’infinito grande gioco mediorientale stanno sottovalutando, e cioè il prossimo prevedibile calo in termini percentuali del consumo di energia da idrocarburi per via dell’aumento dell’uso di fonti rinnovabili. Entro il 2040 si stima che il fabbisogno di energia globale crescerà del 30%, ma circa la metà di questo aumento sarà coperto da fonti rinnovabili. Anzi, già dal 2020 per molti Paesi le rinnovabili saranno economicamente più convenienti rispetto al gas per la produzione di elettricità.

In conclusione, lo stretto intreccio fra energia e geopolitica ci accompagnerà ancora a lungo. Una relazione che ha permesso al mondo di progredire in molti campi, ma al prezzo di troppi disastri ambientali e umani. Alla fine ciò che farà la differenza saranno l’evoluzione tecnologica e il singolo cittadino, che sceglierà quale energia consumare o produrre autonomamente. Nel frattempo, i padroni dei rubinetti del greggio questo dato di fatto non lo vogliono nemmeno prendere in considerazione. Per la gioia dei fabbricanti di armi.

 

Qualcosa di inquietante comincia a emergere dal blindato mondo dello shale statunitense, cioè delle compagnie petrolifere che sfruttano giacimenti di metano e di greggio con la tecnica detta “di fratturazione idraulica”. In pratica, si estraggono idrocarburi attraverso la frantumazione a grande profondità di scisti argillosi che ne contengono quantità significative. Oggi i giganti dello shale gas sono gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Algeria, il Canada. Quelli dello shale oil sono sempre USA e Argentina, insieme a Russia e Australia.

Secondo gli esperti è negli Stati Uniti – dove questa industria estrattiva è nata e si è sviluppata – che si trovano le riserve più importanti: soprattutto attorno al gigantesco bacino di Permian, tra il Texas e il New Mexico, che nasconderebbe 60 miliardi di barili di greggio, pari alle riserve del più grande giacimento al mondo di petrolio tradizionale, quello di Ghawar in Arabia Saudita. Eppure è proprio negli States che da quattro mesi le previsioni dell’Agenzia governativa per l’energia, l’EIA, correggono al ribasso le stime sull’estrazione. Non senza polemiche, come quella avviata dal “re dello shale” Harold Hamm, consulente di Donald Trump, che ha accusato l’EIA di avere sovrastimato in passato le proprie previsioni del 100%. La correzione, per ora, parla di una minore produzione di circa 200.000 barili al mese di quel greggio che avrebbe dovuto rendere gli Stati Uniti non solo autosufficienti, ma addirittura esportatori.

Le discrepanze rispetto alle attese, e comunque l’oggettivo rallentamento nell’estrazione, pare siano dovute a questioni più pesanti rispetto a banali errori di calcolo compiuti in passato. La causa sarebbe piuttosto lo stress del Bacino, sottoposto a trivellazioni troppo ravvicinate. Un campanello d’allarme gigantesco, perché riporta subito al grande tema della stabilità geologica di quei terreni che in questi anni sono stati trasformati in una sorta di enorme forma di gruviera, con migliaia di trivellazioni in profondità che non solo hanno contaminato le falde acquifere e avvelenato i fiumi con i liquidi chimici utilizzati nel processo industriale, ma starebbero sostanzialmente rendendo il suolo complessivamente instabile.

La Pioneer Natural Resources, una delle principali società al mondo dello shale oil, in un suo recente report ha scritto di pozzi che stanno diventando difficili da gestire, lasciando intendere che potrebbe essersi verificato il cosiddetto “frac hit”, cioè il danneggiamento di pozzi adiacenti. Un fenomeno che è dovuto alla trivellazione intensiva in poco spazio e che in una prima fase provoca perdita di pressione. Sarebbe questo il risultato della febbre da shale degli anni scorsi, quando si è avuta una corsa senza precauzioni all’aumento dell’estrazione. Un’accelerazione scriteriata dovuta anche all’indebitamento crescente delle società coinvolte, che hanno subito grosse perdite per via del calo del prezzo del greggio derivato dalle politiche dell’OPEC. Con il petrolio a prezzi bassi, molte imprese del mondo shale non riuscivano nemmeno coprire i costi operativi.

