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L’elezione dell’Assemblea Costituente in Venezuela, duramente contestata  dall’opposizione, segna la fine ufficiale del chavismo. Il 41% di elettori che si sono recati alle urne dichiarato dal governo (senza dire cosa hanno votato), o il 12% dichiarato dall’opposizione, sono comunque numeri che nella migliore delle ipotesi certificano la fine di un progetto. Il chavismo senza popolo non può esistere.

In Venezuela era collassato lo Stato con il caracazo del 1989, la rivolta dei poveri della capitale venezuelana affogata nel sangue, che avrebbe spazzato via i vecchi partiti nazionali aprendo la stagione del parà Hugo Chávez. Il primo presidente uscito dalla disgregazione del sistema politica tradizionale. Un politico di razza, populista nei modi, ma in grado di comunicare sinceramente con il suo popolo. L’uomo che riuscì nell’impresa di ridistribuire la rendita petrolifera sulla quale campa il Venezuela da quasi un secolo. E’ innegabile che il welfare chavista abbia raggiunto settori della popolazione mai toccati da nessuna forma di assistenza. Lo scambio petrolio-medici con Cuba garantì per la prima volta a milioni di venezuelani la possibilità di curarsi. Un Venezuela che cavalcava l’onda del petrolio oltre i 100 dollari al barile, ma che continuava a perpetuare, anche se con soggetti diversi, la corruzione dell’apparato statale e parastatale. Anzi, il Venezuela chavista trasferisce una buona fetta di potere direttamente nelle mani dei militari, i quali chiuderanno i due occhi, ovviamente non gratis, sul passaggio della cocaina colombiana che dal Venezuela parte per i mercati del Nord. Il Venezuela, che ha sempre dipeso per la sua fortuna dalle esportazioni di greggio verso gli Stati Uniti, ha giocato con Chavez a tutto campo una politica di “non allineamento” che lo portò a solidarizzare con l’Iran, minacciare di rompere relazioni diplomatiche con Israele, vendere petrolio agli USA e ai cinesi, finanziare mega-raffinerie in Brasile, comprare bond argentini e regalare petrolio ai cubani. Uno sforzo immane dal punto di vista economico, un dissanguamento costante ai tempi delle vacche grasse, ma senza mai avere avuto un progetto economico sostenibile per un Venezuela che, dopo la scomparsa di Chavez e il notevole abbassamento del livello politico della nuova classe dirigente, sta portando il paese al collasso. I piani di industrializzazione che avrebbero dovuto ridurre la dipendenza dai paesi manifatturieri, la riforma agraria che avrebbe dovuto aumentare la capacità del paese nella produzione di alimenti sono falliti. Oggi, come 20 anni fa, il Venezuela dipende dal gas e dal petrolio per tentare di chiudere i conti pubblici e degli alimenti e i manufatti prodotti all’estero. Ma il peggio è arrivato con la successione di Chavez, morto prematuramente nel 2013, e l’arrivo al potere del suo successore “designato” Nicolas Maduro che aveva come unica virtù la sua fedeltà al leader e alla sua cerchia magica. Con Maduro la politica è scomparsa per lasciare luogo solo alla demagogia ai limiti del grottesco. Ogni ipotesi di programmazione economica è stata spazzata via dall’iperinflazione, dalla svalutazione della moneta, dalla fuga degli investitori. Maduro non aveva un piano B per fare fronte al prezzo di 35-40 dollari al barile di petrolio. L’inflazione, come sempre, ha ridotto gli stipendi a briciole, mentre la crisi ha svuotato gli scafali. Un caos che in qualsiasi altro paese avrebbe portato alle dimissioni del governo e a elezioni anticipate, ma che nel Venezuela post-chavista regge ancora perché l’esercito, la vera spina dorsale dello stato, non ha deciso ancora di abbandonare la barca.  E anche perché l’opposizione, unita solo dall’anti-chavismo, è formata da molte e contraddittorie personalità e non ha manifestato, finora, né leadership credibile né un programma politico oltre lo scontro di piazza. Nell’incendio venezuelano le vittime della violenza politica sono maggioritariamente ascrivibile al governo, ma tra le pieghe dell’opposizione circolano gruppi estremisti armati che hanno dato un loro contributo a fare crescere il saldo delle vittime. In linea di principio però, è lo Stato che dovrebbe garantire l’incolumità di chavisti e anti-chavisti e questo compito è stato drammaticamente mancato.

