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Tutti ricordiamo la celebre battuta del grande teorico militare prussiano Carl Philipp von Clausewitz «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Ed è sempre stato grossomodo così. Quando un Paese svelava un disegno espansionistico, oppure si sentiva minacciato da un altro Stato, scattava la guerra che poteva rimanere circoscritta ai duellanti oppure dilagare diventando un conflitto generalizzato. Ma prima e dopo c’era la politica, c’erano vincitori e vinti, c’erano i risarcimenti e le spartizioni di territori, le sfilate e la retorica patriottica.

Oggi le guerre sono cambiate. Non sono più strumenti risolutivi di controversie politiche o economiche, ma sostitute della “politica”. Questa mutazione è avvenuta in Africa e soprattutto in Medio Oriente. La guerra come unico strumento della politica ha conseguenze nefaste per gli Stati coinvolti, che spesso cessano addirittura di esistere. In mancanza di politica, e quindi di piani per il “dopo”, la guerra porta alla frammentazione territoriale e amministrativa, alle secessioni di fatto, alla conflittualità eterna.

La Somalia è stata uno dei primi Paesi a soccombere in quanto tale. L’operazione Restore Hope del 1993 non riuscì a tutelare né i somali né la Somalia, riuscendo invece a rinvigorire i movimenti integralisti che da allora la fanno da padroni. Anche l’Afghanistan è un “non-Stato”, dove governavano i talebani prima dell’invasione NATO e dove i talebani, a distanza 15 anni, continuano a controllare il territorio. Poi c’è stata la vicenda libica, con Francia e Regno Unito che coinvolsero la NATO in un’operazione contro Gheddafi senza avere nessuna idea sul dopo. Anzi, l’intervento militare ha allargato la storica frattura tra Cirenaica e Tripolitania, regioni che solo il Rais era riuscito a tenere insieme.

Ora è il turno della Siria, Paese che avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento della Libia, in questo caso perché alleato dell’Iran. Il regime di Bashar al-Assad è stato sfidato da Qatar, Arabia Saudita e Turchia, che hanno armato oppositori di ogni tipo, soprattutto salafiti e jihadisti vari. Ovviamente con l’Occidente diviso tra complici e distratti. Dal disastro siriano sono scappati per ora 5 milioni di profughi, e proprio in Siria è dilagato il temuto l’Isis. Che era nato nell’ennesimo “non-Stato”, l’Iraq diviso tra sciiti, kurdi e sunniti, tutti armati. L’Iraq appunto, che in mancanza di un piano B sia George Bush padre sia Bill Clinton avevano preferito lasciare in mano a Saddam Hussein. Per George W. Bush, invece, il problema non si poneva. E si è visto com’è andata.

La guerra è uno strumento orribile in sé. Se a ciò si aggiunge l’aggravante dell’essere fine a se stessa, priva di un disegno politico, diventa pure totalmente inutile. L’elenco dei Paesi che rimangono tali solo sulle carte geografiche perché finiti nel tritacarne bellico si allunga, eppure la politica continua a tacere. In questi anni di grande confusione, solo la Russia post-sovietica sta seguendo una ferrea strategia, tutelando le sue frontiere con la NATO in Crimea e in Ucraina, e difendendo le sue basi militari sul Mediterraneo in Siria. Tutto il resto è confusione e improvvisazione a differenza dei videogames, i conflitti non possono essere cancellati per ripartire di nuovo.

Gli strateghi del nuovo potere globale confondono strumenti, obiettivi e metodo. Per trovare un nuovo assetto per il Medio Oriente, la madre di tutte le guerre in corso, il primo passo è mettere in discussione la “politica-armata”. Anche perché il peso delle conseguenze sulla popolazioni locali e su quelle che vivono a distanza ravvicinata, anche in Europa, diventerà presto definitivamente insostenibile.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

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La partita a scacchi dell’IS per prendere il controllo del frantumato mondo sunnita continua a registrare successi. Le conquiste militari in Libia confermano che ormai nulla si può opporre alla forza degli uomini di Al-Baghdadi: un gruppo armato dai contorni molto più definiti rispetto ad Al-Qaida, una vera milizia che i commentatori nostrani continuano a definire “terrorista” nonostante stia combattendo sul terreno, assemblando nuovi pezzi di quell’entità territoriale che è stata ribattezzata “Califfato”.