Questa situazione, per ora tenuta relativamente riservata, potrebbe mettere in crisi i piani energetici dell’amministrazione Trump, che si basano sul rifiuto di ogni compromesso per contrastare il cambiamento climatico e sul raggiungimento dell’autonomia energetica attraverso i combustibili fossili. Gli Stati Uniti, e anche il Canada, rischiano di pagare prezzi altissimi alla diffusione di queste modalità invasive e distruttive di estrazione petrolifera, avviando vastissimi territori a un futuro da incubo, tra inquinamento, fragilità geologica e sismicità indotta in costante aumento.

Una delle frontiere che dovrebbero essere invalicabili è stata superata: quella che sacrifica la vita e la Terra, in senso lato, a un modello di consumo fuori controllo. Almeno si spera che l’esempio di ciò che sta accadendo nelle pianure statunitensi sia di monito per gli altri Paesi che hanno riserve di questo tipo, ma che sono ancora in tempo per ragionare sulla reale convenienza del loro sfruttamento.

 

Alfredo Somoza per #Esteri #RadioPopolare

 

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Pubblicato: 16 novembre 2015 in Mondo
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L’incontro tecnico dell’Opec tenutosi a fine ottobre a Vienna ha fotografato una situazione molto delicata per i Paesi che hanno seguito la linea dettata dall’Arabia Saudita a fine 2014: e, cioè, non tagliare l’estrazione di greggio anche se i prezzi, per via della crisi economica, stavano precipitando. Una strategia che l’Arabia Saudita aveva già adottato con successo nel 1986, quando era riuscita a portare il prezzo del barile sotto i 10 dollari USA, determinando il collasso della produzione statunitense. Il bersaglio di oggi è sempre Washington.

Dopo 25 anni, grazie alle scoperte che hanno permesso l’estrazione massiccia di idrocarburi “non convenzionali” (e in particolare di shale oil e shale gas, il petrolio e il gas ottenuti frantumando scisti argillosi in profondità), gli Stati Uniti erano riusciti a toccare una punta produttiva di 1,2 milioni di barili al giorno: il primo mercato consumatore mondiale di energia era arrivato vicino al pareggio e all’autosufficienza. La mossa saudita è stata orchestrata per infliggere un colpo mortale a questo nuovo genere di concorrenza. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali, infatti, ha come protagoniste piccole e medie imprese senza grande capitalizzazione, fortemente dipendenti dal credito; e, soprattutto, a causa della dispendiosità delle tecniche di estrazione, produce guadagni solo se il petrolio si vende sopra i 60 dollari al barile.

A distanza di un anno dal rifiuto dell’Arabia Saudita, e quindi dei Paesi Opec, di tagliare la produzione per stabilizzare i prezzi, sono due le conseguenze non previste. La prima è che, nonostante la crescita della capacità estrattiva statunitense si sia sostanzialmente arrestata a fronte dell’aumento del 2,4% registrato nell’anno precedente, non c’è stato il fallimento delle imprese estrattive, che continuano a produrre anche se non crescono più. La seconda, più preoccupante per i sauditi, è il malumore crescente tra i Paesi Opec.

Ecuador, Venezuela, Iran e altri membri sono alle prese con gravi problemi di bilancio e mal tollerano il perdurare di questa strategia che impedisce il ritorno a livelli sostenibili del prezzo del barile. Una sofferenza che si allarga a diversi Paesi non Opec, come il Messico, la Russia e altri Stati ex sovietici rappresentati da Mosca. I problemi non si fermano però qui. Il manovratore saudita è stato avvertito dal Fondo Monetario Internazionale che, di questo passo, tra 5 anni le sue finanze rischieranno di virare in rosso, mentre i Paesi del Golfo, suoi stretti alleati, dopo avere perso 38 miliardi di dollari di entrate in un anno, avranno il bilancio in rosso del 13% già nel 2015.