In Venezuela purtroppo i pronostici sono pessimi. Le ipotesi sono tre, la trasformazione del governo in regime dittatoriale con la sospensione delle elezioni del 2018 e l’annullamento del Parlamento in mano agli oppositori, l’ulteriore radicalizzazione delle piazze fino al crollo dello Stato, e come conseguenza di questo secondo scenario, l’intervento dei militari “per mettere ordine”. Tre ipotesi drammatiche conseguenze del rifiuto di accettare un tavolo per il dialogo avanzato da più parti e nel quale discutere le modalità di convivenza fino alle elezioni presidenziali.

Per la democrazia in Sud America, così difficilmente riconquistata, si preannunciano ancora una volta tempi difficili. Oggi la sinistra sudamericana è chiamata a prendere atto della sua fase declinante e a riflettere seriamente sugli errori commessi e sui correttivi da adottare se vorrà tornare a interpretare società rimaste ancora ingiuste. Le ragioni che hanno spinto milioni di cittadini a dare fiducia al chavismo restano praticamente tutte. Le questioni della sicurezza e della trasparenza sono tanto importanti quanto la lotta alla povertà e i diritti civili. Senza dimenticare che la spesa redistributiva senza entrate che la coprano è sicura fonte di sciagure come si è visto in Venezuela, ma anche in Argentina. La sovranità, giustamente rivendicata, passa anche dal non avere bisogno di indebitarsi o di emettere moneta insieme a inflazione. Invece, la democrazia per alcuni settori della sinistra sudamericana, ed europea, è tornata “borghese” perché stanno vincendo in alcuni paesi le destre. Non ci sono seri ragionamenti né autocritica sulle cause della disfatta, si ripropongono con forza le teorie del “complotto imperialista”. Si torna agli slogan contro il neoliberismo e l’autoritarismo di destra, senza spiegare e spiegarsi perché si sta tornando a diventare minoranza, quali sono stati i problemi che hanno portato all’allontanamento delle grandi masse popolari. Si cercano alleati silenti, quali Putin e la Cina, pur di sopravvivere.

Oggi a Caracas il post-chavismo è arrivato al capolinea, anche se non finisce ora. Più che mai è il momento di riflettere sul Venezuela in ginocchio e di discutere senza paraocchi ideologici. La sinistra in America Latina continua ad essere utile, ma se è anche onesta, trasparente, pragmatica, democratica e popolare.

 

Molto si è scritto e dibattuto negli ultimi decenni sulla cosiddetta oil diplomacy, cioè sulla politica estera, soprattutto degli Stati Uniti, imperniata sul bisogno vitale di garantirsi il rifornimento di greggio. Il nemico storico di questi interessi è stato il cartello dei Paesi produttori di petrolio, l’Opec, organizzazione nata negli anni ’60 sulla spinta terzomondista del movimento dei non allineati. L’Opec, che garantisce il 42% del mercato mondiale, controllando le quote di estrazione di greggio dei Paesi membri è riuscita per lunghi periodi a mantenere alti i prezzi del petrolio grazie a una politica di “cartello”.

Nel corso degli anni l’organizzazione ha subito duri colpi, soprattutto da quando gli USA controllano di fatto l’Iraq e la Libia, oltre alla politica petrolifera dell’Arabia Saudita. L’ultimo uomo forte dei Paesi Opec, il venezuelano Hugo Chávez, è deceduto da poco. Gli Stati Uniti, non solo per l’Opec, pagano un prezzo altissimo per garantirsi il greggio: la politica mediorientale è il fulcro della diplomazia a stelle e strisce e la principale voce di spesa nel budget militare. In prospettiva però questa situazione potrebbe cambiare.

La velocità con la quale sta aumentando l’estrazione di shale-oil (il petrolio ottenuto da scisti bituminose) negli USA e l’estrazione delle sabbie bituminose canadesi, infatti, potrebbero ridurre fino a cancellare la storica dipendenza energetica di Washington. Si calcola che già nei prossimi tre anni Canada e Stati Uniti potrebbero soddisfare da soli il 40% della domanda interna di energia fossile. E per il 2020 si ipotizza che i principali produttori di greggio saranno proprio gli Stati Uniti, sorpassando l’Arabia Saudita. Non a caso i future sul petrolio con scadenza 2017 quotano il barile di greggio 90 dollari, dieci sotto la soglia psicologica dei 100 dollari.

