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Dalla pandemia in poi, l’agenda del mondo è stata sconvolta. Soprattutto per quanto riguarda la consapevolezza che si era diffusa negli anni precedenti su una serie di temi che, si pensava, avrebbero migliorato la convivenza e la vita sul nostro pianeta. Lotta al cambiamento climatico, diffusione globale dei diritti umani, allargamento delle pratiche di commercio equo e solidale alle imprese, miglioramento dei diritti dei lavoratori e, soprattutto, pace: erano i capisaldi del pensiero positivo degli anni Duemila che, pur criticando gli aspetti negativi della globalizzazione, ne metteva in risalto soprattutto quelli costruttivi. Poi tutto è cambiato. La pandemia non solo ha obbligato tutti a una quarantena inedita, ma ha reso di attualità le differenze abissali tra i Paesi del mondo. Alcuni hanno potuto garantire più dosi di vaccini di quelle necessarie ai suoi abitanti, altri hanno dovuto arrangiarsi senza supporto medico. Alcuni avevano una sanità pubblica efficiente e uno Stato in grado di sostenere il mondo della produzione e del lavoro, in altri si moriva per strada perché senza lavorare non era possibile nemmeno a comprare il cibo. Appena usciti da questo incubo, ecco che in rapida successione si verificano il primo conflitto europeo dagli anni ’90 e la riapertura, con furia inaudita, dello scontro armato tra Israele e Palestina. E qui cambiano quasi tutte le priorità, a partire da quella della transizione energetica, con la riaccensione in molti Paesi delle centrali a carbone, il rinnovato investimento sul nucleare e, in Europa, la sostituzione delle forniture russe con gas naturale liquido importato dall’altro capo del mondo, su navi alimentate con combustibili fossili. Ma il conflitto russo-ucraino, destabilizzando il mercato dei cereali, ha comportato anche il grande ricatto sulla sopravvivenza alimentare dell’Africa; e ha sancito il ritorno trionfale della spesa militare, aumentata in tutto il mondo, e in particolare in Europa, dove nel 2023 si registra un incremento del 13% rispetto all’anno precedente. Con il conflitto mediorientale è riemersa anche la paura del terrorismo, che dopo la sconfitta dell’Isis in Siria si era molto ridimensionata.

L’insieme dei grandi eventi degli ultimi 5 anni, insomma, non ha cambiato solo le priorità ma anche le speranze sui nuovi traguardi. Oggi si torna a invocare pace, pane e lavoro, come agli inizi del Novecento. E nel frattempo ci si arma fino ai denti, perché il mondo fuori dai propri confini, dall’essere la terra promessa dei narratori della globalizzazione, per molti è tornato a essere un incubo. È come se la geopolitica, impazzita a causa delle smanie di protagonismo di Paesi che aspirano allo status di potenze, avesse spazzato via sogni e illusioni. Ma è proprio nei momenti di crisi che bisogna provare a immaginare il futuro. Come fecero Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che dal confino imposto dal regime fascista a Ventotene, in piena guerra, sognarono un’Europa unita scrivendo un manifesto diventato una pietra miliare lungo il percorso che ha portato all’Unione Europea. Nel 1941 imperversava la guerra, era in atto la Shoah, le carestie colpivano indiscriminatamente, i soldi degli Stati finivano in armi mentre soldati e civili morivano a milioni. Eppure, qualcuno sognava una soluzione che permettesse di dire basta alle guerre, gettando le basi per un futuro migliore.

I Paesi che hanno creduto in quell’intuizione non si sono più fatti la guerra e le loro popolazioni hanno sperimentato un miglioramento delle condizioni di vita che non si è mai visto altrove. Se oggi confrontiamo la nostra situazione con quella del 1941, stiamo certamente meglio: ma guerre, carestie, disperazione esistono eccome, se solo allarghiamo lo sguardo al resto del mondo. Mancano però gli Spinelli e i Rossi che ci diano la speranza di poter risalire dopo aver toccato il fondo, indicandoci un traguardo, un domani che sia migliore dell’oggi. Ma forse non è vero che mancano, semplicemente ancora non li conosciamo: dopotutto, vivere in pace e prosperità è sicuramente il desiderio della stragrande maggioranza dell’umanità.

