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La vittoria dell’opposizione venezuelana, dopo la sconfitta lo scorso mese in Argentina del peronismo kirchnerista, ci racconta l’inizio della fine di un ciclo storico caratterizzato da un mix di intervento pubblico, welfare, ridistribuzione del reddito, diritti civili e neo-populismo che aveva conquistato il Sud America dopo i fallimenti delle destre. Da Caracas a La Paz, da Buenos Aires a Quito e in buona parte anche a Brasilia, si erano affermati governi guidati da figure carismatiche, reduci da sconfitte inenarrabili e che mai si sarebbe potuto immaginare fossero diventati presidenti dei loro paesi. Lula, Chavez, Kirchner, Morales, Correa hanno dato un volto e un nuovo protagonismo al subcontinente americano scrivendo pagine storiche come la rottura del monopolio dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti e l’Europa, il processo di unificazione politica ed economica Sud-Sud, la primavera dei diritti civili. Oggi queste esperienze man mano stanno andando ad esaurirsi per una serie di motivi interni ed esterni. A livello macro, il ciclo particolarmente vantaggioso per i produttori di materie prime, come lo sono tutti i paesi latinoamericani, è entrato in crisi con il rallentamento dell’economia cinese. I proventi delle tasse sulla soia, la carne, il petrolio, i minerali avevano finanziato welfare, politica estera, riforme lavorative e pensionistiche. Il Venezuela dei tempi d’oro di Chavez, che si poteva permettere di sostenere Cuba e Nicaragua vendendo loro sottocosto il petrolio, oggi deve fare i conti con un prezzo del greggio che è un quarto rispetto a 5 anni fa. I fattori interni del declino sono invece insiti nel modello politico basato sulla figura carismatica di un leader, spesso senza una struttura partitica vera alle spalle. Nepotismo, corruzione, rigurgiti autoritari e poca trasparenza sono la cifra di quasi tutte queste esperienze nella loro fase declinante. La madre di tutti i fallimenti è stata però la mancanza di ricambio, legittimata da riforme continue delle costituzioni per permettere il perpetuarsi al comando. Le seconde generazioni designate da  Kirchner  e da Chavez, sono state un fallimento e il momento magico è ormai  svanito.

Cosa resterà di questa stagione politica? Probabilmente molto, nel senso che i diritti acquisiti, il ruolo dello Stato e il protagonismo popolare, non si possono cancellare facilmente e anche se, come sta capitando, ci sarà un ritorno di forze politiche legate agli anni del neoliberismo, non si potranno ripetere gli scenari degli anni ’90, quando un intero continente fu regalato ai grandi capitali, mentre venivano cancellati i diritti dei lavoratori. Il ricambio democratico è sempre salutare quando va a scrostare situazioni nelle quali populismo e corruzione sono diventati un cocktail micidiale. Ma resta il dubbio sul futuro, e cioè sulla natura di quelle forze storicamente di destra che tornano al potere. Il dubbio cioè se hanno capito la lezione dei loro passati fallimenti e se hanno stemperato la loro naturale tendenza a promettere ai poveri per dare ai ricchi.

La ruota della storia si è messa a girare di nuovo in Sud America, un continente ormai ancorato alla democrazia. E’ in democrazia che sono avvenuti i grandi cambiamenti dell’ultimo decennio. Questo è un patrimonio inestimabile e la condizione perché si possa ripetere in futuro un’altra tornata progressista.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

Presidentes-Sudamerica

La grande crisi che si è abbattuta dal 2008 in poi su Europa e Stati Uniti per ora ha solo rallentato la crescita impetuosa delle cosiddette economie “emergenti”, e soprattutto degli alfieri del nuovo ordine internazionale multipolare, i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Le stime al ribasso della crescita della Cina e del Brasile non destano per ora troppe preoccupazioni, o comunque ne suscitano molte meno di quelle che riguardano l’Europa.

Il campanello d’allarme in America Latina, continente che continua a godere di un periodo positivo dal punto di vista economico grazie ai prezzi delle commodities e all’aggancio progressivo al mercato del Pacifico, riguarda invece la politica.  In Venezuela, dove il prossimo ottobre si voterà per eleggere il nuovo presidente, il principale punto del dibattito è la salute di Hugo Chávez che ha deciso di ripresentarsi, malgrado la gravità della sua malattia. La sua non appare una ricandidatura attribuibile a quella “aspirazione all’eternità” tipica dei populismi, quanto piuttosto alla constatazione che la rivoluzione bolivariana non ha prodotto una classe dirigente in grado di esprimere nuove leadership.

Non sarebbero pochi gli argomenti sui quali farsi venire nuove idee in Venezuela. Innanzitutto sul tema della persistenza della povertà di massa e dell’insicurezza generale che essa produce, pur dopo 13 anni di investimenti dello Stato. Oppure sul perdurare delle storiche dipendenze venezuelane dall’import di prodotti industriali e alimenti. Il candidato delle opposizioni, Capriles, non è totalmente fuori dai giochi, anche se ha già dovuto confermare, in caso di vittoria, il mantenimento di diverse politiche di welfare create da Chávez. Una situazione, quella dei liberisti che devono mantenere alcune conquiste sociali, molto frequente nell’America Latina degli ultimi anni.