Vista la riduzione del bisogno di greggio estero, gli USA potrebbero limitarsi ad acquistare petrolio dai Paesi non membri dell’Opec a prezzi inferiori, innescando una corsa al ribasso del prezzo. Una delle ultime armi in mano all’Opec è ridurre da subito il livello di estrazione, ma in questa fase di crisi sarà difficile che riescano a raggiungere un accordo. Questo inaspettato sviluppo del mercato energetico statunitense avrà pesanti ripercussioni sulla geopolitica del Medio Oriente. Quando il principale motivo della sua strategicità si ridimensionerà, questa regione scenderà inevitabilmente nella scala degli interessi delle potenze.

Dal crollo dell’Impero Ottomano e degli imperi coloniali europei, il Medio Oriente non ha mai vissuto lunghi periodi di pace ed è sempre stato oggetto di tentativi, falliti o riusciti, di destabilizzarne lo scenario politico. E ha visto prosperare oligarchie legittimate solo dalla loro fedeltà alla potenza di turno, a discapito dei popoli governati. La primavera araba, che si è manifestata con più virulenza nei Paesi senza ricchezza petrolifera, si è fatta sentire timidamente anche in qualche petro-Stato. Potrebbe essere solo l’inizio di un capovolgimento dell’intera area, quando le potenze che attualmente, e maldestramente, ne garantiscono la stabilità avranno altre priorità.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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E’ in libreria (e anche in vendita online) il mio ultimo libro. Oltre la Crisi… raccoglie i miei interventi degli ultimi due anni su Popolare Network e in altre testate. Il tema è la crisi economica, gli equilibri mondiali che cambiano, i popoli che migrano, l’economia solidale che si fa largo, il futuro dell’alimentazione, la società dei consumi globale,  la pirateria che ancora imperversa. Con un ricordo di Hugo Chavez e un primo ritratto di Papa Francesco inseriti in chiusura.

“Prendendo spunto dall’attualità e citando cifre, atti e documenti ufficiali, Alfredo Somoza, settimana dopo settimana, è riuscito a farci entrare nelle dinamiche della mondialità e implicitamente ci ha fatto capire che l’Italia non poteva essere impermeabile al movimento di panico e di preoccupazione che ha contagiato una buona fetta del mondo ricco (…) “Gli “appunti” che danno vita a questo libro ci ricordano che a provocare la crisi del capitalismo occidentale è stata la sua stessa ingordigia che lo ha portato a inventare strumenti fittizi (derivati) per aumentare i profitti in borsa e che ancora oggi continua a perfezionarli minacciando la stabilità dei prezzi del cibo a causa dei commodity futures. Solo che ora i popoli del Sud del mondo non ci stanno più ad essere le cavie e le vittime di un sistema impazzito. Ovunque, anche nelle zone più remote, nascono reti di cittadini, di contadini e di operai per denunciare land grabbing e water grabbing, turismo sessuale, sfruttamento della manodopera, lavoro minorile, effetti nefasti del surriscaldamento climatico (…) Grazie alla rete ora è più facile promuovere nel Sud del mondo un turismo responsabile, un’agricoltura sostenibile e un commercio equo-solidale mentre nel Nord hanno cominciato a dare i primi frutti le campagne online contro quei brand, ossessionati dal profitto, che violano in Asia la dignità umana nelle fabbriche della moda e del lusso (…)  In fondo un mondo migliore è possibile se dotiamo la globalizzazione di un codice di etica. Altrimenti la storia, ci ricorda l’autore di “Oltre la crisi”, insegna che ogni ingiustizia si paga con gli interessi. E l’Italia non è sfuggita a questo destino.” (dall’introduzione di Chawki Senouci, Capo Servizio esteri Radio Popolare)

Oltre la crisi: appunti sugli scenari globali futuri 

di Alfredo Somoza

Edizioni CentoAutori, 10 euro

oltre la crisi

 

Con la morte del colonnello Chavez si chiude una tappa significativa della storia dell’America Latina degli ultimi anni. Chavez è stato un primo attore tra le personalità emergenti della politica del subcontinente del dopo guerra fredda. Un personaggio che è riuscito paradossalmente a cambiare il suo paese attraverso le urne, dopo avere fallito con un colpo di stato. Un istrione in grado di parlare e di intrattenere per ore il popolo con il suo programma televisivo Alò Presidente.

