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La fase declinante delle sinistre sudamericane è ricca di spunti utili per trarre lezioni e ragionare sul futuro della politica nelle periferie dell’Occidente. Un dato è ormai certo, dal Venezuela all’Argentina passando per il Brasile: i politici che avevano saputo gestire la fase di espansione dell’economia mondiale, generando impiego e instaurando modalità interessanti di redistribuzione del reddito, non hanno trovato gli strumenti adatti per gestire la crisi. La narrazione dello Stato al centro dell’economia si è infranta quando i governi hanno cominciato a doversi districare tra inflazione, recessione e aumento della disoccupazione. Ed è qui che sono venute alla luce le mancanze degli anni precedenti, il grandissimo deficit di riforme su temi che erano stati ignorati, o addirittura cavalcati in modi non sempre limpidi.

Presidenti che si erano contraddistinti sul piano dei diritti civili, ma che non avevano affrontato una riforma in senso progressivo del fisco né tagliato di netto la commistione tra politica e affari. Governanti che avevano garantito una maggiore sicurezza sociale a milioni di persone, ma che non avevano mai affrontato seriamente il groviglio drammatico del narcotraffico, che genera corruzione e insicurezza collettiva. Leader che avevano ribadito il valore della proprietà pubblica rispetto ai bagordi degli anni delle privatizzazioni “a prescindere”, ma che poi si sono foraggiati con le prebende garantite dal controllo delle aziende. Insomma, una stagione di riforme a metà. Riforme che, sotto l’impatto della recessione globale, oggi rischiano di essere vanificate, e in parte lo sono già. I voti di protesta in Argentina, in Bolivia e in Venezuela, il tentativo di rovesciamento dai contorni inquietanti della presidente brasiliana Rousseff, il rischio tangibile del ritorno di un Fujimori al governo del Perù spiegano complessivamente la crisi di un modello.

Esaurita la spinta propulsiva delle sinistre, il resto del quadro politico rimane però quello conosciuto e fallito nei decenni precedenti. Ciò anche perché quelle sinistre erano state in grado di affermare una solida egemonia culturale, consolidando principi relativi ai diritti, ai beni comuni, alla lotta alla povertà: temi che negli anni ’80 e ’90 erano tabù. Le destre che ora stanno arrivando al potere, anch’esse con mille sfumature, per racimolare voti si trovano a ripetere alcuni degli slogan coniati dai governi precedenti. Come il neopresidente argentino che ha promesso “povertà zero” in campagna elettorale, o l’opposizione venezuelana che dichiara di non volere toccare il modello di welfare chavista.

Gli interessi dei cittadini, che a torto considerano ormai consolidate le conquiste sociali e civili degli ultimi anni, si sono spostati di netto sulle questioni della legalità e della trasparenza. Temi cari, almeno a parole, a quasi tutte le sinistre mondiali, ma che in Sudamerica fanno fatica a tramutarsi in fatti. Non è difficile prevedere che i futuri leader di quel blocco sociale che ancora aspetta di uscire dalla povertà dovranno certamente promettere di occuparsi delle diseguaglianze, ma nello stesso tempo garantendo che saranno capaci di prendere in mano una situazione negativa, potenziata dall’eredità di decenni di pessima politica.

Avrà successo chi mostrerà le capacità – e la fedina penale pulita – necessarie per promettere una stagione di riforme e la radicale eliminazione di ogni connivenza tra la politica e i poteri forti dell’economia legale e illegale.

Ma perché questo avvenga, è urgente anche un ricambio dei ceti dirigenti, così com’era avvenuto all’inizio della stagione precedente. In questo senso, l’atteggiamento alla “muoia Sansone con tutti i filistei” di alcuni leader in disgrazia non promette nulla di buono. Ma una certezza almeno c’è: il Sudamerica oggi è un continente nel quale la democrazia ha la forza di incoronare e anche di defenestrare il re. E questa è già una grande novità.

