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C’è un tempismo sospetto nel succedersi degli eventi mediorientali degli ultimi giorni. E’ come un meccanismo impazzito che genera movimenti e reazioni che si manifestano anche a migliaia di chilometri dai luoghi dello scontro. La politica estera statunitense, dai tempi di Bush figlio e della sua lotta al terrore basata sugli interventi in Afganistan e in Iraq, sta incassando frutti indigesti. Il mondo sunnita, fedele alleato di Washington è ora destabilizzato, il mondo sciita che gravita attorno all’Iran, storico antagonista di Washington, è uscito vincitore.

Il collasso dell’Iraq è stata la prima puntata della riscossa di Teheran che non soltanto vedeva sciogliersi il suo principale antagonista, ma in pochi mesi insediava un governo “amico” a Bagdad. La seconda puntata della riscossa iraniana è stata la sua vincente discesa nel conflitto siriano-iracheno, insieme a curdi e russi, per stroncare il progetto dell’Isis di creare un “arco sunnita” che superasse i confini coloniali stabiliti da Francia e Gran Bretagna nel 1916. Il “Sunnistan” dell’Isis è stato un progetto sostenuto politica e finanziariamente dalle monarchie del Golfo e in primis dall’Arabia Saudita e dalla Turchia. L’Isis è un esercito belligerante con truppe e generali provenienti dai ranghi dell’esercito iracheno che aveva in comune con Al Quaida soltanto l’aspetto propagandistico, perché la sua dimensione terroristica finora è stata scagliata soltanto contro i paesi impegnati a combatterli sul campo: Francia, Gran Bretagna, Iran, Turchia (dal voltafaccia di Erdogan), Russia. Al posto del mancato arco sunnita, si è rinforzato quello sciita, che da Teheran arriva in Libano passando dalla Siria e dall’Iraq.

Il progetto del Sunnistan è ora fallito regalando prestigio alla Russia, rilanciando la causa curda, rinforzando gli hezbollah sciiti del Libano e soprattutto regalando all’Iran la posizione di unica potenza militare regionale. Le mosse dell’Arabia Saudita dopo il passaggio di Donald Trump rispetto al Qatar sono difficili da decifrare. Il Qatar sicuramente ha finanziato i Fratelli Musulmani e anche l’Isis (come l’Arabia Saudita), ma era l’unico degli statarelli del Golfo ad avere buoni rapporti con l’Iran e forse questo è bastato per la messa al bando. Nemmeno 72 ore dopo, è stato colpito dall’Isis il cuore istituzionale e simbolico dell’Iran. Il Mausoleo di Khomeini e l’unico Parlamento dell’area che in qualche modo ricordi la democrazia sono stati l’obiettivo dell’Isis in ritirata che sancisce con questo attentato lo status dell’Iran come vittima e non come generatore del terrorismo. Anche gli attentati a Parigi e Londra vanno letti così, l’Isis è allo sbando e sull’orlo di perdere le sue roccaforti in Iraq e Siria, quindi raddoppia gli attentati contro i “crociati” alleati sfruttando l’abbondante manodopera pronta al martirio. Una strategia che senza più capacità belligerante sul campo mediorientale è perdente e residuale.

L’Arabia Saudita con le misure anti-Qatar vorrebbe fare dimenticare velocemente la sua sconfitta geopolitica. Non solo il suo “braccio armato” non è riuscito a consolidare il sunnistan, ma l’intervento militare nello Yemen sta diventando un vero e proprio Vietnam. Se Donald Trump ha promesso nel suo viaggio di sostenere questa politica, che anzitutto destabilizza i suoi alleati (il Qatar ospita la più grande base militare USA della regione), sarà l’Arabia Saudita a pagare il conto. Indebitandosi per comprare armi e ancora armi che potrebbero servire solo per un certo tipo di conflitto, quello contro l’Iran. Una scalation bellica tra Iran e Arabia Saudita rischierebbe di trascinarsi dietro l’intero mondo arabo e le potenze globali, Usa e Russia in primis. Uno scenario da dottor Stranamore, quale sembra essere la cifra della nuovo diplomazia di Washington.

In conclusione, stiamo vivendo l’inizio della fine del conflitto siriano-iracheno e la notizia è che è stato perso dall’Arabia Saudita e dai suoi vassalli. Stanno vincendo un mix di forze che vanno dalla Russia all’Iran, passando dai curdi che diventeranno a tutti gli effetti forze di “stabilizzazione” a conflitto concluso. Gli Stati Uniti hanno puntato sul cavallo perdente, anche se almeno Obama sancì la fine delle ostilità sul nucleare iraniano generando un credito nei confronti degli ayatollah, mentre l’Europa ha sbagliato tutto dall’inizio, aprendo l’autostrada della Jihad ai ragazzi che volevano andare a rovesciare Assad in Siria per ritrovarseli ora di ritorno radicalizzati e con esperienza militare.