È difficile analizzare la situazione internazionale odierna quando si perde di vista il quadro di riferimento globale. Pur restando alla larga da qualsivoglia teoria del complotto, non è difficile osservare che diversi fatti di inaudita gravità degli ultimi anni, da leggersi ciascuno nel suo specifico contesto geografico e storico, sono legati da uno stesso filo conduttore. Che rimanda alla difficile transizione dalla globalizzazione degli anni Novanta del secolo scorso, subentrata alla Guerra Fredda creando nuovi assetti geopolitici, verso un multipolarismo a blocchi variabili. Non c’è più lo schieramento ideologico della Guerra Fredda: ora si tratta degli interessi contingenti di Paesi che vorrebbero acquisire un ruolo dirimente a livello mondiale, o almeno regionale, accanto alle potenze occidentali che di quel ruolo sono storicamente detentrici. Non si spiegherebbe altrimenti la sintonia tra Iran, e Hamas, via Hezbollah: sciiti e sunniti, storicamente nemici, che trovano un comune denominatore nello scontro con Israele. Più in generale, pare delinearsi un avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita che potrebbe porre fine a secoli di ostilità intra-musulmana, elemento che ha storicamente indebolito il mondo islamico nei confronti dei nemici esterni. Anche l’alleanza, soprattutto economica e politica, tra Cina e Russia è un inedito, rispetto a decenni – se non secoli – di reciproca diffidenza. Ancora, la neutralità di grandi potenze del Sud globale come India e Brasile è un dato nuovo, rispetto al tradizionale allineamento quasi automatico con gli Stati Uniti. Vanno distinte, però, le aspirazioni geopolitiche alimentate attraverso la forza militare, come l’invasione russa dell’Ucraina, dalla volontà di emancipazione politica sulla scena internazionale attraverso la diplomazia, come tenta di fare il Brasile di Lula.

La massima dimostrazione della grande mobilità rispetto ai blocchi del passato è forse l’avanzato dialogo condotto da Israele e Arabia Saudita per normalizzare i loro rapporti. Stabilire uno scambio di ambasciatori equivale, nel diritto internazionale, al reciproco riconoscimento della sovranità e quindi dell’esistenza stessa degli Stati. È l’ultima cosa che Hamas vorrebbe, perché se l’Arabia Saudita, punto di riferimento religioso del mondo sunnita, riconoscesse il diritto all’esistenza di Israele, vacillerebbe la linea di Hamas, che predica l’eliminazione dello Stato ebraico. È questo uno dei motivi, se non il principale, della scelta di compiere l’attacco criminale del 7 ottobre contro i civili israeliani. La risposta di Israele contro i civili di Gaza, ingiustificabile secondo il diritto internazionale, ha avuto come conseguenza il congelamento delle trattative tra Riyad e Tel Aviv e rischia di far saltare tutta la rete di relazioni tra lo Stato ebraico e il mondo arabo. Non lontano da questo scenario, nel Nagorno-Karabakh, regione popolata in maggioranza da armeni, si sta consumando l’ennesimo pogrom contro questo popolo, ancora una volta obbligato a fuggire per salvarsi la vita, nonostante sia teoricamente “difeso” da forze armate russe, ma Mosca ha scelto di stare con l’Azerbaigian, che pure è filo-turco da sempre.

Più che a una “terza guerra mondiale a pezzi”, siamo di fronte a scosse di assestamento dopo il terremoto che ha portato a un notevole ridimensionamento del peso degli Stati coinvolti nella globalizzazione. Le apparenze possono ingannare: non esiste un fronte che si oppone all’Occidente, ma semplicemente una coincidenza temporanea di interessi tra Paesi tra loro molto distanti, da tutti i punti di vista, come Russia, India, Cina, Brasile, Turchia e Iran. Gli Stati Uniti da tempo si stanno adeguando a un mondo “liquido”. Resta invece spaesata l’Europa, da un lato arroccata a difesa dei suoi passati privilegi e dall’altro ancorata a un discorso generico sulla difesa dei diritti umani, reso poco credibile dalle politiche coloniali e post-coloniali nei confronti, ad esempio, del continente africano. A proposito di Africa, anche le migrazioni sono figlie del disordine globale, e non armi contro l’Occidente, come proclama qualche imprenditore della paura. In realtà, al resto del mondo interessa molto poco ciò che succede all’interno degli Stati europei: al centro del gioco ci sono territori considerati marginali fino a poco tempo fa, diventati oggi terreno di scontro tra Paesi che aspirano a diventare nuovi punti di riferimento a livello globale.   