 

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

 

23-05-08 Brasil- Cumbre en Brasilia.

23-05-08 Brasil- Cumbre en Brasilia.

Le elezioni presidenziali 2014 in Brasile saranno ricordate non soltanto perché le due candidate con chance di vittoria sono entrambe donne – la presidente in carica Dilma Rousseff e l’ex ministro dell’Ambiente del Governo Lula, Marina Silva – ma anche perché, al di là del risultato, scrivono una nuova pagina della storia latinoamericana. Una pagina che si inserisce in un capitolo iniziato di recente: quello dell’“ascensore” sociale e politico che, dopo secoli e secoli in cui è rimasto inchiodato al piano dei discendenti dei conquistatori e delle oligarchie terriere e industriali, ha finalmente cominciato a muoversi.

La candidata ambientalista Marina Silva, alleata dei socialisti, ha sul piano personale molto più in comune con Lula che con Dilma Rousseff. Dilma, che è stata guerrigliera, detenuta e torturata dai militari, appartiene alla classe medio-alta di Belo Horizonte ed è figlia di un immigrato europeo. Lula apparteneva invece al popolo del profondo Nordest, la regione più povera del Brasile. Cresciuto insieme ad altri 7 fratelli dalla madre sola, emigrò verso São Paolo dove da bambino vendeva arance per strada per poi diventare operaio metalmeccanico, sindacalista e leader politico.

La vita di Marina Silva è ancora più incredibile rispetto ai “canoni del potere” ai quali siamo abituati. Figlia di una coppia di afroamericani che vivevano in una baraccopoli su palafitte nello Stato dell’Acre, nel cuore dell’Amazzonia, è una dei 3 fratelli su 11 a superare l’infanzia. Un’infanzia segnata da privazioni e malattie: epatite, malaria, avvelenamento da piombo. Analfabeta fino a 16 anni, viene accolta in un collegio di suore e il suo primo lavoro è quello di donna delle pulizie. Poi la laurea in Storia, la passione per l’ambiente, la fondazione del Sindacato di raccoglitori di caucciù insieme a uno dei martiri della lotta ambientalista mondiale, Chico Mendes. Infine il Partito dei Lavoratori e il ruolo di Ministro dell’Ambiente nel primo Governo Lula, fino alla rottura politica e alla sua corsa solitaria.

Una biografia davvero fuori dal normale, che perfino la penna di un romanziere avrebbe faticato a immaginare. Un “miracolo” in un Paese che crede sinceramente ai miracoli. E la dimostrazione che l’ordine sociale del vecchio sistema coloniale, sopravvissuto per oltre un secolo dopo l’indipendenza, alla fine della Guerra Fredda si è spezzato. A partire degli anni ’90 del secolo scorso, in America Latina sono arrivati al governo ex guerriglieri, ex torturati e perseguitati, e ancora più significativamente sono arrivati alle massime cariche politiche indios, donne, cittadini poverissimi.

Il Brasile che ha avuto come presidente il venditore di arance e ora ha come potenziale leader la bambina miracolata dell’Amazzonia fa il paio con la Bolivia di Evo Morales, bambino di strada cresciuto nelle baraccopoli della periferia di La Paz, e con l’Uruguay di Pepe Mujica, piccolissimo produttore agricolo che tuttora si accontenta con uno stipendio che in Italia sarebbe da pensionato sociale. La forza di queste leadership è l’identificazione, l’empatia che riescono a creare con il loro elettorato. I poveri, che fino a non molto tempo fa votavano per i leader televisivi, belli ricchi e vincenti, oggi votano persone che sono state come loro. In Sudamerica, infatti, i ceti più deboli sono tornati a votare a sinistra dopo avere sostenuto i Menem, i Fujimori, i Cardoso. Oggi l’essere stato povero è un biglietto da visita vincente, non più un marchio quasi d’infamia. Una clamorosa smentita alle certezze delle telenovelas, nelle quali l’unica redenzione per i poveri passa dal matrimonio con il giovinastro ricco e bello, disposto addirittura a piangere per fare accettare alla sua famiglia la colf diventata fidanzata. In politica, negli ultimi anni, in America Latina anche i poveri ridono. Almeno qualche volta.