E’ come se si fosse giocata una grande partita che ha spostato confini, sfere di influenza, popolazioni, capitali e che ci consegnerà un nuovo Medio Oriente, non più disegnato sui confini coloniali, ma sulla visione dei vincitori. Una riscrittura degli equilibri geopolitici che, come sempre in quella martoriata zona del pianeta, sta avvenendo in un drammatico bagno di sangue.

 

Il 2016 che si chiude è stato un anno ricco di eventi internazionali, di svolte e di sorprese. Il conflitto mediorientale ha prodotto ancora morti, distruzione, tragedie. Nel 2015 il protagonista era stato l’Isis, nel 2016 sono tornate in campo le potenze mondiali, la Russia e gli USA, e quelle regionali, come Turchia e Iran. La svolta bellica in Iraq e in Siria ha visto anche il protagonismo dei curdi che, in mezzo al grande caos, si stanno ritagliando pezzo dopo pezzo la tanto agognata costruzione di uno Stato. Uno scenario nel quale si sono incrociate e mescolate guerre intestine tra minoranze etniche e religiose, tra governi e governati, e sul quale sono tornati a misurarsi gli eterni contendenti della Guerra Fredda in versione aggiornata. Uno scenario nel quale la democrazia e il rispetto dei diritti umani, storici paraventi per le scorribande neocoloniali, sono ormai sfumati. Si rinforzano gli Assad e gli Al Sisi, i talebani diventano interlocutori sempre meno nascosti, e l’Arabia Saudita ridimensionata nella Mezzaluna fertile si rifà sullo Yemen. Il Medio Oriente si incammina velocemente verso la ridefinizione dei confini e delle rispettive signorie, ma la consolidata ricetta dei tiranni che garantiscono stabilità, a prescindere dai metodi, si riconferma l’unica strategia delle potenze per quella martoriata zona del pianeta.

In Europa la costruzione comunitaria traballa e si riaccendono paure di ritorni a un passato che si pensava sepolto. La Brexit, la crescita dei partiti estremisti, la fine annunciata dell’ideale europeista mettono a nudo l’inconcludenza di una politica che si è accontentata di gestire l’esistente, dimenticandosi delle sofferenze, delle paure, dei bisogni dei cittadini. Cittadini sempre più esclusi dal dibattito relativo all’economia e alla globalizzazione, ma che detengono ancora l’arma più efficace per punire o premiare: il voto.

L’evento che ha creato più rumore mediatico in assoluto, l’elezione del candidato antisistema Donald Trump, un nome uscito dal cuore del sistema, va letto in quest’ottica. Le contraddizioni che hanno portato il magnate di New York a diventare presidente degli Stati Uniti si spiegano soltanto nel clima generalizzato di ritorno al protezionismo, dovuto al fallimento di una parte delle promesse della globalizzazione: quelle che riguardavano i Paesi occidentali, dai quali sono usciti capitali e competenze per andare a creare economia altrove, lasciandosi alle spalle deserti sociali nelle vecchie città manifatturiere.  Nuovi ceti medi in Oriente e nuove povertà in Occidente sono le due facce della stessa moneta. Ma la moneta è stata accumulata solo da pochi soggetti, transnazionali, che hanno dato vita a un gigantesco impero mondiale esentasse senza mai farsi carico dell’impatto delle loro politiche industriali.

Il 2016, insomma, è stato un anno pieno di segnali negativi, e non solo per la crisi che si trascina. La pazienza è finita in molti Paesi, la politica lo ha capito ma ormai non ha più il potere di invertire la rotta: i giochi sono fatti da altri, il “si salvi chi può” diventa una tentazione di massa. In questo panorama, una sola potenza è rimasta stabile e agisce da forza stabilizzatrice. La Cina. L’unica potenza che prescinde dal consenso popolare, che garantisce continuità alle sue politiche, che continua a investire capitali in giro per il mondo. È però impensabile un unipolarismo basato solo su Pechino, il mondo ha bisogno di altri pesi e contrappesi. E nell’anno che arriva sarà questa l’urgenza per la comunità internazionale: pensare lungo, uscire dalla logica dell’emergenza e del volare basso, tornare a immaginare e a fare politica globale.

 

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Tutti ricordiamo la celebre battuta del grande teorico militare prussiano Carl Philipp von Clausewitz «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Ed è sempre stato grossomodo così. Quando un Paese svelava un disegno espansionistico, oppure si sentiva minacciato da un altro Stato, scattava la guerra che poteva rimanere circoscritta ai duellanti oppure dilagare diventando un conflitto generalizzato. Ma prima e dopo c’era la politica, c’erano vincitori e vinti, c’erano i risarcimenti e le spartizioni di territori, le sfilate e la retorica patriottica.