Questa mossa strategica dell’Arabia Saudita finora ha portato vantaggi soltanto ai consumatori, che possono disporre di una benzina a prezzi ribassati, ma a lungo andare le conseguenze potrebbero essere gravi per tutti. Infatti, ciò che più sta risentendo della politica di sovrapproduzione e prezzi bassi è la fase di ricerca e aggiornamento tecnologico. Non investe più in ricerca il settore shale, ma non lo fa nemmeno quello “tradizionale”. Si pongono così le basi per una futura carestia di greggio, e quindi per grandi bolle speculative.

La diplomazia petrolifera è al lavoro per trovare soluzioni. Perché ciò accada, però, è necessario che i produttori storici riconoscano l’esistenza di un nuovo e potente competitor: l’industria delle estrazioni non convenzionali, con la quale fare i conti e magari anche qualche accordo. Il monopolio della gestione della produzione, e quindi dei prezzi, si è oggi seriamente incrinato, e non sarà l’Arabia Saudita a porvi rimedio da sola.

Ai consumatori non resta che aspettare che la ricerca sull’energia sostenibile faccia nuovi passi in avanti – e servono passi da gigante – perché la dipendenza dal petrolio cali. Una dipendenza che nell’ultimo secolo ha “giustificato” politiche nefaste, e che ha responsabilità non marginali nell’odierno caos internazionale.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Il prorompente settore energetico nato dalla possibilità di attingere alle riserve di shale gas e shale oil registra la prima vittima causata dal calo del prezzo del greggio. La texana WBH Energy, con sede a Austin, ha chiesto qualche giorno fa la protezione della legge sui fallimenti perché non regge la quotazione del petrolio, ormai scivolata attorno a quota 40 dollari USA al barile. È la prima vittima e non sarà l’ultima.

Le imprese nate attorno al miraggio del petrolio “sotto casa” sono di piccole e medie dimensioni, a differenza di quanto si potrebbe credere osservando i devastanti impatti ambientali delle loro attività. E hanno un bisogno quotidiano di investimenti per mantenere e implementare gli impianti che permettono di effettuare il fracking, ossia di frantumare in profondità le rocce contenenti idrocarburi. Queste rocce, infatti, si esauriscono velocemente e obbligano a una continua attività di prospezione e allargamento dei giacimenti. Si tratta di un’industria che divora denaro, preso a prestito a cuor leggero dalle banche statunitensi quando il petrolio viaggiava sopra i 100 dollari al barile. La sostenibilità finanziaria di queste imprese varia in base alla geologia dei siti, con un pareggio rispetto ai costi che può andare dai 30 agli 85 dollari al barile. Ciò significa che ormai oltre il 60% dell’industria energetica del fracking negli Stati Uniti lavora in perdita, e con il fardello di importanti rate di prestiti da restituire alle banche.

La grande concorrenza e la corsa statunitense all’estrazione di gas e petrolio non convenzionali hanno portato a una sovrapproduzione, diventata un boomerang per le nuove compagnie. Come insegnano i fondamentali dell’economia di mercato, se aumenta la produzione e parallelamente calano i consumi il crollo dei prezzi è garantito. La crisi annunciata dell’industria del fracking, che ha rappresentato il 40% degli investimenti USA negli ultimi anni, rischia di compromettere la crescita economica del Paese e di esporre di nuovo il sistema finanziario a una situazione di emergenza.