È un retroterra, quello dell’IS, che si alimenta attraverso i canali tradizionali di finanziamento dell’estremismo sunnita armato (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Yemen), ma che sta costruendo una sua autonomia economica muovendosi sullo scenario mediorientale e nordafricano per conquistare il controllo del petrolio. Si tratta di un gruppo che sta combattendo una guerra territoriale ma che fa propaganda globale, minacciando di far sventolare drappi neri sul Vaticano: una propaganda che serve a reclutare “internazionalisti” e a incassare sostegni economici. Le minacce sono chiaramente una cortina fumogena e vengono considerate reali solo da qualche ministro degli Esteri improvvisato.

La Libia, fin dal 2011, era uno di quei “Paesi falliti” facili da conquistare oltre che ricchi di petrolio. Dopo la detronizzazione di Gheddafi, avvenuta senza che esistesse nessun piano per gestirne le conseguenze, lo Stato aveva cessato di esistere (almeno così come l’avevamo conosciuto fino a quel momento) ed era caduto preda del caos e delle scorribande di opposte bande armate, sostenute da diverse potenze straniere.

Eppure la situazione non turbava l’Occidente, fatta eccezione per i barconi di disperati in viaggio dalle coste libiche verso Lampedusa. Insomma, tutto bene tranne il fastidio dei clandestini. Ma è bastato l’affacciarsi degli jihadisti di Al-Baghdadi perché all’improvviso la Libia diventasse un problema internazionale degno di essere discusso dall’ONU, e sicuramente meritevole di un intervento militare urgente. Come nel 2011 con Gheddafi, come nel 2001 con l’Afghanistan, come nel 2003 in Iraq, come nel 2014 in Siria, anche stavolta qualcuno vorrebbe partire armati per mettere ordine, abbattere dittatori, occupare Paesi senza avere la minima idea di come uscirne, di che cosa succederà dopo. Una politica internazionale che è tale solo per modo di dire non può che produrre risultati sempre più negativi.

Le armi, e soprattutto i droni, nella testa di strateghi e politici sono diventati strumenti risolutivi non soltanto dal punto di vista militare ma anche da quello politico. Ma questa teoria viene regolarmente smentita al momento della verità, cioè quando i “Paesi canaglia” si disfano, si polverizzano, cadono nelle mani degli invasati di turno, sempre foraggiati da coloro che sulla carta sarebbero i “nostri” alleati.

Ora sarebbe di nuovo il turno della Libia che già non esiste più, divisa in due entità territoriali a loro volta frantumate da contrapposizioni di stampo più etnico che politico. Solo l’ENI resisteva, e forse per questo fino a ieri ci si comportava come se tutto stesse andando per il meglio. Ma quando i pozzi non pompano più petrolio per le nostre automobili e cominciano a rifornire il Califfato, allora le cose si mettono ufficialmente male.

L’ONU ormai dimenticata da tutti sarà di nuovo tirata in ballo. Ban ki-Moon farà il suo classico appello alla pace. Poi potrebbe ripartire all’improvviso la storia che conosciamo e che sta condannando interi popoli a regredire fino ai tempi dei Califfati veri. Noi però, come Europa, per l’ennesima volta non avremo il coraggio di darci una politica estera comune e credibile, di formulare una politica per il Mediterraneo che ne metta in sicurezza la sponda sud attraverso la cooperazione.