Oggi le guerre sono cambiate. Non sono più strumenti risolutivi di controversie politiche o economiche, ma sostitute della “politica”. Questa mutazione è avvenuta in Africa e soprattutto in Medio Oriente. La guerra come unico strumento della politica ha conseguenze nefaste per gli Stati coinvolti, che spesso cessano addirittura di esistere. In mancanza di politica, e quindi di piani per il “dopo”, la guerra porta alla frammentazione territoriale e amministrativa, alle secessioni di fatto, alla conflittualità eterna.

La Somalia è stata uno dei primi Paesi a soccombere in quanto tale. L’operazione Restore Hope del 1993 non riuscì a tutelare né i somali né la Somalia, riuscendo invece a rinvigorire i movimenti integralisti che da allora la fanno da padroni. Anche l’Afghanistan è un “non-Stato”, dove governavano i talebani prima dell’invasione NATO e dove i talebani, a distanza 15 anni, continuano a controllare il territorio. Poi c’è stata la vicenda libica, con Francia e Regno Unito che coinvolsero la NATO in un’operazione contro Gheddafi senza avere nessuna idea sul dopo. Anzi, l’intervento militare ha allargato la storica frattura tra Cirenaica e Tripolitania, regioni che solo il Rais era riuscito a tenere insieme.

Ora è il turno della Siria, Paese che avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento della Libia, in questo caso perché alleato dell’Iran. Il regime di Bashar al-Assad è stato sfidato da Qatar, Arabia Saudita e Turchia, che hanno armato oppositori di ogni tipo, soprattutto salafiti e jihadisti vari. Ovviamente con l’Occidente diviso tra complici e distratti. Dal disastro siriano sono scappati per ora 5 milioni di profughi, e proprio in Siria è dilagato il temuto l’Isis. Che era nato nell’ennesimo “non-Stato”, l’Iraq diviso tra sciiti, kurdi e sunniti, tutti armati. L’Iraq appunto, che in mancanza di un piano B sia George Bush padre sia Bill Clinton avevano preferito lasciare in mano a Saddam Hussein. Per George W. Bush, invece, il problema non si poneva. E si è visto com’è andata.

La guerra è uno strumento orribile in sé. Se a ciò si aggiunge l’aggravante dell’essere fine a se stessa, priva di un disegno politico, diventa pure totalmente inutile. L’elenco dei Paesi che rimangono tali solo sulle carte geografiche perché finiti nel tritacarne bellico si allunga, eppure la politica continua a tacere. In questi anni di grande confusione, solo la Russia post-sovietica sta seguendo una ferrea strategia, tutelando le sue frontiere con la NATO in Crimea e in Ucraina, e difendendo le sue basi militari sul Mediterraneo in Siria. Tutto il resto è confusione e improvvisazione a differenza dei videogames, i conflitti non possono essere cancellati per ripartire di nuovo.

Gli strateghi del nuovo potere globale confondono strumenti, obiettivi e metodo. Per trovare un nuovo assetto per il Medio Oriente, la madre di tutte le guerre in corso, il primo passo è mettere in discussione la “politica-armata”. Anche perché il peso delle conseguenze sulla popolazioni locali e su quelle che vivono a distanza ravvicinata, anche in Europa, diventerà presto definitivamente insostenibile.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

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I bombardamenti alle forze combattenti dell’ISIS da parte della Turchia sono stati salutati come una “svolta” di Erdogan, finalmente allineata con Washington e facente parte della coalizione anti-Califfato. Se invece di svolta diciamo cortina fumogena rilasciata ad arte per coprire il vero obiettivo forse capiamo di più il disegno di Ankara.  L’ISIS, generato, armato, formato e sostenuto da un vasto cartello di paesi arabi sunniti, tra i quali la Turchia, non è mai stato un problema per Erdogan, anzi. L’altra parte dell’attacco turco, quello contro le forze combattenti curde del PKK, svela invece cosa c’è dietro il fumo. I curdi sono il nemico di sempre, sono quella maledetta minoranza che non ha mai accettato di  scomparire come entità politica e culturale dopo la fine dell’Impero Ottomano e la conseguente disgregazione del Kurdistan tra 5 stati. Sono quella minoranza agguerrita che proprio in Turchia ha appena incassato un piccolo-grande successo politico, portando in Parlamento oltre 50 deputati, dopo avere provato per anni la via armata senza successo. I curdi che sono diventati autonomi in Iraq, che lo diventeranno presto, se riusciranno a sopravvivere, in Siria, e che ora preoccupano più di prima Erdogan. Nel marasma mediorientale, dove si stanno disgregando interi stati, solo i curdi, pagando un prezzo altissimo, stanno avanzando invece verso la loro utopia di rivedere un giorno un loro paese indipendente. Per questo i bombardamenti turchi all’ISIS, un grande “alleato” nel lavoro di “contenimento” dei curdi, non può essere l’obiettivo vero, caso mai è stato il prezzo che Ankara ha dovuto pagare a Washington per rimettere mano alla questione curda.