Paradossalmente, ma forse no, ciò che ha fatto precipitare la situazione è stata la mossa dell’Arabia Saudita: che ha diminuito il prezzo e aumentato le sue estrazioni di greggio. Una decisione che difficilmente può essere stata presa senza il beneplacito di Washington. Forse, in questa scelta hanno pesato più i fattori geopolitici che quelli economici. Nel senso che un petrolio a questi prezzi mette in difficoltà diversi Paesi ostili agli Stati Uniti, dalla Russia al Venezuela, dall’Iraq all’Iran. Mentre porta benefici a Paesi amici come quelli europei, o a partner d’affari come la Cina.

Forse questo è bastato ad affondare, almeno per ora, un’industria nazionale nascente che aveva contribuito a rompere la dipendenza degli USA dai tradizionali produttori di greggio. Per completare il dibattito in corso bisogna considerare anche un’altra voce, quella delle “sette sorelle” che controllano da un secolo le risorse energetiche mondiali. Le multinazionali del petrolio non si erano fatte prendere dal furore dello shale oil, e oggi sono sedute sulla riva del fiume a guardare i cadaveri delle giovani rivali che passano sotto i loro occhi.

La guerra per quella che troppo frettolosamente è stata definita “energia del passato”, gli idrocarburi, è più che mai in corso. E ancora non si intravvede quale potrebbe essere la fine.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Lo scorso mese di ottobre, a Cagliari si è verificato un fatto di rilevanza epocale che però ha lasciato indifferenti i mezzi d’informazione: per la prima volta nella storia è approdata in Italia una petroliera carica di greggio statunitense. Andando a indagare negli archivi dell’Energy Information Administration, l’agenzia federale di Washington che si occupa di energia, si scopre infatti che nel 2014 il nostro Paese è stato destinatario di 430.000 barili di petrolio made in USA.

Senza dubbio si tratta di una quantità irrisoria se rapportata al commercio mondiale di combustibili fossili, eppure siamo di fronte a una testimonianza della più grande rivoluzione energetica degli ultimi decenni: quella dello shale oil e dello shale gas, e più in generale degli “idrocarburi non convenzionali”, cioè petrolio e gas ricavati non dai “soliti” giacimenti ma da particolari sabbie o da rocce che vengono frantumate nelle profondità del sottosuolo. Una fonte non rinnovabile, ovviamente, che fino a poco tempo fa è stata trascurata.

Ai vertici delle graduatorie che calcolano le riserve planetarie di questo genere di idrocarburi ci sono gli Stati Uniti, insieme a Cina, Russia, Argentina e Algeria. E proprio gli Stati Uniti se ne stanno avvantaggiando più di tutti, nonostante vivano una contraddizione rispetto al loro stesso quadro legislativo che, dai tempi della crisi energetica degli anni ’70, proibisce l’export di greggio per motivi di sicurezza nazionale.

Malgrado questo divieto, negli ultimi quattro anni l’export a stelle e strisce è passato da 50.000 barili al giorno a 400.000, e si prevede che nel 2015 toccherà quota un milione. Ciò perché il Dipartimento del Commercio ha concesso a due società di esportare petrolio sul quale siano state effettuate lavorazioni anche minime, aggirando così la legge che parla soltanto di “greggio”. Lo stesso vale per il gas, estratto in quantità così abbondanti che, sul mercato interno, i prezzi si sono dimezzati, con grandi vantaggi economici per le industrie e le famiglie.

Se si conteggiano insieme il greggio, il metano e il propano, oggi gli Stati Uniti hanno raggiunto al primo posto mondiale l’Arabia Saudita nella produzione di energia e si preparano al sorpasso. È questa la principale spiegazione del calo del prezzo del petrolio a livello globale: le nuove fonti estrattive – insieme alla crisi economica – hanno cambiato lo scenario che si delineava fino a pochi anni fa, e che lasciava presumere un aumento indefinito dei prezzi correlato alla diminuzione generalizzata delle riserve di idrocarburi.