Il 2016 che si chiude è stato un anno ricco di eventi internazionali, di svolte e di sorprese. Il conflitto mediorientale ha prodotto ancora morti, distruzione, tragedie. Nel 2015 il protagonista era stato l’Isis, nel 2016 sono tornate in campo le potenze mondiali, la Russia e gli USA, e quelle regionali, come Turchia e Iran. La svolta bellica in Iraq e in Siria ha visto anche il protagonismo dei curdi che, in mezzo al grande caos, si stanno ritagliando pezzo dopo pezzo la tanto agognata costruzione di uno Stato. Uno scenario nel quale si sono incrociate e mescolate guerre intestine tra minoranze etniche e religiose, tra governi e governati, e sul quale sono tornati a misurarsi gli eterni contendenti della Guerra Fredda in versione aggiornata. Uno scenario nel quale la democrazia e il rispetto dei diritti umani, storici paraventi per le scorribande neocoloniali, sono ormai sfumati. Si rinforzano gli Assad e gli Al Sisi, i talebani diventano interlocutori sempre meno nascosti, e l’Arabia Saudita ridimensionata nella Mezzaluna fertile si rifà sullo Yemen. Il Medio Oriente si incammina velocemente verso la ridefinizione dei confini e delle rispettive signorie, ma la consolidata ricetta dei tiranni che garantiscono stabilità, a prescindere dai metodi, si riconferma l’unica strategia delle potenze per quella martoriata zona del pianeta.

In Europa la costruzione comunitaria traballa e si riaccendono paure di ritorni a un passato che si pensava sepolto. La Brexit, la crescita dei partiti estremisti, la fine annunciata dell’ideale europeista mettono a nudo l’inconcludenza di una politica che si è accontentata di gestire l’esistente, dimenticandosi delle sofferenze, delle paure, dei bisogni dei cittadini. Cittadini sempre più esclusi dal dibattito relativo all’economia e alla globalizzazione, ma che detengono ancora l’arma più efficace per punire o premiare: il voto.

L’evento che ha creato più rumore mediatico in assoluto, l’elezione del candidato antisistema Donald Trump, un nome uscito dal cuore del sistema, va letto in quest’ottica. Le contraddizioni che hanno portato il magnate di New York a diventare presidente degli Stati Uniti si spiegano soltanto nel clima generalizzato di ritorno al protezionismo, dovuto al fallimento di una parte delle promesse della globalizzazione: quelle che riguardavano i Paesi occidentali, dai quali sono usciti capitali e competenze per andare a creare economia altrove, lasciandosi alle spalle deserti sociali nelle vecchie città manifatturiere.  Nuovi ceti medi in Oriente e nuove povertà in Occidente sono le due facce della stessa moneta. Ma la moneta è stata accumulata solo da pochi soggetti, transnazionali, che hanno dato vita a un gigantesco impero mondiale esentasse senza mai farsi carico dell’impatto delle loro politiche industriali.

Il 2016, insomma, è stato un anno pieno di segnali negativi, e non solo per la crisi che si trascina. La pazienza è finita in molti Paesi, la politica lo ha capito ma ormai non ha più il potere di invertire la rotta: i giochi sono fatti da altri, il “si salvi chi può” diventa una tentazione di massa. In questo panorama, una sola potenza è rimasta stabile e agisce da forza stabilizzatrice. La Cina. L’unica potenza che prescinde dal consenso popolare, che garantisce continuità alle sue politiche, che continua a investire capitali in giro per il mondo. È però impensabile un unipolarismo basato solo su Pechino, il mondo ha bisogno di altri pesi e contrappesi. E nell’anno che arriva sarà questa l’urgenza per la comunità internazionale: pensare lungo, uscire dalla logica dell’emergenza e del volare basso, tornare a immaginare e a fare politica globale.