 

Alfredo Somo0za per Esteri (Popolare Network)

 

Marina-Dilma

Correva l’anno 1888 e il Brasile aboliva la schiavitù. Era l’ultimo Paese americano a farlo: chiudeva così un capitolo vergognoso della sua storia, lungo più di quattro secoli. Improvvisamente le campagne si svuotarono, gli impianti per la spremitura della canna da zucchero rimasero senza braccia, le piante di caffé senza cure. Gli ex schiavi fuggirono dai luoghi dove avevano conosciuto solo fame e frustate per accalcarsi nelle città, alla ricerca di un lavoro salariato e di nuove possibilità. Speranze che, purtroppo, erano spesso destinate a svanire nel nulla.

Il Brasile di fine Ottocento doveva dunque risolvere il problema della manodopera rurale. La soluzione abitava in Italia, più precisamente in Veneto, dove gli agenti del governo carioca trovarono un popolo cattolico e mansueto disposto a tutto per fuggire dalla fame. Furono un milione e mezzo gli italiani che nei successivi 40 anni si recarono in Brasile, e altri tre milioni navigarono fino alla vicina Argentina. Un esodo biblico si direbbe oggi, da far impallidire qualsiasi sbarco mai avvenuto a Lampedusa. Il resto della storia lo conosciamo: gli oriundi italiani nel mondo sono stati capaci di conquistarsi ruoli di tutto rispetto nelle diverse società che li hanno accolti.

Solo a partire dal 1970 il saldo migratorio italiano è diventato positivo. Fino a quel momento, a partire dall’inizio del secolo, l’Italia era stata terra di emigranti; nel 1970 invece, il numero degli immigrati ha cominciato a superare quello di chi lasciava il Paese per cercare fortuna altrove. L’Italia si era trasformata in una potenza economica, mentre molti degli Stati che un secolo prima avevano ospitato europei in fuga erano diventati a loro volta luoghi dai quali si scappava, per motivi politici o economici.

Altro giro di ruota, e negli anni 2000 i Paesi emergenti cominciano a conquistare un ruolo da protagonisti sulla scena globale. Nel 2011, dopo la Cina, il Brasile entra nel gruppo delle prime potenze mondiali superando il PIL di Italia e Regno Unito. Com’è noto, per capire la situazione economica di uno Stato non bastano i macroindicatori che fotografano il momento, come appunto il dato del prodotto interno lordo. Bisogna osservare anche le tendenze e i fenomeni a lungo termine. Da questo punto di vista il Brasile è un Paese in piena crescita: ha da poco ottenuto un upgrade da Standard & Poor’s e ha un bisogno urgente di figure professionali specializzate.

Per questa ragione il governo di Dilma Roussef sta mettendo a punto una legge che faciliterà l’immigrazione e che dovrebbe consentire a 400mila professionisti stranieri altamente qualificati, preferibilmente europei disoccupati, di lavorare nelle imprese brasiliane. In Italia per ora ne hanno parlato soltanto Esteri e Il Sole 24 ore, ma la notizia è carica di significati. Nel primo semestre 2012 il numero di immigrati approdati nel gigante sudamericano è cresciuto del 52,4%; il motore di ricerca lavoro Monster conta 80mila curricula di professionisti europei che si rivolgono al mercato brasiliano.

Per quanto riguarda l’Italia, a spingere molti a guardare nuovamente verso l’America Latina non sono soltanto i legami migratori storici con il Brasile, ma anche la crisi economica e le scarse prospettive di impiego. Certo oggi non è facile pensare di tornare a navigare le vecchie rotte dell’emigrazione; eppure la veloce industrializzazione di zone fino a ieri poverissime (come il Pernambuco, dove la Fiat sta aprendo la sua quarta fabbrica brasiliana) genera una domanda di manodopera qualificata e di tecnici di alto livello che in quelle terre non è disponibile, mentre in Italia la stessa manodopera viene lasciata per strada dalle aziende in crisi.