In realtà le riserve sono nettamente superiori rispetto ai pronostici e il prezzo del petrolio scende. Tra tante manifestazioni di soddisfazione, pochi considerano che una delle conseguenze più significative di questo fenomeno è il declino dell’interesse per la riconversione energetica e per la ricerca sull’energia rinnovabile.

I costi ambientali di questa primavera energetica non sono stati ancora valutati, ma l’estrazione di idrocarburi ottenuta attraverso la frantumazione delle rocce presenta una serie di criticità che potrebbero rendere effimero lo sfruttamento stesso di questa fonte energetica. Infatti, oltre a richiedere l’iniezione nel sottosuolo di enormi quantità di acqua e di sostanze chimiche, oltre a provocare l’instabilità dei terreni sotto i quali si lavora e un rischio di aumento della microsismicità, questi giacimenti tendono a esaurirsi molto in fretta. Obbligano dunque a un costante sforzo di prospezione e di perforazione, con grandi investimenti di denaro: in pratica è conveniente estrarre petrolio non convenzionale solo finché il prezzo a barile si aggira attorno ai 100 dollari.

Molto si è discusso negli ultimi anni circa il significato geopolitico di questa rivoluzione, ma più sul piano delle ipotesi che dei fatti. È fuori luogo immaginare che il disimpegno graduale degli USA dallo scenario globale, e dal Medio Oriente in particolare, sia dovuto esclusivamente alla minore dipendenza dall’import di greggio, ma è altresì vero che, quando gli Stati Uniti dovranno decidere come riposizionarsi nel mondo, molti degli attuali alleati in chiave energetica saranno ridimensionati. Per ora, a godere degli unici vantaggi concreti sono stati la bilancia dei pagamenti di Washington e le industrie che utilizzano in modo intensivo gas o altri combustibili. Il ritorno di molte aziende negli Stati Uniti, il cosiddetto reshoring, è in parte spiegabile alla luce del mix di energia a basso costo e incentivi fiscali varati dalle autorità. Insomma, la rivoluzione energetica per ora non ha cambiato il mondo, ma ha dato una grande mano agli Stati Uniti per uscire dalla crisi.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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Da mesi la diplomazia europea e quella statunitense stanno lavorando con incontri riservati a un accordo quadro per gli scambi di capitali, merci e servizi tra gli Stati Uniti e l´Unione Europea. Il più grande accordo di tutti i tempi, secondo il Sole 24 Ore, finora praticamente l´unico tra i grandi media a seguire la trattativa.

Davanti all´impantanamento della trattativa globale in ambito WTO (il cosiddetto Doha Round), questo accordo stabilisce nuove regole ultraliberiste all´interno dell´area del pianeta in cui “girano” quasi due terzi dell’economia mondiale. Secondo i negoziatori (ma nessuno sa chi siano né quale mandato abbiano ricevuto), dovrebbe portare enormi vantaggi a entrambi i partner, e in particolare all´Europa, con un aumento degli scambi e incrementi del PIL e dell´occupazione.

Ma il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership, questo il nome dell’accordo – è qualcosa di più di un semplice negoziato di liberalizzazione commerciale. Rimette in discussione ancora una volta il primato della politica, e quindi della democrazia, nei confronti dei poteri forti dell´economia. Se venisse approvato dal Parlamento europeo e da quello statunitense, andrebbe infatti a incidere sui diritti del lavoro e dell’ambiente e anche su quelli di cittadinanza.

Il primo obiettivo infatti non saranno le barriere tariffarie, già abbastanza basse, bensì quelle “non tariffarie”, che riguardano gli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l´omologazione delle normative porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti in Europa, molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce.

Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l´acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l´acqua è una merce come un´altra. Il nocciolo dell´accordo, che si vorrebbe chiudere entro il 2014, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata, grazie alla costituzione di un organismo di risoluzione delle controversie al quale le aziende potranno appellarsi per rivalersi su governi colpevoli, a loro dire, di averle ostacolate. Da questo punto di vista, qualsiasi regolamentazione pubblica rischierà di essere messa in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati.