 

Alfredo Somoza

 

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Sono tempi bui per la democrazia nel mondo. All’indomani della caduta del Muro di Berlino, la democrazia pareva il destino ineluttabile dell’umanità, insieme all’economia globalizzata di mercato: ma quell’illusione viene smentita ogni giorno dai fatti. Sarà perché la globalizzazione non era in sé tanto democratica, e ha finito con il creare una schiera di vincitori e di perdenti senza possibilità d’appello. Sarà anche perché, per entrare nel club dei vincitori, non è stato mai richiesto un passe-partout democratico. Anzi, non a caso, i primi e fondamentali passi per dare il via al processo globale furono mossi verso la Cina, diventata oggi una potenza mondiale pur avendo mantenuto gli stessi livelli di autoritarismo di un tempo.

E così è accaduto che, mentre nei Paesi democratici le riforme imprescindibili per agganciarsi al carro della globalizzazione si sono tradotte in un calo notevole dei diritti individuali, nei Paesi guidati da dittature la crescita economica ha consolidato le strutture di potere senza metterle in discussione.

Appurato che la crescita economica non coincide necessariamente con l’aumento delle libertà individuali e collettive, bisogna aggiungere che oggi la democrazia è sotto tiro anche in aree dove la povertà regna indisturbata: in particolare in quelle aree dove, senza risparmiare mezzi militari, sono state tentate diverse operazioni fallimentari di “esportazione” della democrazia, come se questa forma di governo fosse anch’essa una merce, a disposizione di tutti sul mercato. L’amaro risveglio dalle cosiddette “primavere arabe” ha visto il ritorno dei generali in Egitto, la fine della Libia come Stato unitario, la lotta all’ultimo sangue per rovesciare la democrazia tunisina.

Le forze antagoniste o terroristiche che operano in questi Paesi sono state allevate e foraggiate da diversi regimi totalitari del Golfo, che però nel gioco della globalizzazione siedono al tavolo delle potenze credibili e autorevoli grazie al loro portafoglio gonfio di petrodollari. Non si è mai vista, per esempio, un’operazione miliardaria di marketing turistico come quella che da alcuni anni decanta i Paesi del Golfo come nuovi paradisi terrestri, quando in realtà si tratta di Stati che si reggono sullo sfruttamento disumano del lavoro immigrato, sull’intolleranza culturale e di genere, su amicizie pericolose sulla scacchiera internazionale. E anche di sicuri paradisi fiscali. Insomma, quando si decantano i fasti di Dubai o di Doha si cancella l’altra faccia, quella sporca, perché la democrazia, se si è ricchi, diventa un optional.

Per l’ISIS e simili non ci sono invece dubbi. Nel ristretto orizzonte culturale di questi movimenti non c’è spazio per un sistema di governo che permetta di scegliere, dissentire o contestare il capo. La recente scena dei deputati tunisini rinchiusi in Parlamento a cantare il loro inno nazionale ci riporta a pagine epiche della resistenza all’autoritarismo e chiarisce definitivamente quanto la lotta in corso in Medio Oriente nulla abbia a che fare con la religione, ma piuttosto con la democrazia. Una guerra che riduce gli spazi di libertà anche in Occidente, dove le leggi antiterroristiche varate d’urgenza stanno consegnando agli Stati poteri d’intromissione, controllo e polizia nei confronti dei cittadini inimmaginabili fino a qualche anno fa.

Winston Churchill riteneva che la democrazia fosse la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre: il suo celebre aforisma rischia però di essere definitivamente consegnato alla storia, se l’internazionale del terrore riuscirà a imporre anche a noi la sua visione. Perché, se la risposta delle democrazie mature sarà quella di misurarsi sul campo (minato) preferito dal nemico, la guerra per la democrazia a livello mondiale sarà definitivamente persa.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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La fine annunciata dei reality che facevano furore nei primi anni 2000, quelli dove un gruppo di “famosi” o aspiranti tali doveva sopravvivere in qualche isola remota, ci racconta i cambiamenti nella sensibilità media. Ora che l’etere è stato saturato da cuochi veri o improvvisati e da medici legali che dall’esame di ossa e tessuti riescono a ricostruire crimini sempre più raccapriccianti, l’esotismo naif dei reality ai Tropici sembra fuori luogo. In fondo, cosa sarà mai doversi districare tra zanzare aggressive e granchi minuscoli, quando i drammi veri sono diventati il dilagare dei serial killer o il rischio della pasta scotta?

Le varie isole dei famosi, format internazionale replicato ovunque, arrivavano due decenni dopo l’inizio del turismo di massa nei villaggi-vacanze, tutti uguali, dislocati alle latitudini equatoriali. Il set era l’antitesi del “tutto compreso”: il cibo andava conquistato con sudore e perseveranza. Il contrario, appunto, dello spreco delle mense dei villaggi, dove si trova di tutto a tutte le ore, dove si riempiono i piatti per poi lasciare metà del cibo intatto. E spesso questo accade in Paesi dove si soffre la fame, con bilance dei pagamenti che devono sopportare il fardello dell’import di beni di lusso, almeno per gli standard locali, da consumarsi solo dentro i villaggi.