Il dramma della nostra politica estera è che, quando vuole guardare oltre i barconi, non ha più gli strumenti né per capire né per intervenire. Parla (e agisce) inevitabilmente a vanvera.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Ieri, 27 luglio 2014, l’ambasciatrice statunitense in Libia Deborah Jones, ha deciso l’evacuazione della sua ambasciata a Tripoli. Una lunga carovana di centinaia di mezzi sta trasportando documenti, armi e persone verso il confine con la Tunisia. Con questo esodo diplomatico si conclude una delle più maldestre operazioni di “polizia internazionale” degli ultimi decenni. Con l’alibi di sostenere la rivolta di Bengasi del febbraio 2011, l’ex presidente francese Sarkozy e il premier britannico Camerun riuscirono a trascinare gli Stati Uniti in un’operazione militare nella quale non erano previsti truppe sul terreno, ma operazione di intelligence, armi ai ribelli e soprattutto bombardamenti. A Sarkozy serviva in realtà un recupero di immagine, piuttosto appannata dal ciclone delle primavere arabe che aveva appena spazzato via il protetto Ben Alì in Tunisia. All’allegra brigata, che agì con copertura giuridica ONU, si aggiunse senza arte ne parte, l’Italia berlusconiana alleata indiscussa di Gheddafi fino a 5 minuti prima. Il resto è storia conosciuta, la caduta del regime del rais e la sua fine fisica, il riciclaggio dei suoi funzionari in improbabili governi di transizione, la balcanizzazione del paese e lo sbarco incontenibile dell’islamismo radicale. Oggi la Libia, così come l’abbiamo conosciuta, non esiste più, è solo un aggregato sulla mappa, un paese esploso. In questa nuova palude gli Stati Uniti avevano già perso il loro console generale a Bengasi Chris Stevens mettendo in seria crisi Hillary Clinton. Lo scenario che si apre per l’ex colonia italiana, importante fornitrice di gas del nostro paese, è di una nuova guerra intestina per il controllo di brandelli di territorio. Un territorio che però fa ancora gola. La Turchia di Erdogan conduce qui una politica spericolata, come a Gaza peraltro. Insieme al Qatar sono schierati con i movimenti islamisti radicali e ripagati da commesse miliardarie sugli idrocarburi locali. Arabia Saudita e gli Emirati del golfo sostengono invece, insieme agli egiziani, le forze anti-islamiste che si battono contro i Fratelli Musulmani e i radicali di El Sharia. L’Italia sta a guardare e non sa con chi schierarsi, mentre “alleggerisce” la sua presenza oggi rappresentata dalla sola ENI.

E’ il Grande Disordine che avanza e che continua a inghiottire paesi e popoli. E’ l’incapacità per chiunque di esercitare un qualsiasi ruolo di stabilizzatore internazionale. Sono i leader di basso profilo delle ex-potenze globali che non riescono nemmeno a tutelare i propri interessi. E’ la fine dell’illusione di un unilateralismo a stelle e strisce che avrebbe potuto sostituirsi al bipolarismo della Guerra Fredda. La Libia si aggiunge quindi al sempre più lungo elenco di paesi esplosi negli ultimi anni: Somalia, Afghanistan, Iraq, Siria, Sudan ai quali si aggiungono quelli che rischiano di esplodere, come l’Ucraina o il Libano, o quelli che si trascinano senza soluzione di continuità in confitti antichi come Israele e Palestina.

