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Lunedì scorso, Sergio Marchionne ha presentato alla Presidente  Dilma Rousseff il piano di investimenti dell Fiat in Brasile per il periodo 2013-2016. Una cifra che equivale a mezza manovrina in Italia, ben 5,6 miliardi di euro per metà destinati alla costruzione del nuovo impianto di Goiana (Pernambuco) e per il resto per l’ampliamento della capacità produttiva dello storico stabilimento di Betim. L’obiettivo della Fiat è quello di raggiungere il milione di autovettura all’anno made in Brasile.  Un quarto di questa cifra sarà prodotta dalla nuova gigantesca fabbrica del Pernambuco, che darà lavoro a 7.000 operai in modo diretto a altri 12.000 dell’indotto.  Questi i piani di Fiat per il Brasile, che nel primo trimestre 2013 si è dimostrato il secondo mercato al mondo per le vendite, dopo gli USA ma in quota Chrysler, con 143.000 auto, solo 8.000 in meno dell’intera UE. Il giorno dopo, Marchionne si è spostato a Cordoba, in Argentina,  per visitare insieme alla Presidente Kirchner il nuovo impianto per la produzioni di trattori sul quale Fiat ha investito 200 milioni di dollari. Fin qui la notizia in controtendenza, di fabbriche che aprono, investimenti miliardari, nuovi posti di lavoro. Ma tra le pieghe di questa notizia si legge il risultato delle politiche di stimolo all’industria messe in campo in modo deciso in Sud America , soprattutto dal Brasile. Il nuovo impianto del Pernanbuco, che costerà 2,3 miliardi di euro, sarà finanziato al 85%,  tramite sovvenzioni e sgravi fiscali, dallo Stato brasiliano e dallo Stato del Pernambuco. La politica di industrializzazione del Nordest del paese, storica terra di contadini poveri, di emigrazione e di fame, sta dando risultati incredibili: la richiesta di personale qualificato è più veloce della capacità gestionale di formarli innescando flussi di immigrazione dall’Europa (Portogallo in primis). Gli incentivi fiscali sono stati pensati per attirare nella regione investimenti, ma anche per distribuirli internamente. Quanto più lontano dalla costa si aprono le fabbriche, più alto è l’incentivo, per creare opportunità nei centri più lontani dell’interno. Queste politiche attive dello stato brasiliano, dai tempi del primo governo Lula, hanno duplicato la capacità produttiva del paese, creato centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, sviluppato eccellenze (ad esempio l’industria aeronautica) e rilanciato la presenza del commercio estero brasiliano spezzando il monopolio delle materie prime. Queste politiche, seguite anche in Uruguay, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina sono state il simbolo dell’inversione di rotta rispetto al neoliberismo che aveva deindustrializzato interi comparti e interi paesi che tornavano a dipendere dall’import di beni manufatti e perdevano posti di lavoro. In America Latina le politiche industriali attive da parte dello Stato sono il cuore del “progressismo” insieme all’allargamento dei diritti sociali nel quale si identificano personaggi di diversa storia e cultura ma che su questi punti non transigono. Le destre la pensano diversamente, lasciano regolare al mercato la società attraverso la sua  “mano invisibile”,    pensano che lo Stato non deva ridistribuire il reddito attraverso il welfare né tassare la ricchezza, non considerano prioritario definire e sostenere un profilo produttivo autonomo. Destra e sinistra oggi si riconoscono per le politiche che propongono, non più per vecchie appartenenze ormai sfumate.  La retorica lascia il campo al pragmatismo e i campi sono ben definiti,  senza paure e ambedue legittimi.  Sono gli elettori che decidono, e anche qui, non in base a un’appartenenza, ma in base a cosa ritengono più conveniente. In poche parole, politiche e non chiacchiere e compromessi. Alla prova dei fatti, per gli elettori latinoamericani oggi è più conveniente votare candidati di centrosinistra e per la prima volta la democrazia è stato lo strumento del cambiamento. Un grande risultato conquistato attraverso parole chiare, priorità irrinunciabili, compromessi solo con gli elettori, ricostruzione di un’egemonia culturale, aggiornamento dei principi in base a una moderna lettura della globalizzazione.

