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La questione della terra, del suo possesso e del suo utilizzo, ci accompagna da secoli. A cavallo tra l’800 e il ’900 si ebbero grandi lotte contadine, e addirittura una rivoluzione in Messico, per conquistare il diritto alla terra. Lotte che non si sono mai spente, come ci ricordano il Movimento Sem Terra brasiliano e le rivendicazioni dei contadini indiani. Oggi, però, la frontiera della questione rurale si è spostata, e il problema si pone su scala planetaria.

L’odierna economia globalizzata, infatti, richiede quantità enormi di commodities agricole (cioè di prodotti di base per l’alimentazione umana), di gran lunga maggiori rispetto a quelle consumate in ogni altra fase della storia umana. E divora spazi agricoli per coltivare “energia”, ossia specie vegetali adatte a produrre biocombustibili.

Il land grabbing, fenomeno che la FAO ha messo sotto osservazione da almeno 10 anni, altro non è che una gigantesca sottrazione di terre al mondo contadino, e spesso anche all’alimentazione umana, che vede complici Paesi poveri e ricchi, insieme a numerose compagnie multinazionali. Si tratta del vero, grande tema dell’attualità, eppure non ne è rimasta traccia nella Carta di Milano, il documento firmato da milioni di persone durante Expo 2015. E questo perché molti dei responsabili di questa situazione erano ben presenti in Expo con padiglioni milionari.

Secondo i dati dell’International Land Coalition, che monitora le grandi transazioni internazionali aventi come oggetto l’acquisto di terre, dal 2008 sono stati trasferiti circa 90 milioni di ettari di terreni: più o meno, tre volte la superficie dell’Italia.

Ma trasferiti da chi a chi? Difficile dirlo, almeno per metà della superficie stimata. Nel senso che, per alcuni Stati “ricchi” (come Giappone, Germania, Italia), i passaggi di  proprietà delle terre sono regolari atti di compravendita, mentre in Africa o in Asia spesso il fenomeno riguarda terre demaniali che vengono cedute o date in comodato a imprese o Paesi esteri senza che se ne conoscano i termini contrattuali.

I primi dieci Stati interessati da questo epocale trasferimento di terre sono poveri o “emergenti”. Da Papua Nuova Guinea, con circa 3,5 milioni di ettari ceduti (per metà senza che vi siano informazioni), fino alla Repubblica Democratica del Congo con oltre 2,8 milioni di ettari ceduti soprattutto a investitori cinesi. Nell’elenco non mancano Paesi a serio rischio per quanto riguarda la sicurezza alimentare come la stessa Repubblica Democratica del Congo, il Mozambico, la Liberia, il Sudan del Sud. In questi Stati, circa metà delle coltivazioni consiste in biocombustibili e colture commerciali per il mercato internazionale, l’altra metà in riso, mais, barbabietola, soia per Paesi come Cina, Corea del Sud o Arabia Saudita.

Il punto centrale, e ciò che fa la differenza rispetto ad altre modalità di sfruttamento della terra, è il modello industriale alla base di quest’agricoltura globale. La terra non è più prioritariamente destinata a produrre alimenti, a differenza di ciò che è accaduto negli ultimi 15.000 anni: progressivamente, il mondo sta diventando una gigantesca piantagione nella quale si coltiva solo ciò che il mercato ricco richiede, si tratti di alimenti o di energia.

Nonostante la tecnologia ormai offra tutte le soluzioni per porre fine al problema della fame e della malnutrizione, i rischi perché ritornino le carestie stanno aumentando. Ciò non solo per la sottrazione di terre alla produzione di alimenti, ma anche per via del cambiamento climatico che in vaste regioni del pianeta sta riducendo lo spazio agricolo.

Il land grabbing, dunque, è la “ciliegina sulla torta” di un modello agricolo globale distorto al tempo stesso dal modello di consumo, dallo spreco alimentare, dal cambiamento climatico, dalla produzione di biocombustibili, dalla concentrazione fondiaria, dalla persistente espulsione dei contadini verso le città. Sono proprio questi i temi che non sono stati affrontati durante i 6 mesi di Expo 2015: un evento che, dal punto di vista dei contenuti sviluppati, non occuperà più di due righe sui libri di storia.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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E’ in libreria (e anche in vendita online) il mio ultimo libro. Oltre la Crisi… raccoglie i miei interventi degli ultimi due anni su Popolare Network e in altre testate. Il tema è la crisi economica, gli equilibri mondiali che cambiano, i popoli che migrano, l’economia solidale che si fa largo, il futuro dell’alimentazione, la società dei consumi globale,  la pirateria che ancora imperversa. Con un ricordo di Hugo Chavez e un primo ritratto di Papa Francesco inseriti in chiusura.