Non è la prima volta che si cerca di concludere un accordo di questo tipo. Già negli anni ’90 qualcosa di simile fu respinto (l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti); e anche nelle Americhe naufragò l´ALCA proposto da George W. Bush ai Paesi latinoamericani, basato sugli stessi principi.

Uno dei settori più delicati che potrebbero essere modificati dall´accordo TTIP è quello dell´alimentazione, con l´impossibilità – per esempio – di vietare la diffusione degli OGM, perfettamente legali negli Stati Uniti. Ma anche l´uso di ormoni nell’allevamento o di pesticidi in agricoltura. E potrebbe venir meno il principio della tutela della diversità e della territorialità del prodotto.

Acqua, trasporti ed energia sono invece i settori nei quali sarebbe più alto il rischio di privatizzazione, e le comunità che si opponessero sarebbero passibili di denuncia davanti al tribunale competente. Sull´energia si pone anche il problema dell’estrazione dello shale gas (il gas di scisto) attraverso il cosiddetto fracking, cioè la frantumazione in profondità, che tante sciagure ambientali sta creando negli Stati Uniti. Il divieto esistente in Francia per questo tipo di estrazione potrebbe essere contestato dalle imprese che si ritenessero danneggiate. Anche le regole di tutela della privacy potrebbero essere contestate dai giganti statunitensi della comunicazione.

La vittima più clamorosa di questi accordi, però, sarebbe la democrazia. I cittadini, dalla firma dei trattati in poi, non avrebbero più potere di scelta autonoma in materia ambientale, economica e sociale perché vincolati a monte. Addirittura il diritto al lavoro potrebbe essere messo in discussione, se dovesse prevalere il diritto di assumere secondo le condizioni contrattuali degli USA, Paese nel quale non esistono contratti nazionali, e che non ha sottoscritto le normative antidiscriminatorie per motivi di genere o etnia.

Con il TTIP l´Europa, già duramente provata dalle politiche di austerity che limitano seriamente il margine di manovra dei governi nazionali, si avvicinerebbe sempre più al modello sociale ed economico statunitense. Una situazione già sperimentata dal Messico che nel 1994, sottoscrivendo gli accordi NAFTA con USA e Canada, ipotecò seriamente la sua sovranità politica ed economica. Oggi, tra il Messico che voleva diventare “socio” degli Stati Uniti e il ricco vicino del Nord si alza un muro controllato a vista.

L´Europa per fortuna non è il Messico. Ma se le logiche sono le stesse, anche noi rischiamo che l´originale modello universalistico dei diritti, costruito in decenni di lotte sociali, ambientali e sindacali, diventi storia passata. L´Europa “socia” degli Stati Uniti, a queste condizioni, metterebbe fine al sogno della costruzione di un´area di civiltà, valori condivisi e diritti reciprocamente riconosciuti. Ora l´ultima parola passa a una delle istituzioni più ignorate dai poteri forti: il Parlamento europeo, l´assise che oggi rappresenta l´unica istituzione comunitaria con un mandato democratico. Mandato che sarà rinnovato il prossimo 25 maggio. Praticamente l’ultima chiamata per salvare e cambiare la situazione, e per rilanciare il percorso dell’Europa su nuove basi, dicendo no da subito al TTPI.

Alfredo Luis Somoza (Candidato Circoscrizione Nord Ovest – Elezioni Europee 2014 – Lista Altra Europa con Tsipras)

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Il settore energetico mondiale è in subbuglio. Nell’ultimo periodo sono crollate alcune certezze dei decenni passati. Soprattutto quelle che riguardavano il progressivo calo delle riserve dei tradizionali Paesi petroliferi fino ad arrivare al punto di non ritorno, un fenomeno accelerato dalla crescita della domanda da parte delle economie emergenti. E la conseguente urgenza di diversificare le fonti energetiche puntando sul rinnovabile: che poi le fonti rinnovabili fossero anche “pulite” era quasi un dettaglio ininfluente, se non a scopo pubblicitario.