Le radici culturali e politiche di Chavez, primo mulatto a presiedere il Venezuela, sono variegate e contraddittorie: da Salvador Allende a Madre Teresa di Calcutta, da Che Guevara a Simòn Bolivar senza dimenticare neppure Garibaldi. La furbizia politica del personaggio non dovrà però fare dimenticare alcuni capisaldi della sua gestione. Per la prima volta con Chavez i venezuelani hanno usufruito del ricavato della ricchezza petrolifera del paese. Con Chavez sono migliorate la sanità e l’educazione, per la prima volta erogate nei quartieri poveri. Il Venezuela di Chavez, da paese fallito è diventato protagonista sulla scena internazionale. Con Chavez Caracas è diventata una potenza regionale in grado di influenzare diversi paesi latinoamericani e l’OPEC, il cartello dei produttori di petrolio. Molto si potrà discutere sul colonnello, ma nessuno potrà mai mettere in discussione la sua correttezza democratica al momento del voto anche se lo stesso non si possa dire rispetto al trattamento riservato alla stampa a lui ostile. Ma soprattutto, nessuno potrà mai cancellarlo dalla storica foto insieme al brasiliano Lula e al argentino Kirchner quando decisero di andare avanti, uniti per la prima volta, per dire no agli Stati Uniti che volevano imporre l’accordo economico ALCA a tutta l’America Latina. Il non allineamento con le potenze occidentali, la ricerca di nuove sponde commerciali nei paesi arabi e africani, la costruzione di solidi legami con la Cina e le diverse intese regionali, hanno visto sempre tra i protagonisti Hugo Chavez, un personaggio amato e odiato, ma mai ignorato.

Alfredo Somoza per Popolare Network

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Ci sono grandi somiglianze tra il Generale nel suo labirinto di García Márquez e Hugo Chávez Frías. Nel romanzo del grande scrittore colombiano, il generale Simón Bolívar si avvia verso la fine dei suoi giorni da vincitore e al tempo stesso da vinto: proprio come il colonnello dei parà venezuelano che battendosi contro vento e maree, e soprattutto lottando contro una malattia devastante, si avvia a vincere ancora una volta, vedendo però all’orizzonte la sconfitta postuma.

Quando la sua avventura politica ebbe inizio, il giorno in cui entrò in carcere per un tentativo di colpo di Stato nel lontano 1992, il Venezuela annaspava nella crisi più nera della sua storia, indotta da decenni di incapacità politica e di corruzione generalizzata. In un Paese che siede letteralmente sul petrolio, quando il popolo si ribellò a quella situazione il sangue scorse a fiotti. Dalle macerie di una democrazia bipolare che fino ad allora era stata piuttosto stabile uscì la figura del nuovo condottiero: un uomo che si poneva come obiettivo rifondare il Paese su basi socialiste.

Chávez è stato eletto presidente per la prima volta nel 1998. Da allora ha cambiato un paio di volte la Costituzione (oltre che il nome stesso del Venezuela, diventato “Repubblica Bolivariana”) sempre in modo pulito, senza che mai sia stato contestato un solo voto. Si è dimostrato un caudillo populista davvero sostenuto dal popolo. Come sempre accade in questi casi, Chávez è anche un concentrato di contraddizioni. Un grande cattolico, ma mangiapreti; l’amico di Castro e pure di Berlusconi; il difensore dei poveri che fa affari con i petrolieri; il rivoluzionario che piazza tutta la famiglia nei gangli dello Stato; il macho sessista che però promuove i diritti delle donne.

Il colonnello è un uomo del popolo, un uomo come piace al popolo, tanto che lo hanno spesso definito un caudillo pop. Un consenso così alto è dovuto alla centralità che ha attribuito (nella vita pubblica e nelle priorità dello Stato) a quel 60% della popolazione che è considerata povera. Le risorse per fornire una risposta ai dimenticati di sempre, a cavallo tra l’assistenza spicciola e l’investimento sociale, erano già pronte: i ricavi del petrolio in mano allo Stato. Anche i governi di prima avrebbero potuto intervenire, garantendo educazione, sanità, sovvenzioni per l’acquisto degli alimenti di base. Ma non lo avevano mai fatto. Chávez sì.