“Prendendo spunto dall’attualità e citando cifre, atti e documenti ufficiali, Alfredo Somoza, settimana dopo settimana, è riuscito a farci entrare nelle dinamiche della mondialità e implicitamente ci ha fatto capire che l’Italia non poteva essere impermeabile al movimento di panico e di preoccupazione che ha contagiato una buona fetta del mondo ricco (…) “Gli “appunti” che danno vita a questo libro ci ricordano che a provocare la crisi del capitalismo occidentale è stata la sua stessa ingordigia che lo ha portato a inventare strumenti fittizi (derivati) per aumentare i profitti in borsa e che ancora oggi continua a perfezionarli minacciando la stabilità dei prezzi del cibo a causa dei commodity futures. Solo che ora i popoli del Sud del mondo non ci stanno più ad essere le cavie e le vittime di un sistema impazzito. Ovunque, anche nelle zone più remote, nascono reti di cittadini, di contadini e di operai per denunciare land grabbing e water grabbing, turismo sessuale, sfruttamento della manodopera, lavoro minorile, effetti nefasti del surriscaldamento climatico (…) Grazie alla rete ora è più facile promuovere nel Sud del mondo un turismo responsabile, un’agricoltura sostenibile e un commercio equo-solidale mentre nel Nord hanno cominciato a dare i primi frutti le campagne online contro quei brand, ossessionati dal profitto, che violano in Asia la dignità umana nelle fabbriche della moda e del lusso (…)  In fondo un mondo migliore è possibile se dotiamo la globalizzazione di un codice di etica. Altrimenti la storia, ci ricorda l’autore di “Oltre la crisi”, insegna che ogni ingiustizia si paga con gli interessi. E l’Italia non è sfuggita a questo destino.” (dall’introduzione di Chawki Senouci, Capo Servizio esteri Radio Popolare)

Oltre la crisi: appunti sugli scenari globali futuri 

di Alfredo Somoza

Edizioni CentoAutori, 10 euro

oltre la crisi

 

In questi ultimi mesi i media che si occupano di economia internazionale hanno dedicato particolare attenzione all’aumento del prezzo dei combustibili e dei cereali. Un fenomeno che riporta prepotentemente sul tavolo dei Grandi il tema della sicurezza alimentare: nonostante in molte zone del pianeta sia sempre stata precaria, da tempo la si dava per acquisita a livello globale.

L’attuale penuria di cereali, alla base della crescita dei prezzi, non può essere ricondotta a una sola causa. Dipende piuttosto da un insieme di situazioni concomitanti che hanno modificato velocemente la mappa della disponibilità di alimenti: cambiamento climatico, aumento dei consumi di carne in Asia, boom della produzione di biocombustibili, variazione dei modelli di consumo, operazioni di speculazione finanziaria…

Da quelle ambientali a quelle economiche, tutte queste concause appaiono legate a doppio filo alla nostra cultura dei consumi. Ecco perché, per interpretare la crisi della disponibilità di alimenti nel mondo, è indispensabile fare riferimento al nostro modello di sviluppo. I danni che stiamo provocando ai millenari equilibri agricoli mondiali sono profondi, in alcuni casi addirittura irreversibili: è il caso della perdita annuale di centinaia di migliaia di ettari di terre fertili, rese sterili o dal cambiamento climatico, o dall’uso intensivo della chimica e dall’erosione da ipersfruttamento.

Come sempre accade in economia, c’è chi da questa situazione ha ricavato un nuovo slancio economico. Grazie all’impennata dei prezzi, diversi Paesi stanno aumentando le loro quote di produzione di alimenti sui mercati internazionali: maggiori entrate permettono infatti di modernizzare le tecniche agricole e quindi di accrescere le rese, oltre a far lievitare i guadagni.  I piccoli e medi agricoltori devono però fare i conti con lo smisurato peso politico ed economico dell’agrobusiness internazionale: lo stesso che negli anni Novanta ha investito ingenti capitali per acquistare o affittare terre produttive che oggi sono orientate in buona parte alla produzione transgenica di cereali (mais e grano) e leguminose (soia) destinati al mercato del foraggio e del biocombustibile.

Questo orientamento della produzione agricola sta determinando il paradosso di Paesi esportatori netti di alimenti che in realtà hanno problemi a rifornirsi di prodotti base per l’alimentazione. Proprio negli ultimi mesi il Paraguay, quarto esportatore mondiale di OGM, ha avuto bisogno dell’aiuto dell’Unione Europea per fare fronte a una carestia originata da un lungo periodo di siccità che ha risparmiato soltanto la soia della Monsanto. Ciò perché nei Paesi agroesportatori le scelte e le tecniche produttive sono dettate dal mercato internazionale anziché dal mercato interno o regionale.

Si vive il paradosso di un’agricoltura sempre più ricca, ma incapace di generare lavoro e di radicare sul territorio le popolazioni rurali, che continuano a migrare verso le città. Il tutto in un contesto di “corsa alla terra” che vede la Cina, i Paesi arabi e le tigri asiatiche competere tra loro per accaparrarsi vaste superfici agricole in Africa e America Latina, necessarie per produrre in proprio alimenti e olii vegetali destinati a diventare biocombustibili.

In questo scenario davvero poco esaltante ci sono diverse esperienze in controtendenza che potrebbero diventare validi esempi per un diverso modello di sviluppo. È il caso dei circuiti a filiera corta e degli orti urbani, che però da soli non bastano a invertire la tendenza generalizzata. La politica, che in buona parte del mondo ha rinunciato al suo storico ruolo di regolamentatore del mercato, deve velocemente tornare a concepire strategie di sviluppo sostenibile per l’agricoltura. Magari prestando orecchio allo slogan scelto dalle associazioni di contadini familiari, “per un’agricoltura con agricoltori”: la banalità è solo apparente, non c’è nulla di scontato.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)