Se gli italiani torneranno davvero a emigrare in Brasile si ripeterà un ciclo storico che sembrava chiuso per sempre. La crisi economica che sta riscrivendo il nostro futuro si prepara a regalarci un’altra grande sorpresa.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Lunedì scorso, Sergio Marchionne ha presentato alla Presidente  Dilma Rousseff il piano di investimenti dell Fiat in Brasile per il periodo 2013-2016. Una cifra che equivale a mezza manovrina in Italia, ben 5,6 miliardi di euro per metà destinati alla costruzione del nuovo impianto di Goiana (Pernambuco) e per il resto per l’ampliamento della capacità produttiva dello storico stabilimento di Betim. L’obiettivo della Fiat è quello di raggiungere il milione di autovettura all’anno made in Brasile.  Un quarto di questa cifra sarà prodotta dalla nuova gigantesca fabbrica del Pernambuco, che darà lavoro a 7.000 operai in modo diretto a altri 12.000 dell’indotto.  Questi i piani di Fiat per il Brasile, che nel primo trimestre 2013 si è dimostrato il secondo mercato al mondo per le vendite, dopo gli USA ma in quota Chrysler, con 143.000 auto, solo 8.000 in meno dell’intera UE. Il giorno dopo, Marchionne si è spostato a Cordoba, in Argentina,  per visitare insieme alla Presidente Kirchner il nuovo impianto per la produzioni di trattori sul quale Fiat ha investito 200 milioni di dollari. Fin qui la notizia in controtendenza, di fabbriche che aprono, investimenti miliardari, nuovi posti di lavoro. Ma tra le pieghe di questa notizia si legge il risultato delle politiche di stimolo all’industria messe in campo in modo deciso in Sud America , soprattutto dal Brasile. Il nuovo impianto del Pernanbuco, che costerà 2,3 miliardi di euro, sarà finanziato al 85%,  tramite sovvenzioni e sgravi fiscali, dallo Stato brasiliano e dallo Stato del Pernambuco. La politica di industrializzazione del Nordest del paese, storica terra di contadini poveri, di emigrazione e di fame, sta dando risultati incredibili: la richiesta di personale qualificato è più veloce della capacità gestionale di formarli innescando flussi di immigrazione dall’Europa (Portogallo in primis). Gli incentivi fiscali sono stati pensati per attirare nella regione investimenti, ma anche per distribuirli internamente. Quanto più lontano dalla costa si aprono le fabbriche, più alto è l’incentivo, per creare opportunità nei centri più lontani dell’interno. Queste politiche attive dello stato brasiliano, dai tempi del primo governo Lula, hanno duplicato la capacità produttiva del paese, creato centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, sviluppato eccellenze (ad esempio l’industria aeronautica) e rilanciato la presenza del commercio estero brasiliano spezzando il monopolio delle materie prime. Queste politiche, seguite anche in Uruguay, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina sono state il simbolo dell’inversione di rotta rispetto al neoliberismo che aveva deindustrializzato interi comparti e interi paesi che tornavano a dipendere dall’import di beni manufatti e perdevano posti di lavoro. In America Latina le politiche industriali attive da parte dello Stato sono il cuore del “progressismo” insieme all’allargamento dei diritti sociali nel quale si identificano personaggi di diversa storia e cultura ma che su questi punti non transigono. Le destre la pensano diversamente, lasciano regolare al mercato la società attraverso la sua  “mano invisibile”,    pensano che lo Stato non deva ridistribuire il reddito attraverso il welfare né tassare la ricchezza, non considerano prioritario definire e sostenere un profilo produttivo autonomo. Destra e sinistra oggi si riconoscono per le politiche che propongono, non più per vecchie appartenenze ormai sfumate.  La retorica lascia il campo al pragmatismo e i campi sono ben definiti,  senza paure e ambedue legittimi.  Sono gli elettori che decidono, e anche qui, non in base a un’appartenenza, ma in base a cosa ritengono più conveniente. In poche parole, politiche e non chiacchiere e compromessi. Alla prova dei fatti, per gli elettori latinoamericani oggi è più conveniente votare candidati di centrosinistra e per la prima volta la democrazia è stato lo strumento del cambiamento. Un grande risultato conquistato attraverso parole chiare, priorità irrinunciabili, compromessi solo con gli elettori, ricostruzione di un’egemonia culturale, aggiornamento dei principi in base a una moderna lettura della globalizzazione.