L’altro grande merito del colonnello è stata la sua politica estera, aggressiva nei confronti degli USA e di amicizia verso la Cina, il mondo arabo e il resto dell’America Latina. Oggi il Venezuela conta molto negli equilibri dell’OPEP, il cartello dei Paesi esportatori di petrolio. E anche nel suo continente Chávez, insieme a Lula e a Néstor Kirchner, è riuscito a spostare l’asse politico verso una stagione di governi progressisti e a ridimensionare la storica ingerenza degli Stati Uniti.

Ora Chávez sta sicuramente tirando le somme di questi anni, alla vigilia di una vittoria che sarà probabilmente l’ultima, se non altro per motivi di salute. Quello che manca perché possa considerarsi soddisfatto è ciò che sempre è mancato e sempre mancherà ai populisti: un successore, un partito, un movimento in grado di sopravvivere al leader. La stella di Chávez ha brillato luminosa per tutti questi anni, ma nel cielo della Repubblica Bolivariana non se ne sono accese altre. Qualsiasi cambiamento ci sarà in futuro in Venezuela non potrà prescindere però dall’eredità positiva del colonnello: la centralità della lotta all’ingiustizia sociale e la tessitura di rapporti Sud-Sud in materia di relazioni internazionali. Una vera rivoluzione per l’America Latina.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

La grande crisi che si è abbattuta dal 2008 in poi su Europa e Stati Uniti per ora ha solo rallentato la crescita impetuosa delle cosiddette economie “emergenti”, e soprattutto degli alfieri del nuovo ordine internazionale multipolare, i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Le stime al ribasso della crescita della Cina e del Brasile non destano per ora troppe preoccupazioni, o comunque ne suscitano molte meno di quelle che riguardano l’Europa.

Il campanello d’allarme in America Latina, continente che continua a godere di un periodo positivo dal punto di vista economico grazie ai prezzi delle commodities e all’aggancio progressivo al mercato del Pacifico, riguarda invece la politica.  In Venezuela, dove il prossimo ottobre si voterà per eleggere il nuovo presidente, il principale punto del dibattito è la salute di Hugo Chávez che ha deciso di ripresentarsi, malgrado la gravità della sua malattia. La sua non appare una ricandidatura attribuibile a quella “aspirazione all’eternità” tipica dei populismi, quanto piuttosto alla constatazione che la rivoluzione bolivariana non ha prodotto una classe dirigente in grado di esprimere nuove leadership.

Non sarebbero pochi gli argomenti sui quali farsi venire nuove idee in Venezuela. Innanzitutto sul tema della persistenza della povertà di massa e dell’insicurezza generale che essa produce, pur dopo 13 anni di investimenti dello Stato. Oppure sul perdurare delle storiche dipendenze venezuelane dall’import di prodotti industriali e alimenti. Il candidato delle opposizioni, Capriles, non è totalmente fuori dai giochi, anche se ha già dovuto confermare, in caso di vittoria, il mantenimento di diverse politiche di welfare create da Chávez. Una situazione, quella dei liberisti che devono mantenere alcune conquiste sociali, molto frequente nell’America Latina degli ultimi anni.

In Paraguay invece c’è stato un golpe institucional contro il presidente Fernando Lugo. Lo scorso 22 giugno il Senato ha votato a favore della destituzione di Lugo per “cattiva gestione” in relazione ai gravissimi fatti che hanno visto la morte di 11 contadini e 6 poliziotti a Curuguaty durante l’operazione di sgombero di un’azienda agricola occupata da un mese dai senza terra. Il “giudizio politico”, previsto dalla Costituzione post-dittatura, si è concluso a tempo di record con la destituzione del presidente con un solo voto contrario. Dietro le quinte si registra la soddisfazione dei grandi proprietari terrieri che coltivano soia OGM, della parte conservatrice della Chiesa cattolica, e più in generale dei poteri forti. Il presidente-sacerdote è stato difeso solo dai colleghi alla guida dei Paesi del Mercosur, che hanno sospeso il Paraguay e minacciato ritorsioni senza ottenere però risultati concreti. Il mandato di Lugo sarebbe scaduto il prossimo mese di aprile: proprio per questo motivo è difficile interpretare il golpe che ha portato al potere il suo vice, esponente dello storico  Partito Colorado.