 

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Medio Oriente e dintorni sono lo specchio sempre più nitido del fallimento della politica occidentale, e non solo, degli ultimi 30 anni. Il grande caos che avanza, con la dissoluzione di Stati “posticci” come Libia e Iraq, o millenari come Siria e Afghanistan, ci riserva ancora grandi e sgradite sorprese. Paragonandoli alla ferocia dell’ISIS, oggi c’è chi rimpiange i talebani, peraltro pronti ad assumere a breve la guida del loro Paese. C’è chi rivaluta l’Iran degli ayatollah, la Siria di Assad e l’Egitto di Al-Sisi in una girandola di alleanze a geometrie variabili, riformulate giorno per giorno e mai dettate da una visione strategica d’insieme.

Alcuni capisaldi restano però saldi, come il finanziamento occulto, ma neanche poi tanto, dell’Arabia Saudita e degli Emirati allo jihadismo sunnita, ieri talebano oggi a guida Al-Baghdadi. Una politica suicida, simile a quella statunitense che sosteneva i mujaheddin afghani o Saddam Hussein in chiave anti-iraniana, che regolarmente si rivolta contro chi la implementa. Basta ricordare il ruolo avuto dal Mossad nel radicamento dei Fratelli Musulmani, alias Hamas, in territorio palestinese al fine di erodere il consenso di Al-Fatah di Yasser Arafat, all’epoca in esilio.

L’Occidente ripete anche lo stesso approccio sbagliato in base al quale definisce ogni nuova forza antagonista (talebani, Saddam, Al-Qaida, ISIS) come una minaccia “per l’Occidente”, quando tutti questi movimenti, e altre centinaia impegnati nel macello mediorientale, lottano per controllare il proprio territorio, saldare i conti con altre confessioni religiose, spazzare via minoranze. Nessuno di loro ha lontanamente come obiettivo la conquista di Washington: gli USA e i loro alleati diventano nemici solo quando interferiscono, e cioè quando inviano truppe e soldi negli scenari della disputa. Da questo punto di vista, le minacce dell’ISIS contro l’Occidente sono diretta conseguenza della nascita di una coalizione guidata dagli Stati Uniti per intervenire in Siria e Iraq.

Rispetto al passato, la galassia che si oppone ai governi locali alleati dell’Occidente ha imparato, e bene, a utilizzare i media. I video che hanno come protagonista “Jihadi John”, il boia così battezzato dai giornalisti inglesi per via del suo accento, sono veri e propri videoclip. Riprese in HD effettuate da almeno tre telecamere, protagonisti vestiti come Lawrence d’Arabia, vittime vestita come a Guantanamo, fondali da deserto hollywoodiano, luccichio della lama del coltello, audio impeccabile, regia evidente. Siamo lontani anni luce dai video artigianali di Bin Laden dentro le grotte, con il Kalashnikov e il tappeto delle preghiere come unici pezzi d’arredo. La guerra condotta con altri mezzi, e cioè quelli della propaganda, non è più monopolio del solo Occidente.