 

Alfredo Somoza

 

FiatBrasil

La grande crisi che si è abbattuta dal 2008 in poi su Europa e Stati Uniti per ora ha solo rallentato la crescita impetuosa delle cosiddette economie “emergenti”, e soprattutto degli alfieri del nuovo ordine internazionale multipolare, i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Le stime al ribasso della crescita della Cina e del Brasile non destano per ora troppe preoccupazioni, o comunque ne suscitano molte meno di quelle che riguardano l’Europa.

Il campanello d’allarme in America Latina, continente che continua a godere di un periodo positivo dal punto di vista economico grazie ai prezzi delle commodities e all’aggancio progressivo al mercato del Pacifico, riguarda invece la politica.  In Venezuela, dove il prossimo ottobre si voterà per eleggere il nuovo presidente, il principale punto del dibattito è la salute di Hugo Chávez che ha deciso di ripresentarsi, malgrado la gravità della sua malattia. La sua non appare una ricandidatura attribuibile a quella “aspirazione all’eternità” tipica dei populismi, quanto piuttosto alla constatazione che la rivoluzione bolivariana non ha prodotto una classe dirigente in grado di esprimere nuove leadership.

Non sarebbero pochi gli argomenti sui quali farsi venire nuove idee in Venezuela. Innanzitutto sul tema della persistenza della povertà di massa e dell’insicurezza generale che essa produce, pur dopo 13 anni di investimenti dello Stato. Oppure sul perdurare delle storiche dipendenze venezuelane dall’import di prodotti industriali e alimenti. Il candidato delle opposizioni, Capriles, non è totalmente fuori dai giochi, anche se ha già dovuto confermare, in caso di vittoria, il mantenimento di diverse politiche di welfare create da Chávez. Una situazione, quella dei liberisti che devono mantenere alcune conquiste sociali, molto frequente nell’America Latina degli ultimi anni.

In Paraguay invece c’è stato un golpe institucional contro il presidente Fernando Lugo. Lo scorso 22 giugno il Senato ha votato a favore della destituzione di Lugo per “cattiva gestione” in relazione ai gravissimi fatti che hanno visto la morte di 11 contadini e 6 poliziotti a Curuguaty durante l’operazione di sgombero di un’azienda agricola occupata da un mese dai senza terra. Il “giudizio politico”, previsto dalla Costituzione post-dittatura, si è concluso a tempo di record con la destituzione del presidente con un solo voto contrario. Dietro le quinte si registra la soddisfazione dei grandi proprietari terrieri che coltivano soia OGM, della parte conservatrice della Chiesa cattolica, e più in generale dei poteri forti. Il presidente-sacerdote è stato difeso solo dai colleghi alla guida dei Paesi del Mercosur, che hanno sospeso il Paraguay e minacciato ritorsioni senza ottenere però risultati concreti. Il mandato di Lugo sarebbe scaduto il prossimo mese di aprile: proprio per questo motivo è difficile interpretare il golpe che ha portato al potere il suo vice, esponente dello storico  Partito Colorado.