Il Paese che più aveva investito su questo scenario erano gli Stati Uniti, primo consumatore e compratore mondiale di greggio. Anziché mettere in discussione il proprio modello di consumi, energivoro per eccellenza, Washington ha investito nella riconversione alla green economy, ambientalmente sostenibile e alimentata da fonti energetiche rinnovabili.

Poi sono state perfezionate le tecniche di estrazione del gas e del petrolio “di scisto”, che abbondano sotto le grandi pianure centrali, ed è entrato in circolazione anche il petrolio proveniente dalle sabbie bituminose del Canada. Nel complesso il NAFTA, il mercato comune tra USA, Canada e Messico, sta diventando il principale polo produttore di gas e petrolio a livello mondiale. Una manna non prevista, ma che comincia ad avere conseguenze pratiche sulle ambiziose politiche ambientali dell’amministrazione Obama.

La prima vittima di quest’abbondanza di materia prima sono i biocombustibili. Secondo l’Agenzia per l’ambiente, nel 2014 la quantità di etanolo ricavato dal mais che verrà miscelata alla benzina sarà inferiore del 20% rispetto a quella del 2013.

Si presentano anche problemi inediti per gli USA che si scoprono novella potenza petrolifera: infatti un divieto di esportare petrolio, risalente agli ’70, blocca la possibilità di esportare il greggio estratto nel Paese, deprimendo i prezzi interni per eccesso di offerta. Anche il Canada sta rivedendo la sua politica energetica e ambientale, e ha appena stanziato tre miliardi di dollari per studiare tecnologie che riducano l’enorme impatto ambientale dell’estrazione petrolifera dalle sabbie bituminose. È una rivoluzione: non si spendono più i soldi per produrre energia rinnovabile, ma per attutire l’impatto ambientale dell’estrazione di energia fossile. Mandando nel dimenticatoio gli impegni per ridurre le emissioni di CO2 previsti dagli accordi di Kyoto, peraltro mai sottoscritti dagli USA.

Questa congiuntura sta incidendo anche sulla geopolitica del Medio Oriente, con l’evidente progressivo disimpegno degli Stati Uniti che, tra poco, avranno meno interessi vitali da difendere in quell’area del pianeta. Inoltre l’abbondanza di combustibili fossili sul mercato globale sta facendo impennare i consumi che, secondo l’Energy Information Administration, praticamente raddoppieranno entro 25 anni per via del numero crescente di auto in circolazione.

Non sono tutte rose e fiori, però. A raffreddare tanta euforia arriva una prestigiosa istituzione. La Geological Society of America, fondata nel 1888 e forte di 25.000 associati tra scienziati, professori universitari e dirigenti di industria, dopo un’indagine ha concluso che la produzione di shale gas (il cosiddetto gas di scisto) negli USA si può già definire un fallimento; e che la sostenibilità dell’estrazione di shale oil (petrolio di scisto) è molto dubbia sul lungo periodo, in quanto dovrebbe cominciare a declinare a partire del 2020. Il punto dolente è simile a quello che rende il biocombustibile ricavato dal mais “discutibile” dal punto di vista commerciale.

Cioè per estrarre shale oil, così come per ricavare energia dal mais, si utilizza una quantità di energia pari o superiore a quella che si ricava. Questo senza parlare dell’impatto ambientale, perché per avere quantità costanti di greggio bisogna trivellare in continuazione rendendo il terreno instabile, consumando grandi quantità di acqua e inquinando falde e fiumi con prodotti chimici.