Per noi semplici mortali, distanti anni luce da questi scenari, è praticamente impossibile capire quale immagine corrisponda al vero e quale sia stata manipolata, chi siano gli attori e i finanziatori dello show, quali gli interessi in gioco e i trofei da esibire al pubblico di riferimento. Nemmeno i migliori analisti riescono a cogliere la complessità di questa conflittualità diffusa, a fornirci una visione d’insieme ipotizzando anche una via di uscita. Per questo motivo la cosa più facile è immaginare che il significato, l’obiettivo finale dei fatti mediorientali sia la distruzione dell’Occidente, vittima di una Spectre che si rinnova nel tempo rimanendo sempre impenetrabile e insondabile. Una lettura per niente rassicurante, ma che tenta di dare un senso a ciò che accade. Mai come in questo periodo servirebbero strumenti adeguati per interpretare il senso del grande disordine: ma chi li possiede, per motivi a noi ignoti, ce li nega, spacciandoci istantanee disordinate di una realtà che, vista così, assomiglia a un brutto film. Di quelli che difficilmente possono avere un lieto fine.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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Ieri, 27 luglio 2014, l’ambasciatrice statunitense in Libia Deborah Jones, ha deciso l’evacuazione della sua ambasciata a Tripoli. Una lunga carovana di centinaia di mezzi sta trasportando documenti, armi e persone verso il confine con la Tunisia. Con questo esodo diplomatico si conclude una delle più maldestre operazioni di “polizia internazionale” degli ultimi decenni. Con l’alibi di sostenere la rivolta di Bengasi del febbraio 2011, l’ex presidente francese Sarkozy e il premier britannico Camerun riuscirono a trascinare gli Stati Uniti in un’operazione militare nella quale non erano previsti truppe sul terreno, ma operazione di intelligence, armi ai ribelli e soprattutto bombardamenti. A Sarkozy serviva in realtà un recupero di immagine, piuttosto appannata dal ciclone delle primavere arabe che aveva appena spazzato via il protetto Ben Alì in Tunisia. All’allegra brigata, che agì con copertura giuridica ONU, si aggiunse senza arte ne parte, l’Italia berlusconiana alleata indiscussa di Gheddafi fino a 5 minuti prima. Il resto è storia conosciuta, la caduta del regime del rais e la sua fine fisica, il riciclaggio dei suoi funzionari in improbabili governi di transizione, la balcanizzazione del paese e lo sbarco incontenibile dell’islamismo radicale. Oggi la Libia, così come l’abbiamo conosciuta, non esiste più, è solo un aggregato sulla mappa, un paese esploso. In questa nuova palude gli Stati Uniti avevano già perso il loro console generale a Bengasi Chris Stevens mettendo in seria crisi Hillary Clinton. Lo scenario che si apre per l’ex colonia italiana, importante fornitrice di gas del nostro paese, è di una nuova guerra intestina per il controllo di brandelli di territorio. Un territorio che però fa ancora gola. La Turchia di Erdogan conduce qui una politica spericolata, come a Gaza peraltro. Insieme al Qatar sono schierati con i movimenti islamisti radicali e ripagati da commesse miliardarie sugli idrocarburi locali. Arabia Saudita e gli Emirati del golfo sostengono invece, insieme agli egiziani, le forze anti-islamiste che si battono contro i Fratelli Musulmani e i radicali di El Sharia. L’Italia sta a guardare e non sa con chi schierarsi, mentre “alleggerisce” la sua presenza oggi rappresentata dalla sola ENI.

E’ il Grande Disordine che avanza e che continua a inghiottire paesi e popoli. E’ l’incapacità per chiunque di esercitare un qualsiasi ruolo di stabilizzatore internazionale. Sono i leader di basso profilo delle ex-potenze globali che non riescono nemmeno a tutelare i propri interessi. E’ la fine dell’illusione di un unilateralismo a stelle e strisce che avrebbe potuto sostituirsi al bipolarismo della Guerra Fredda. La Libia si aggiunge quindi al sempre più lungo elenco di paesi esplosi negli ultimi anni: Somalia, Afghanistan, Iraq, Siria, Sudan ai quali si aggiungono quelli che rischiano di esplodere, come l’Ucraina o il Libano, o quelli che si trascinano senza soluzione di continuità in confitti antichi come Israele e Palestina.

Davanti a questo scenario è chiaro che mancano le due condizioni primordiali perché si possa trovare la famosa “via politica” alla ricomposizione del quadro internazionale. La prima mancanza è quella delle istituzioni del diritto internazionale, sempre meno considerate e praticamente archiviate, la seconda quella della dialettica tra le  “potenze”, ormai ridotta a reciproci e squalidi tentativi di furto di segreti industriali. Si aprono invece vaste praterie per piccole forze irregolari, possiamo continuare pure a chiamarli “terroristi” ma sapendo però che questo termine non spiega nulla, anche se spesso ricche di risorse, che vogliano tentare il grande salto. Il fatto che gruppi di predoni farneticanti come quelli dell’ISIL sirio-iracheno o le tribù in arme libiche potessero aspirare, e forse riuscire, a controllare interi paesi, fino a poco tempo fa sarebbe stato pura fantapolitica. Oggi è invece possibile, e i famosi “poteri  forti” dell’economia mondiale (si legga petrolio e gas) se prima foraggiavano i Gheddafi o i Saddam Hussein, non hanno problemi oggi a foraggiare i tagliagole del califfato. La differenza sostanziale è che i primi garantivano uno Stato coeso che in ultima istanza partecipava al balletto delle nazioni. Queste bande che provano ad occupare il vuoto lasciato dai geniali strateghi occidentali, aldilà che sappiano cosa c’è oltre i confini dei loro territori, sono imprevedibili da tutti i punti di vista. La fine dell’equilibrio della Guerra Fredda in Medio Oriente rischia di ricacciare nel più buio medioevo intere società e categorie particolari, come le donne. La cartina di tornasole della cultura politica dell’islamismo salafita, oggi in veloce crescita sullo scenario mediorientale, è proprio la questione femminile. Le donne sono sempre state il bersaglio prediletto della cultura fascista, della quale i gruppi islamisti radicali in armi sono i novelli esponenti.