Davanti a questo scenario è chiaro che mancano le due condizioni primordiali perché si possa trovare la famosa “via politica” alla ricomposizione del quadro internazionale. La prima mancanza è quella delle istituzioni del diritto internazionale, sempre meno considerate e praticamente archiviate, la seconda quella della dialettica tra le  “potenze”, ormai ridotta a reciproci e squalidi tentativi di furto di segreti industriali. Si aprono invece vaste praterie per piccole forze irregolari, possiamo continuare pure a chiamarli “terroristi” ma sapendo però che questo termine non spiega nulla, anche se spesso ricche di risorse, che vogliano tentare il grande salto. Il fatto che gruppi di predoni farneticanti come quelli dell’ISIL sirio-iracheno o le tribù in arme libiche potessero aspirare, e forse riuscire, a controllare interi paesi, fino a poco tempo fa sarebbe stato pura fantapolitica. Oggi è invece possibile, e i famosi “poteri  forti” dell’economia mondiale (si legga petrolio e gas) se prima foraggiavano i Gheddafi o i Saddam Hussein, non hanno problemi oggi a foraggiare i tagliagole del califfato. La differenza sostanziale è che i primi garantivano uno Stato coeso che in ultima istanza partecipava al balletto delle nazioni. Queste bande che provano ad occupare il vuoto lasciato dai geniali strateghi occidentali, aldilà che sappiano cosa c’è oltre i confini dei loro territori, sono imprevedibili da tutti i punti di vista. La fine dell’equilibrio della Guerra Fredda in Medio Oriente rischia di ricacciare nel più buio medioevo intere società e categorie particolari, come le donne. La cartina di tornasole della cultura politica dell’islamismo salafita, oggi in veloce crescita sullo scenario mediorientale, è proprio la questione femminile. Le donne sono sempre state il bersaglio prediletto della cultura fascista, della quale i gruppi islamisti radicali in armi sono i novelli esponenti.

 

Alfredo Somoza

 

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Ora che l’iniziativa bellica neo-coloniale di Francia e Gran Bretagna sta raggiungendo il suo scopo immediato, e cioè eliminare il clan tripolitano di Gheddaffi per mandare al potere i cirenaici di Bengassi oltre a  1) assicurarsi che la Libia non si intrometta più negli affari delle ex-colonie francesi e dell’Africa in generale, 2) approfittare della debolezza del governo Berlusconi per scippare un po più di petrolio e dare qualche appalto alle proprie multinazionali.

In queste ore gira in rete il dibattito su cosa avrebbero potuto fare i movimenti pacifisti davanti all’ennesimo conflitto giustificato da “motivi umanitari”.  Non riesco più a immaginare il mondo “pacifista” come
un’entità consolidata in grado di fermare da sola una guerra, soprattutto quando è così chiaro, come nel caso libico, il perché la si fa. Come nel caso della crisi economica, anche nella politica estera “manca la politica”.    E manca il coraggio. La tendenza a sdraiarsi sulle “bizzarrie” dei regimi pur di perpetuare succosi affari lascia il tempo che trova.  La Cina in queste ore sta discutendo una legge che permetterà allo Stato fare “scomparire” i dissidenti per un periodo di tempo senza dovere informare nessuno. Una specie di Guantanamo gigantesco. Abbiamo sentito proteste dai difensori “della libertà”? Il mondo “civile”, fortemente indebitato con la Cina, sta zitto  e si augura che Pechino compri bond. Al resto casomai, in futuro, ci penseremo con una guerra umanitaria.

Gli accordi economici che legano l’Italia con la Libia sono stati perfezionati lungo 10 anni e ricevettero una spinta decisiva durante la gestione degli esteri di D’Alema. Berlusconi ha semplicemente
firmato. Nessuna forza della sinistra si è mai opposta a questi accordi e oggi è nauseante leggere le inchieste di Repubblica sulle torture agli oppositori libici e altre nefandezze del regime di
Ghedaffi che, apparentemente, sono iniziate qualche mese fa, e comunque dopo la visita trionfale a Roma con tanto di predicazione islamica, amazzoni e tende beduine.
La politica estera dovrebbe riscoprire una sua dimensione etica e questo penso sia la grande sfida per le forze progressiste. Qual’è è il giusto punto che può tenere insieme gli interessi nazionali e l’idealità di un mondo più giusto, equo e democratico? Nell’esercizio e nello sviluppo di una politica estera seria e lungimirante risiede la principale prevenzione delle guerre.  Non abbiamo riflettuto seriamente ancora  sul susseguirsi di conflitti, e la loro
natura,  che hanno costellato il post Guerra Fredda, continuando ad affermare che basti la protesta di piazza per “fermare” un conflitto.
“Questo” conflitto libico andava fermato molto prima, perché prevedibile (a intervalli regolari la Cirenaica si ribellava a Ghedaffi e la cosa finiva con bagni di sangue) e l’Italia avrebbe potuto introdurre nel negoziato economico, utilizzando il suo peso politico nel paese nord africano, clausole sull’apertura politica, sulla democrazia a la libertà di espressione e perché no, di riforma dello Stato prevedendo un’aggregazione di tipo federale tra
Tripolitania e Cirenaica. L’Italia s guardò bene  dal farlo. E su questo, allora, nessuno disse nulla.