 

Alfredo Somoza

 

FiatBrasil

In questi ultimi mesi i media che si occupano di economia internazionale hanno dedicato particolare attenzione all’aumento del prezzo dei combustibili e dei cereali. Un fenomeno che riporta prepotentemente sul tavolo dei Grandi il tema della sicurezza alimentare: nonostante in molte zone del pianeta sia sempre stata precaria, da tempo la si dava per acquisita a livello globale.

L’attuale penuria di cereali, alla base della crescita dei prezzi, non può essere ricondotta a una sola causa. Dipende piuttosto da un insieme di situazioni concomitanti che hanno modificato velocemente la mappa della disponibilità di alimenti: cambiamento climatico, aumento dei consumi di carne in Asia, boom della produzione di biocombustibili, variazione dei modelli di consumo, operazioni di speculazione finanziaria…

Da quelle ambientali a quelle economiche, tutte queste concause appaiono legate a doppio filo alla nostra cultura dei consumi. Ecco perché, per interpretare la crisi della disponibilità di alimenti nel mondo, è indispensabile fare riferimento al nostro modello di sviluppo. I danni che stiamo provocando ai millenari equilibri agricoli mondiali sono profondi, in alcuni casi addirittura irreversibili: è il caso della perdita annuale di centinaia di migliaia di ettari di terre fertili, rese sterili o dal cambiamento climatico, o dall’uso intensivo della chimica e dall’erosione da ipersfruttamento.

Come sempre accade in economia, c’è chi da questa situazione ha ricavato un nuovo slancio economico. Grazie all’impennata dei prezzi, diversi Paesi stanno aumentando le loro quote di produzione di alimenti sui mercati internazionali: maggiori entrate permettono infatti di modernizzare le tecniche agricole e quindi di accrescere le rese, oltre a far lievitare i guadagni.  I piccoli e medi agricoltori devono però fare i conti con lo smisurato peso politico ed economico dell’agrobusiness internazionale: lo stesso che negli anni Novanta ha investito ingenti capitali per acquistare o affittare terre produttive che oggi sono orientate in buona parte alla produzione transgenica di cereali (mais e grano) e leguminose (soia) destinati al mercato del foraggio e del biocombustibile.

Questo orientamento della produzione agricola sta determinando il paradosso di Paesi esportatori netti di alimenti che in realtà hanno problemi a rifornirsi di prodotti base per l’alimentazione. Proprio negli ultimi mesi il Paraguay, quarto esportatore mondiale di OGM, ha avuto bisogno dell’aiuto dell’Unione Europea per fare fronte a una carestia originata da un lungo periodo di siccità che ha risparmiato soltanto la soia della Monsanto. Ciò perché nei Paesi agroesportatori le scelte e le tecniche produttive sono dettate dal mercato internazionale anziché dal mercato interno o regionale.

Si vive il paradosso di un’agricoltura sempre più ricca, ma incapace di generare lavoro e di radicare sul territorio le popolazioni rurali, che continuano a migrare verso le città. Il tutto in un contesto di “corsa alla terra” che vede la Cina, i Paesi arabi e le tigri asiatiche competere tra loro per accaparrarsi vaste superfici agricole in Africa e America Latina, necessarie per produrre in proprio alimenti e olii vegetali destinati a diventare biocombustibili.

In questo scenario davvero poco esaltante ci sono diverse esperienze in controtendenza che potrebbero diventare validi esempi per un diverso modello di sviluppo. È il caso dei circuiti a filiera corta e degli orti urbani, che però da soli non bastano a invertire la tendenza generalizzata. La politica, che in buona parte del mondo ha rinunciato al suo storico ruolo di regolamentatore del mercato, deve velocemente tornare a concepire strategie di sviluppo sostenibile per l’agricoltura. Magari prestando orecchio allo slogan scelto dalle associazioni di contadini familiari, “per un’agricoltura con agricoltori”: la banalità è solo apparente, non c’è nulla di scontato.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)