 

Alfredo Somoza

 

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Molto si è scritto e dibattuto negli ultimi decenni sulla cosiddetta oil diplomacy, cioè sulla politica estera, soprattutto degli Stati Uniti, imperniata sul bisogno vitale di garantirsi il rifornimento di greggio. Il nemico storico di questi interessi è stato il cartello dei Paesi produttori di petrolio, l’Opec, organizzazione nata negli anni ’60 sulla spinta terzomondista del movimento dei non allineati. L’Opec, che garantisce il 42% del mercato mondiale, controllando le quote di estrazione di greggio dei Paesi membri è riuscita per lunghi periodi a mantenere alti i prezzi del petrolio grazie a una politica di “cartello”.

Nel corso degli anni l’organizzazione ha subito duri colpi, soprattutto da quando gli USA controllano di fatto l’Iraq e la Libia, oltre alla politica petrolifera dell’Arabia Saudita. L’ultimo uomo forte dei Paesi Opec, il venezuelano Hugo Chávez, è deceduto da poco. Gli Stati Uniti, non solo per l’Opec, pagano un prezzo altissimo per garantirsi il greggio: la politica mediorientale è il fulcro della diplomazia a stelle e strisce e la principale voce di spesa nel budget militare. In prospettiva però questa situazione potrebbe cambiare.

La velocità con la quale sta aumentando l’estrazione di shale-oil (il petrolio ottenuto da scisti bituminose) negli USA e l’estrazione delle sabbie bituminose canadesi, infatti, potrebbero ridurre fino a cancellare la storica dipendenza energetica di Washington. Si calcola che già nei prossimi tre anni Canada e Stati Uniti potrebbero soddisfare da soli il 40% della domanda interna di energia fossile. E per il 2020 si ipotizza che i principali produttori di greggio saranno proprio gli Stati Uniti, sorpassando l’Arabia Saudita. Non a caso i future sul petrolio con scadenza 2017 quotano il barile di greggio 90 dollari, dieci sotto la soglia psicologica dei 100 dollari.

Vista la riduzione del bisogno di greggio estero, gli USA potrebbero limitarsi ad acquistare petrolio dai Paesi non membri dell’Opec a prezzi inferiori, innescando una corsa al ribasso del prezzo. Una delle ultime armi in mano all’Opec è ridurre da subito il livello di estrazione, ma in questa fase di crisi sarà difficile che riescano a raggiungere un accordo. Questo inaspettato sviluppo del mercato energetico statunitense avrà pesanti ripercussioni sulla geopolitica del Medio Oriente. Quando il principale motivo della sua strategicità si ridimensionerà, questa regione scenderà inevitabilmente nella scala degli interessi delle potenze.

Dal crollo dell’Impero Ottomano e degli imperi coloniali europei, il Medio Oriente non ha mai vissuto lunghi periodi di pace ed è sempre stato oggetto di tentativi, falliti o riusciti, di destabilizzarne lo scenario politico. E ha visto prosperare oligarchie legittimate solo dalla loro fedeltà alla potenza di turno, a discapito dei popoli governati. La primavera araba, che si è manifestata con più virulenza nei Paesi senza ricchezza petrolifera, si è fatta sentire timidamente anche in qualche petro-Stato. Potrebbe essere solo l’inizio di un capovolgimento dell’intera area, quando le potenze che attualmente, e maldestramente, ne garantiscono la stabilità avranno altre priorità.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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