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Qualcosa di inquietante comincia a emergere dal blindato mondo dello shale statunitense, cioè delle compagnie petrolifere che sfruttano giacimenti di metano e di greggio con la tecnica detta “di fratturazione idraulica”. In pratica, si estraggono idrocarburi attraverso la frantumazione a grande profondità di scisti argillosi che ne contengono quantità significative. Oggi i giganti dello shale gas sono gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Algeria, il Canada. Quelli dello shale oil sono sempre USA e Argentina, insieme a Russia e Australia.

Secondo gli esperti è negli Stati Uniti – dove questa industria estrattiva è nata e si è sviluppata – che si trovano le riserve più importanti: soprattutto attorno al gigantesco bacino di Permian, tra il Texas e il New Mexico, che nasconderebbe 60 miliardi di barili di greggio, pari alle riserve del più grande giacimento al mondo di petrolio tradizionale, quello di Ghawar in Arabia Saudita. Eppure è proprio negli States che da quattro mesi le previsioni dell’Agenzia governativa per l’energia, l’EIA, correggono al ribasso le stime sull’estrazione. Non senza polemiche, come quella avviata dal “re dello shale” Harold Hamm, consulente di Donald Trump, che ha accusato l’EIA di avere sovrastimato in passato le proprie previsioni del 100%. La correzione, per ora, parla di una minore produzione di circa 200.000 barili al mese di quel greggio che avrebbe dovuto rendere gli Stati Uniti non solo autosufficienti, ma addirittura esportatori.

Le discrepanze rispetto alle attese, e comunque l’oggettivo rallentamento nell’estrazione, pare siano dovute a questioni più pesanti rispetto a banali errori di calcolo compiuti in passato. La causa sarebbe piuttosto lo stress del Bacino, sottoposto a trivellazioni troppo ravvicinate. Un campanello d’allarme gigantesco, perché riporta subito al grande tema della stabilità geologica di quei terreni che in questi anni sono stati trasformati in una sorta di enorme forma di gruviera, con migliaia di trivellazioni in profondità che non solo hanno contaminato le falde acquifere e avvelenato i fiumi con i liquidi chimici utilizzati nel processo industriale, ma starebbero sostanzialmente rendendo il suolo complessivamente instabile.

La Pioneer Natural Resources, una delle principali società al mondo dello shale oil, in un suo recente report ha scritto di pozzi che stanno diventando difficili da gestire, lasciando intendere che potrebbe essersi verificato il cosiddetto “frac hit”, cioè il danneggiamento di pozzi adiacenti. Un fenomeno che è dovuto alla trivellazione intensiva in poco spazio e che in una prima fase provoca perdita di pressione. Sarebbe questo il risultato della febbre da shale degli anni scorsi, quando si è avuta una corsa senza precauzioni all’aumento dell’estrazione. Un’accelerazione scriteriata dovuta anche all’indebitamento crescente delle società coinvolte, che hanno subito grosse perdite per via del calo del prezzo del greggio derivato dalle politiche dell’OPEC. Con il petrolio a prezzi bassi, molte imprese del mondo shale non riuscivano nemmeno coprire i costi operativi.

Questa situazione, per ora tenuta relativamente riservata, potrebbe mettere in crisi i piani energetici dell’amministrazione Trump, che si basano sul rifiuto di ogni compromesso per contrastare il cambiamento climatico e sul raggiungimento dell’autonomia energetica attraverso i combustibili fossili. Gli Stati Uniti, e anche il Canada, rischiano di pagare prezzi altissimi alla diffusione di queste modalità invasive e distruttive di estrazione petrolifera, avviando vastissimi territori a un futuro da incubo, tra inquinamento, fragilità geologica e sismicità indotta in costante aumento.

Una delle frontiere che dovrebbero essere invalicabili è stata superata: quella che sacrifica la vita e la Terra, in senso lato, a un modello di consumo fuori controllo. Almeno si spera che l’esempio di ciò che sta accadendo nelle pianure statunitensi sia di monito per gli altri Paesi che hanno riserve di questo tipo, ma che sono ancora in tempo per ragionare sulla reale convenienza del loro sfruttamento.

 

Alfredo Somoza per #Esteri #RadioPopolare