Altre caratteristiche di questi reality ricalcano invece aspetti culturali tipici dei villaggi turistici, come la totale mancanza di rispetto nei confronti della natura. È noto che i beach resort sono stati costruiti quando non si pensava ancora agli studi di impatto ambientale, si tagliavano a cuor leggero le mangrovie, si incidevano le barriere coralline, spesso si trascurava perfino il problema del trattamento delle acque nere e dello smaltimento dei rifiuti. Anche i reality in passato si sono contraddistinti per proporre un rapporto traumatico con l’ambiente. Sono ancora fresche le denunce contro quei “famosi” che in Repubblica Dominicana organizzavano i giochi con le fiaccole dentro una grotta con incisioni rupestri, utilizzavano pezzi di stalattite per costruire tavoli e avevano come mascotte un’iguana protetta e in via di estinzione, alla quale erano state tagliate le unghie perché i protagonisti non si facessero male.

Insomma, il villaggio turistico ai Tropici era un assaggio di natura esotica assoggettata ai bisogni di serenità e spensieratezza del cliente. Quella stessa natura, appena fuori dal villaggio, nelle isole dei famosi, tornava ostile. Ovviamente era solo un gioco di specchi e di inganni: in ambedue i casi si riproponevano le miserie della civiltà occidentale opulenta e annoiata.

Oggi l’esotismo non è più così invitante perché, nell’immaginario collettivo, i naufraghi che giocavano a Robinson Crusoe sono stati in qualche modo rimpiazzati dai combattenti “all black” dell’ISIS. Dai Tropici siamo passati ai deserti, dal consumo dell’ambiente al consumo di esseri umani. Ma dove l’occidentale diventa preda, ostaggio e carne da macello, il gioco è stato bandito. Così la paura di quel mondo ignoto, che prima invece ci attirava, sta rilanciando il turismo domestico, comprese nicchie che si consideravano quasi esaurite come il turismo di montagna. Va bene tutto purché alla fine ci si ritrovi vicino a casa, in un luogo sotto controllo, riconoscibile e gestibile. L’esatto contrario dell’era (recente) dei viaggiatori-esploratori che annoiavano parenti e amici con migliaia di fotografie dell’ultimo Paese-trofeo.

Il mondo globalizzato rimane tale solo quando siamo seduti davanti alla televisione, mentre il turismo, tradizionale veicolo di contaminazioni culturali concrete, si è ristretto. L’orticello torna il centro del mondo e della cultura di massa. Ma attenzione, perché dietro la casa di ciascuno di noi potrebbe aggirarsi un cuoco-assassino, l’ultima frontiera della televisione dell’angoscia.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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La partita a scacchi dell’IS per prendere il controllo del frantumato mondo sunnita continua a registrare successi. Le conquiste militari in Libia confermano che ormai nulla si può opporre alla forza degli uomini di Al-Baghdadi: un gruppo armato dai contorni molto più definiti rispetto ad Al-Qaida, una vera milizia che i commentatori nostrani continuano a definire “terrorista” nonostante stia combattendo sul terreno, assemblando nuovi pezzi di quell’entità territoriale che è stata ribattezzata “Califfato”.

È un retroterra, quello dell’IS, che si alimenta attraverso i canali tradizionali di finanziamento dell’estremismo sunnita armato (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Yemen), ma che sta costruendo una sua autonomia economica muovendosi sullo scenario mediorientale e nordafricano per conquistare il controllo del petrolio. Si tratta di un gruppo che sta combattendo una guerra territoriale ma che fa propaganda globale, minacciando di far sventolare drappi neri sul Vaticano: una propaganda che serve a reclutare “internazionalisti” e a incassare sostegni economici. Le minacce sono chiaramente una cortina fumogena e vengono considerate reali solo da qualche ministro degli Esteri improvvisato.

La Libia, fin dal 2011, era uno di quei “Paesi falliti” facili da conquistare oltre che ricchi di petrolio. Dopo la detronizzazione di Gheddafi, avvenuta senza che esistesse nessun piano per gestirne le conseguenze, lo Stato aveva cessato di esistere (almeno così come l’avevamo conosciuto fino a quel momento) ed era caduto preda del caos e delle scorribande di opposte bande armate, sostenute da diverse potenze straniere.