In Paraguay invece c’è stato un golpe institucional contro il presidente Fernando Lugo. Lo scorso 22 giugno il Senato ha votato a favore della destituzione di Lugo per “cattiva gestione” in relazione ai gravissimi fatti che hanno visto la morte di 11 contadini e 6 poliziotti a Curuguaty durante l’operazione di sgombero di un’azienda agricola occupata da un mese dai senza terra. Il “giudizio politico”, previsto dalla Costituzione post-dittatura, si è concluso a tempo di record con la destituzione del presidente con un solo voto contrario. Dietro le quinte si registra la soddisfazione dei grandi proprietari terrieri che coltivano soia OGM, della parte conservatrice della Chiesa cattolica, e più in generale dei poteri forti. Il presidente-sacerdote è stato difeso solo dai colleghi alla guida dei Paesi del Mercosur, che hanno sospeso il Paraguay e minacciato ritorsioni senza ottenere però risultati concreti. Il mandato di Lugo sarebbe scaduto il prossimo mese di aprile: proprio per questo motivo è difficile interpretare il golpe che ha portato al potere il suo vice, esponente dello storico  Partito Colorado.

Il terzo campanello d’allarme arriva dal Messico, dove dopo 12 anni di governo del conservatore PAN torna al potere l’inossidabile PRI, il Partito della Rivoluzione Istituzionale che aveva governato il Messico nei precedenti… 70 anni! La sinistra ancora una volta non è riuscita a vincere, confermando che il Paese confinante con gli Stati Uniti continua a rimanere estraneo all’ondata di rinnovamento che, ormai da un decennio, ha investito la politica latinoamericana, determinando anche gli equilibri del Centro del continente. Un ritorno dei “dinosauri”, dunque, che in realtà non sono mai scomparsi. Sono solo rimasti in agguato cercando di riproporsi, come in Messico, con facce più giovani e  telegeniche.

Altri fronti di preoccupazione sono la situazione stagnante di Cuba, dopo le aperture dell’anno scorso, e la crisi sull’economia che sta determinando il blocco del mercato dei cambi in Argentina.

Se ne potrebbe dedurre che in America Latina si sta voltando pagina di nuovo, ma sarebbe una conclusione errata. L’architrave dei cambiamenti in corso, e soprattutto del nuovo posizionamento internazionale dell’America Latina (equidistante da Stati Uniti e Europa, in veloce avvicinamento all’Africa e all’Asia e con alleanze regionali via via più ambiziose) è stato il Brasile di Lula e oggi di Dilma Rousseff. L’asse Lula-Chávez-Kirchner-Bachelet è stato decisivo nella messa in moto di queste dinamiche: poi si sono aggiunti Morales, Correa, Lugo, Vázquez. Alcuni processi avviati durante quella stagione sono ormai irreversibili. Primi fra tutti la diversificazione dei mercati internazionali e l’autonomia politica dagli Stati Uniti. Altri caposaldi non si discutono: il neo-conservatore Piñera in Cile ha dovuto confermare buona parte del welfare ereditato dal centrosinistra. Lo stesso, come si è detto, si è impegnato a fare in caso di vittoria Capriles in Venezuela.

Ultimo ma non meno importate, la democrazia come sistema di governo si è ormai consolidata nella regione: tanto che sono stati gli stessi Paesi latinoamericani a intervenire per bloccare diversi tentativi di sovvertimento dell’ordine democratico. Con l’eccezione del pasticcio paraguayano. Ora siamo alla “seconda generazione” di politici: qui cominciano le difficoltà e si distinguono i leader carismatici che hanno lavorato per preparare la propria successione e quelli che non lo hanno fatto. La differenza che passa tra Lula e Chávez.

Se il livello di partecipazione della società civile resterà alto come in questi anni, sicuramente sarà possibile garantire la continuità di politiche che si sono dimostrate molto efficaci nel ridurre la povertà e garantire i diritti. Anche se poco noto, oggi nel continente sudamericano molti paesi hanno legiferato in favore dei matrimoni gay, hanno sancito il diritto al cambiamento di sesso, al testamento biologico. Hanno legalizzato le droghe leggere. La povertà è calata in generale, ma soprattutto in Brasile, storico serbatoio della disperazione sociale, dove decine di milioni di ex-poveri si sono avvicinati ai ceti medi. Ma sarà l’andamento dell’economia, che qui ancora “gira”, a permettere il sostegno delle politiche espansive e ridistributive applicate negli anni scorsi. Quando bisognava uscire dalle macerie lasciate dal neoliberismo degli anni ’90. Quelle politiche che i Paesi latini si sono potuti permettere dopo la rottura politica con il Fondo Monetario Internazionale e le sue ricette recessive sempre uguali, oggi riproposte in Grecia e Spagna.

L’America Latina ha ancora margini incredibilmente grandi per crescere riducendo le ingiustizie sociali. Purché a guidare il continente non sia l’economia ma la politica (oggi presa a bersaglio in Europa), proprio come è accaduto negli ultimi 10 anni. In questa parte del mondo il governo della finanza senza mediazione politica è già stato sperimentato: nessuno sano di mente potrebbe oggi proporre agli elettori di tornarci.

Alfredo Somoza