Il terzo campanello d’allarme arriva dal Messico, dove dopo 12 anni di governo del conservatore PAN torna al potere l’inossidabile PRI, il Partito della Rivoluzione Istituzionale che aveva governato il Messico nei precedenti… 70 anni! La sinistra ancora una volta non è riuscita a vincere, confermando che il Paese confinante con gli Stati Uniti continua a rimanere estraneo all’ondata di rinnovamento che, ormai da un decennio, ha investito la politica latinoamericana, determinando anche gli equilibri del Centro del continente. Un ritorno dei “dinosauri”, dunque, che in realtà non sono mai scomparsi. Sono solo rimasti in agguato cercando di riproporsi, come in Messico, con facce più giovani e  telegeniche.

Altri fronti di preoccupazione sono la situazione stagnante di Cuba, dopo le aperture dell’anno scorso, e la crisi sull’economia che sta determinando il blocco del mercato dei cambi in Argentina.

Se ne potrebbe dedurre che in America Latina si sta voltando pagina di nuovo, ma sarebbe una conclusione errata. L’architrave dei cambiamenti in corso, e soprattutto del nuovo posizionamento internazionale dell’America Latina (equidistante da Stati Uniti e Europa, in veloce avvicinamento all’Africa e all’Asia e con alleanze regionali via via più ambiziose) è stato il Brasile di Lula e oggi di Dilma Rousseff. L’asse Lula-Chávez-Kirchner-Bachelet è stato decisivo nella messa in moto di queste dinamiche: poi si sono aggiunti Morales, Correa, Lugo, Vázquez. Alcuni processi avviati durante quella stagione sono ormai irreversibili. Primi fra tutti la diversificazione dei mercati internazionali e l’autonomia politica dagli Stati Uniti. Altri caposaldi non si discutono: il neo-conservatore Piñera in Cile ha dovuto confermare buona parte del welfare ereditato dal centrosinistra. Lo stesso, come si è detto, si è impegnato a fare in caso di vittoria Capriles in Venezuela.

Ultimo ma non meno importate, la democrazia come sistema di governo si è ormai consolidata nella regione: tanto che sono stati gli stessi Paesi latinoamericani a intervenire per bloccare diversi tentativi di sovvertimento dell’ordine democratico. Con l’eccezione del pasticcio paraguayano. Ora siamo alla “seconda generazione” di politici: qui cominciano le difficoltà e si distinguono i leader carismatici che hanno lavorato per preparare la propria successione e quelli che non lo hanno fatto. La differenza che passa tra Lula e Chávez.

Se il livello di partecipazione della società civile resterà alto come in questi anni, sicuramente sarà possibile garantire la continuità di politiche che si sono dimostrate molto efficaci nel ridurre la povertà e garantire i diritti. Anche se poco noto, oggi nel continente sudamericano molti paesi hanno legiferato in favore dei matrimoni gay, hanno sancito il diritto al cambiamento di sesso, al testamento biologico. Hanno legalizzato le droghe leggere. La povertà è calata in generale, ma soprattutto in Brasile, storico serbatoio della disperazione sociale, dove decine di milioni di ex-poveri si sono avvicinati ai ceti medi. Ma sarà l’andamento dell’economia, che qui ancora “gira”, a permettere il sostegno delle politiche espansive e ridistributive applicate negli anni scorsi. Quando bisognava uscire dalle macerie lasciate dal neoliberismo degli anni ’90. Quelle politiche che i Paesi latini si sono potuti permettere dopo la rottura politica con il Fondo Monetario Internazionale e le sue ricette recessive sempre uguali, oggi riproposte in Grecia e Spagna.

L’America Latina ha ancora margini incredibilmente grandi per crescere riducendo le ingiustizie sociali. Purché a guidare il continente non sia l’economia ma la politica (oggi presa a bersaglio in Europa), proprio come è accaduto negli ultimi 10 anni. In questa parte del mondo il governo della finanza senza mediazione politica è già stato sperimentato: nessuno sano di mente potrebbe oggi proporre agli elettori di tornarci.

Alfredo Somoza