Eppure la situazione non turbava l’Occidente, fatta eccezione per i barconi di disperati in viaggio dalle coste libiche verso Lampedusa. Insomma, tutto bene tranne il fastidio dei clandestini. Ma è bastato l’affacciarsi degli jihadisti di Al-Baghdadi perché all’improvviso la Libia diventasse un problema internazionale degno di essere discusso dall’ONU, e sicuramente meritevole di un intervento militare urgente. Come nel 2011 con Gheddafi, come nel 2001 con l’Afghanistan, come nel 2003 in Iraq, come nel 2014 in Siria, anche stavolta qualcuno vorrebbe partire armati per mettere ordine, abbattere dittatori, occupare Paesi senza avere la minima idea di come uscirne, di che cosa succederà dopo. Una politica internazionale che è tale solo per modo di dire non può che produrre risultati sempre più negativi.

Le armi, e soprattutto i droni, nella testa di strateghi e politici sono diventati strumenti risolutivi non soltanto dal punto di vista militare ma anche da quello politico. Ma questa teoria viene regolarmente smentita al momento della verità, cioè quando i “Paesi canaglia” si disfano, si polverizzano, cadono nelle mani degli invasati di turno, sempre foraggiati da coloro che sulla carta sarebbero i “nostri” alleati.

Ora sarebbe di nuovo il turno della Libia che già non esiste più, divisa in due entità territoriali a loro volta frantumate da contrapposizioni di stampo più etnico che politico. Solo l’ENI resisteva, e forse per questo fino a ieri ci si comportava come se tutto stesse andando per il meglio. Ma quando i pozzi non pompano più petrolio per le nostre automobili e cominciano a rifornire il Califfato, allora le cose si mettono ufficialmente male.

L’ONU ormai dimenticata da tutti sarà di nuovo tirata in ballo. Ban ki-Moon farà il suo classico appello alla pace. Poi potrebbe ripartire all’improvviso la storia che conosciamo e che sta condannando interi popoli a regredire fino ai tempi dei Califfati veri. Noi però, come Europa, per l’ennesima volta non avremo il coraggio di darci una politica estera comune e credibile, di formulare una politica per il Mediterraneo che ne metta in sicurezza la sponda sud attraverso la cooperazione.

Il dramma della nostra politica estera è che, quando vuole guardare oltre i barconi, non ha più gli strumenti né per capire né per intervenire. Parla (e agisce) inevitabilmente a vanvera.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Quanta fatica si fa quando si vuole analizzare un fatto di guerra come se fosse un problema di devianza sociale o di misticismo religioso degenerato ben oltre le righe. Gli esperti che hanno esaminato per primi le riprese della strage di Parigi non hanno avuto dubbi sulla condizione di “reduci di guerra” dei due killer in azione: spigliatezza, freddezza, ma soprattutto l’utilizzo di armi automatiche come i kalashnikov a colpo singolo. Una scelta che può essere fatta soltanto da un professionista, sicuro di centrare il bersaglio senza dover mitragliare e sprecare pallottole. Si tratta dunque di reduci di uno dei conflitti mediorientali che, nel cuore di Parigi, sono stati in grado di procurarsi kalashnikov e lanciarazzi. Nulla di più lontano dalla narrazione delle destre, che presentano tali combattenti come invasati che agiscono per conto di Allah.

Ma anche a sinistra c’è confusione. Si rifiuta il concetto di “guerra” perché lo si associa automaticamente al concetto di “scontro di civiltà” che, da Samuel Huntington a Oriana Fallaci, ci accompagna da un paio di decenni. Tuttavia parlare di guerra è inevitabile, quando dal pazzo isolato che impugna un martello e colpisce a casaccio si passa al commando di reduci ben armati e organizzati. Una guerra reale, però, e non virtuale o culturale. È quella, infinita, per la spartizione dei territori mediorientali che diventarono Stati alla fine del colonialismo e che oggi sono parzialmente regrediti alla condizione precedente, teatro di scontri tra diverse fazioni, tra diverse etnie, tra diversi interessi economici e politici.
Un grande caos nel quale l’Occidente è immerso fino al collo con i suoi alleati e i suoi nemici, con la sua intelligence e i suoi droni. Con i soldati, le multinazionali e i “consulenti”.

Come in tutte le guerre, il contendente più debole sfrutta quanto è a sua disposizione per mandare messaggi, per veicolare la sua propaganda, per fare reclutamento. La strage di Parigi è tutte queste cose insieme: un avvertimento alla Francia, protagonista delle scorribande mediorientali, sulla sua debolezza in casa; un momento di violenta propaganda e uno spot per il reclutamento di nuove leve di combattenti da portare sul fronte.
La battaglia dei gruppi jihadisti ha come obiettivo la conquista di visibilità politica e di spazi geografici in Asia e Africa settentrionale. Da Al Qaida all’ISIS, oggi la vera posta in gioco sono l’Iraq, l’Arabia Saudita, la Libia. Non certo le metropoli occidentali. L’abbattimento delle Torri Gemelle e l’attentato di Madrid non preannunciavano un’invasione delle truppe del Califfo, ma lanciavano un mostruoso avvertimento che, per esempio, la Spagna colse al volo ritirandosi dall’Iraq.