L’ennesima rivoluzione dei combustibili fossili, oggi in atto, è dunque discussa e discutibile. Ma ha già creato l’effetto di rallentare la ricerca di soluzioni alternative alla storica dipendenza dai combustibili fossili. È una scorciatoia probabilmente di corto respiro, un “raschiare il fondo del barile” in senso letterale. L’ultima via di fuga prima di doversi assumere le proprie responsabilità e di immaginare davvero come sarà il mondo post-petrolio, come si muoverà e come si alimenterà.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Il 25 giugno 1876 i guerrieri Sioux e Cheyenne guidati da Toro Seduto sterminarono presso il fiume Little Bighorn il Settimo Cavalleggeri del generale Custer. Era simbolicamente l’ultima vittoria di un popolo che stava scomparendo, incalzato da un modello di vita e di sviluppo che aveva bisogno di quantità illimitate di terre, di minerali, di acqua, di animali. I discendenti dei guerrieri di Toro Seduto vivono oggi in riserve del Nord e Sud Dakota con speranze di vita da Terzo mondo, decimati dall’abbandono, dall’alcolismo, dalla disoccupazione, dall’essere stati sconfitti dalla storia. Il Dakota è stato questo nella storia americana: una terra di grandi lotte e di grandi sofferenze. Oggi qualcosa sta cambiando velocemente grazie alla scoperta di importantissimi giacimenti di Shale gas, l’ultima frontiera nell’estrazione di energia fossile. Con una tecnica molto contestata dagli ambientalisti, si frantumano in profondità dei particolari scisti argillosi che al loro interno contengono gas metano. Questo processo, detto fracking o fratturazione idraulica, è alimentato da milioni di litri d’acqua mescolata ad agenti chimici che vengono iniettati ad alta pressione nel sottosuolo per spezzare le rocce. Solo metà del liquido utilizzato viene recuperato e smaltito, il resto rimane nel sottosuolo. C’è inoltre il sospetto che questa tecnica di frantumazione delle rocce in profondità possa incidere sulla sismicità e infatti non viene utilizzato in zone ad alto rischio di terremoti. I Paesi nei quali si trovano i maggiori giacimenti di Shale gas sono Canada e Stati Uniti, Argentina e Paraguay, Sudafrica e Algeria, Germania e Francia. Se da un giacimento tradizionale si riesce a recuperare il 70% del gas presente, dagli scisti si recupera a malapena il 30%, con la conseguente dispersione nell’atmosfera di grandi masse di gas. Ma tanto basta in un mondo nel quale, senza troppo clamore, la scorta di energia fossile volge progressivamente alla fine. Ormai il petrolio viene estratto da giacimenti marini situati a migliaia di metri di profondità e il gas si recupera frantumando rocce del sottosuolo. Nel vero senso del concetto, stiamo raschiando il fondo del barile, ma culturalmente ci sembra scontato che ci sia l’energia elettrica per le lampadine, il gas per il riscaldamento, la benzina per la macchina. Nel mondo che verrà saranno vincenti non gli Stati oggi ricchi di petrolio o di gas, ma quelli che per tempo avranno investito sulle fonti rinnovabili e spezzato la dipendenza dagli idrocarburi, che nel frattempo saranno sempre più rari e costosi. Nella Riserva di Pine Ridge, le donne Sioux Lakota hanno iniziato una lotta perché vengano cacciate via dalla riserva le quattro fabbriche di alcolici che speculano sulla disgrazia del loro popolo. Dicono queste donne che non c’è futuro se viene distrutta la loro terra e che la prima cosa da fare è liberare gli indiani d’America dal torpore dall’alcol nel quale sono stati indotti perché non vedessero e non sentissero che cosa succedeva alle praterie dove una volta correva libero il bisonte. Questo orgoglio residuo di un popolo che considera la terra come la propria madre e al quale, dopo il furto delle praterie, verrà sottratto anche il sottosuolo interessa tutti noi. Senza terra non c’è futuro per l’umanità  e chi la sfrutta per motivi economici sta superando la soglia di non ritorno. I Sioux Lakota stanno dissotterrando l’ascia di guerra, ma da soli non possono farcela.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)