Alfredo Somoza

Tutto lascia presagire il fallimento, politico prima ancora che militare, dei “volenterosi” che da settimane stanno bombardando a distanza la Libia del colonnello Gheddafi. Al grido d’allarme dei britannici sull’esaurimento dei missili cosiddetti “intelligenti” in possesso della Nato, si aggiungono il ritiro annunciato dalla coalizione della Norvegia (dal primo agosto), il richiamo del Parlamento statunitense a Obama perché smetta di spendere soldi in bombardamenti, e le considerazioni del ministro degli Interni Maroni secondo il quale il conflitto, oltre a costare parecchio all’Italia, non permette di regolare il flusso di profughi in arrivo dall’Africa settentrionale.

Per uscire dall’impasse bellica nella quale, dall’Afghanistan in poi, si è impantanato l’Occidente, bisogna individuare strumenti condivisi e soluzioni al di sopra di ogni sospetto, cercando di coinvolgere attivamente quei Paesi che finora non hanno preso posizione sulla vicenda libica. Il riferimento è agli Stati BRICS (Brasile, Russia, Cina e Sudafrica) i quali, delegando ad altri ogni decisione in sede ONU, fino a questo momento si sono limitati a lasciare la patata bollente nelle mani dell’Occidente “storico”. Un test per capire se i grandi di ieri siano tali ancora oggi: hanno la capacità di gestire, politicamente ed economicamente, uno scontro militare che va a sommarsi ad altri conflitti aperti?

Il disimpegno USA, appena dissimulato da qualche raffica di missili sulla Libia, mette a nudo i conti senza l’oste fatti dalla Francia e dal Regno Unito, che hanno spinto con tutte le loro forze per imporre una soluzione militare alla guerra civile tra la Tripolitania e la Cirenaica libica. Appare evidente l’assoluta debolezza di una logica militare della risoluzione dei conflitti che non tenga conto degli interessi e delle aspirazioni delle potenze che stanno prepotentemente scalando i primi posti dell’economia mondiale. La Libia dimostra che il vecchio metodo non funziona più, ammesso e non concesso che abbia mai funzionato.

Nella storia dell’umanità non si conoscono potenze che si siano rette soltanto sulla forza militare e non anche su quella economica. Ma oggi gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, sono esposti per un quarto del loro indebitamento con la Cina… che per ora continua a finanziarne le inutili guerre senza contropartite politiche. L’Europa dell’adesione automatica alle posizioni di Washington farebbe bene a riflettere sulle proprie priorità. Uno scenario mediorientale e nordafricano in fiamme è quello di cui ha meno bisogno dal punto di vista geopolitico, economico e anche migratorio.

In questa fase si possono individuare alcune analogie con le fasi conclusive degli imperi del passato, da quello romano a quello vittoriano. C’è però una grande differenza: per la prima volta nella storia, a declinare non è una singola realtà, bensì un gruppo di Stati. Proprio quelli che hanno creato e gestito la globalizzazione dal XV secolo in poi. Un declino “sistemico” che coincide con la crescita di un’altra parte del mondo, che in passato era marginale oppure sottomessa. Continuare con la logica dell’esclusione delle nuove potenze dal tavolo della politica internazionale non fa certo ben sperare circa la stabilità del mondo nei prossimi anni. Anzi, appare semplicemente suicida.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)