Dovremmo purtroppo dare meno credito ai sociologi e agli esperti di Islam, e più agli analisti bellici. Stiamo assistendo a un conflitto sempre più globale per il controllo di una zona strategica del pianeta, e in questo conflitto ci siamo anche noi. Papa Francesco recentemente ha parlato di una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” e forse non si è sbagliato. Una conflitto sporco che contamina tutti i contendenti e che non risparmia mezzi o sofferenze. Ieri a Parigi e a Kobane, per qualche minuto, è andato in scena lo stesso orrore.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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Medio Oriente e dintorni sono lo specchio sempre più nitido del fallimento della politica occidentale, e non solo, degli ultimi 30 anni. Il grande caos che avanza, con la dissoluzione di Stati “posticci” come Libia e Iraq, o millenari come Siria e Afghanistan, ci riserva ancora grandi e sgradite sorprese. Paragonandoli alla ferocia dell’ISIS, oggi c’è chi rimpiange i talebani, peraltro pronti ad assumere a breve la guida del loro Paese. C’è chi rivaluta l’Iran degli ayatollah, la Siria di Assad e l’Egitto di Al-Sisi in una girandola di alleanze a geometrie variabili, riformulate giorno per giorno e mai dettate da una visione strategica d’insieme.

Alcuni capisaldi restano però saldi, come il finanziamento occulto, ma neanche poi tanto, dell’Arabia Saudita e degli Emirati allo jihadismo sunnita, ieri talebano oggi a guida Al-Baghdadi. Una politica suicida, simile a quella statunitense che sosteneva i mujaheddin afghani o Saddam Hussein in chiave anti-iraniana, che regolarmente si rivolta contro chi la implementa. Basta ricordare il ruolo avuto dal Mossad nel radicamento dei Fratelli Musulmani, alias Hamas, in territorio palestinese al fine di erodere il consenso di Al-Fatah di Yasser Arafat, all’epoca in esilio.

L’Occidente ripete anche lo stesso approccio sbagliato in base al quale definisce ogni nuova forza antagonista (talebani, Saddam, Al-Qaida, ISIS) come una minaccia “per l’Occidente”, quando tutti questi movimenti, e altre centinaia impegnati nel macello mediorientale, lottano per controllare il proprio territorio, saldare i conti con altre confessioni religiose, spazzare via minoranze. Nessuno di loro ha lontanamente come obiettivo la conquista di Washington: gli USA e i loro alleati diventano nemici solo quando interferiscono, e cioè quando inviano truppe e soldi negli scenari della disputa. Da questo punto di vista, le minacce dell’ISIS contro l’Occidente sono diretta conseguenza della nascita di una coalizione guidata dagli Stati Uniti per intervenire in Siria e Iraq.

Rispetto al passato, la galassia che si oppone ai governi locali alleati dell’Occidente ha imparato, e bene, a utilizzare i media. I video che hanno come protagonista “Jihadi John”, il boia così battezzato dai giornalisti inglesi per via del suo accento, sono veri e propri videoclip. Riprese in HD effettuate da almeno tre telecamere, protagonisti vestiti come Lawrence d’Arabia, vittime vestita come a Guantanamo, fondali da deserto hollywoodiano, luccichio della lama del coltello, audio impeccabile, regia evidente. Siamo lontani anni luce dai video artigianali di Bin Laden dentro le grotte, con il Kalashnikov e il tappeto delle preghiere come unici pezzi d’arredo. La guerra condotta con altri mezzi, e cioè quelli della propaganda, non è più monopolio del solo Occidente.