Il terzo campanello d’allarme arriva dal Messico, dove dopo 12 anni di governo del conservatore PAN torna al potere l’inossidabile PRI, il Partito della Rivoluzione Istituzionale che aveva governato il Messico nei precedenti… 70 anni! La sinistra ancora una volta non è riuscita a vincere, confermando che il Paese confinante con gli Stati Uniti continua a rimanere estraneo all’ondata di rinnovamento che, ormai da un decennio, ha investito la politica latinoamericana, determinando anche gli equilibri del Centro del continente. Un ritorno dei “dinosauri”, dunque, che in realtà non sono mai scomparsi. Sono solo rimasti in agguato cercando di riproporsi, come in Messico, con facce più giovani e  telegeniche.

Altri fronti di preoccupazione sono la situazione stagnante di Cuba, dopo le aperture dell’anno scorso, e la crisi sull’economia che sta determinando il blocco del mercato dei cambi in Argentina.

Se ne potrebbe dedurre che in America Latina si sta voltando pagina di nuovo, ma sarebbe una conclusione errata. L’architrave dei cambiamenti in corso, e soprattutto del nuovo posizionamento internazionale dell’America Latina (equidistante da Stati Uniti e Europa, in veloce avvicinamento all’Africa e all’Asia e con alleanze regionali via via più ambiziose) è stato il Brasile di Lula e oggi di Dilma Rousseff. L’asse Lula-Chávez-Kirchner-Bachelet è stato decisivo nella messa in moto di queste dinamiche: poi si sono aggiunti Morales, Correa, Lugo, Vázquez. Alcuni processi avviati durante quella stagione sono ormai irreversibili. Primi fra tutti la diversificazione dei mercati internazionali e l’autonomia politica dagli Stati Uniti. Altri caposaldi non si discutono: il neo-conservatore Piñera in Cile ha dovuto confermare buona parte del welfare ereditato dal centrosinistra. Lo stesso, come si è detto, si è impegnato a fare in caso di vittoria Capriles in Venezuela.

Ultimo ma non meno importate, la democrazia come sistema di governo si è ormai consolidata nella regione: tanto che sono stati gli stessi Paesi latinoamericani a intervenire per bloccare diversi tentativi di sovvertimento dell’ordine democratico. Con l’eccezione del pasticcio paraguayano. Ora siamo alla “seconda generazione” di politici: qui cominciano le difficoltà e si distinguono i leader carismatici che hanno lavorato per preparare la propria successione e quelli che non lo hanno fatto. La differenza che passa tra Lula e Chávez.

Se il livello di partecipazione della società civile resterà alto come in questi anni, sicuramente sarà possibile garantire la continuità di politiche che si sono dimostrate molto efficaci nel ridurre la povertà e garantire i diritti. Anche se poco noto, oggi nel continente sudamericano molti paesi hanno legiferato in favore dei matrimoni gay, hanno sancito il diritto al cambiamento di sesso, al testamento biologico. Hanno legalizzato le droghe leggere. La povertà è calata in generale, ma soprattutto in Brasile, storico serbatoio della disperazione sociale, dove decine di milioni di ex-poveri si sono avvicinati ai ceti medi. Ma sarà l’andamento dell’economia, che qui ancora “gira”, a permettere il sostegno delle politiche espansive e ridistributive applicate negli anni scorsi. Quando bisognava uscire dalle macerie lasciate dal neoliberismo degli anni ’90. Quelle politiche che i Paesi latini si sono potuti permettere dopo la rottura politica con il Fondo Monetario Internazionale e le sue ricette recessive sempre uguali, oggi riproposte in Grecia e Spagna.

L’America Latina ha ancora margini incredibilmente grandi per crescere riducendo le ingiustizie sociali. Purché a guidare il continente non sia l’economia ma la politica (oggi presa a bersaglio in Europa), proprio come è accaduto negli ultimi 10 anni. In questa parte del mondo il governo della finanza senza mediazione politica è già stato sperimentato: nessuno sano di mente potrebbe oggi proporre agli elettori di tornarci.

Alfredo Somoza