Per noi semplici mortali, distanti anni luce da questi scenari, è praticamente impossibile capire quale immagine corrisponda al vero e quale sia stata manipolata, chi siano gli attori e i finanziatori dello show, quali gli interessi in gioco e i trofei da esibire al pubblico di riferimento. Nemmeno i migliori analisti riescono a cogliere la complessità di questa conflittualità diffusa, a fornirci una visione d’insieme ipotizzando anche una via di uscita. Per questo motivo la cosa più facile è immaginare che il significato, l’obiettivo finale dei fatti mediorientali sia la distruzione dell’Occidente, vittima di una Spectre che si rinnova nel tempo rimanendo sempre impenetrabile e insondabile. Una lettura per niente rassicurante, ma che tenta di dare un senso a ciò che accade. Mai come in questo periodo servirebbero strumenti adeguati per interpretare il senso del grande disordine: ma chi li possiede, per motivi a noi ignoti, ce li nega, spacciandoci istantanee disordinate di una realtà che, vista così, assomiglia a un brutto film. Di quelli che difficilmente possono avere un lieto fine.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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Ieri, 27 luglio 2014, l’ambasciatrice statunitense in Libia Deborah Jones, ha deciso l’evacuazione della sua ambasciata a Tripoli. Una lunga carovana di centinaia di mezzi sta trasportando documenti, armi e persone verso il confine con la Tunisia. Con questo esodo diplomatico si conclude una delle più maldestre operazioni di “polizia internazionale” degli ultimi decenni. Con l’alibi di sostenere la rivolta di Bengasi del febbraio 2011, l’ex presidente francese Sarkozy e il premier britannico Camerun riuscirono a trascinare gli Stati Uniti in un’operazione militare nella quale non erano previsti truppe sul terreno, ma operazione di intelligence, armi ai ribelli e soprattutto bombardamenti. A Sarkozy serviva in realtà un recupero di immagine, piuttosto appannata dal ciclone delle primavere arabe che aveva appena spazzato via il protetto Ben Alì in Tunisia. All’allegra brigata, che agì con copertura giuridica ONU, si aggiunse senza arte ne parte, l’Italia berlusconiana alleata indiscussa di Gheddafi fino a 5 minuti prima. Il resto è storia conosciuta, la caduta del regime del rais e la sua fine fisica, il riciclaggio dei suoi funzionari in improbabili governi di transizione, la balcanizzazione del paese e lo sbarco incontenibile dell’islamismo radicale. Oggi la Libia, così come l’abbiamo conosciuta, non esiste più, è solo un aggregato sulla mappa, un paese esploso. In questa nuova palude gli Stati Uniti avevano già perso il loro console generale a Bengasi Chris Stevens mettendo in seria crisi Hillary Clinton. Lo scenario che si apre per l’ex colonia italiana, importante fornitrice di gas del nostro paese, è di una nuova guerra intestina per il controllo di brandelli di territorio. Un territorio che però fa ancora gola. La Turchia di Erdogan conduce qui una politica spericolata, come a Gaza peraltro. Insieme al Qatar sono schierati con i movimenti islamisti radicali e ripagati da commesse miliardarie sugli idrocarburi locali. Arabia Saudita e gli Emirati del golfo sostengono invece, insieme agli egiziani, le forze anti-islamiste che si battono contro i Fratelli Musulmani e i radicali di El Sharia. L’Italia sta a guardare e non sa con chi schierarsi, mentre “alleggerisce” la sua presenza oggi rappresentata dalla sola ENI.

E’ il Grande Disordine che avanza e che continua a inghiottire paesi e popoli. E’ l’incapacità per chiunque di esercitare un qualsiasi ruolo di stabilizzatore internazionale. Sono i leader di basso profilo delle ex-potenze globali che non riescono nemmeno a tutelare i propri interessi. E’ la fine dell’illusione di un unilateralismo a stelle e strisce che avrebbe potuto sostituirsi al bipolarismo della Guerra Fredda. La Libia si aggiunge quindi al sempre più lungo elenco di paesi esplosi negli ultimi anni: Somalia, Afghanistan, Iraq, Siria, Sudan ai quali si aggiungono quelli che rischiano di esplodere, come l’Ucraina o il Libano, o quelli che si trascinano senza soluzione di continuità in confitti antichi come Israele e Palestina.

Davanti a questo scenario è chiaro che mancano le due condizioni primordiali perché si possa trovare la famosa “via politica” alla ricomposizione del quadro internazionale. La prima mancanza è quella delle istituzioni del diritto internazionale, sempre meno considerate e praticamente archiviate, la seconda quella della dialettica tra le  “potenze”, ormai ridotta a reciproci e squalidi tentativi di furto di segreti industriali. Si aprono invece vaste praterie per piccole forze irregolari, possiamo continuare pure a chiamarli “terroristi” ma sapendo però che questo termine non spiega nulla, anche se spesso ricche di risorse, che vogliano tentare il grande salto. Il fatto che gruppi di predoni farneticanti come quelli dell’ISIL sirio-iracheno o le tribù in arme libiche potessero aspirare, e forse riuscire, a controllare interi paesi, fino a poco tempo fa sarebbe stato pura fantapolitica. Oggi è invece possibile, e i famosi “poteri  forti” dell’economia mondiale (si legga petrolio e gas) se prima foraggiavano i Gheddafi o i Saddam Hussein, non hanno problemi oggi a foraggiare i tagliagole del califfato. La differenza sostanziale è che i primi garantivano uno Stato coeso che in ultima istanza partecipava al balletto delle nazioni. Queste bande che provano ad occupare il vuoto lasciato dai geniali strateghi occidentali, aldilà che sappiano cosa c’è oltre i confini dei loro territori, sono imprevedibili da tutti i punti di vista. La fine dell’equilibrio della Guerra Fredda in Medio Oriente rischia di ricacciare nel più buio medioevo intere società e categorie particolari, come le donne. La cartina di tornasole della cultura politica dell’islamismo salafita, oggi in veloce crescita sullo scenario mediorientale, è proprio la questione femminile. Le donne sono sempre state il bersaglio prediletto della cultura fascista, della quale i gruppi islamisti radicali in armi sono i novelli esponenti.

 

Alfredo Somoza

 

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