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Il colonnello Chávez divenne un protagonista della scena politica nel momento peggiore della storia venezuelana. Era il febbraio 1989 e il paese stava precipitando nel caos. Il governo socialdemocratico di Carlos Andrés Pérez firmava l’accordo con il FMI per negoziare il debito estero accettando un memorandum che, secondo la logica neoliberista dell’ente internazionale, andava a incidere fortemente su pensioni, tariffe del trasporto pubblico e prezzi degli alimenti di base. La risposta fu il caracazo, 24 ore di violenze e saccheggi inscenati dalle popolazioni delle baraccopoli di Caracas. Il saldo ufficiale parlò di 300 morti, quello ufficioso di 3000 cittadini uccisi dai militari usciti dalle caserme per domare la ribellione.

Tra le macerie di un Venezuela fallito e in pieno incendio sociale, con la popolazione che chiedeva che tutti i politici scomparissero urlando lo slogan “que se vayan todos!”, il giovane colonnello Chávez tentò un colpo di Stato con altri colleghi nazionalisti e finì in galera. Ma rimase impresso nella memoria della popolazione, alla ricerca di un leader non compromesso con la vecchia politica, e alla prima opportunità fu eletto presidente. Diventò così il primo presidente della Seconda repubblica, dopo che i partiti tradizionali, socialcristiano e socialdemocratico, erano stati spazzati via.

Al potere, il colonnello ha fondato la Repubblica bolivariana, riprendendo il vecchio sogno del Libertador intenzionato a lottare per un’America Latina unita. Ha fatto tornare il suo Paese tra i protagonisti della scena internazionale inventandosi nuove alleanze in chiave strategica, come l’accordo con l’Iran, diventato partner politico tra i Paesi petroliferi. Con gli Stati Uniti ha recitato il vecchio e collaudato ruolo del caudillo antiamericano, ma non ha smesso di vendere il “suo” greggio a Washington. In Venezuela, lo Stato è diventato onnipresente attraverso le misiones, cioè gli interventi sanitari e scolastici a favore dei poveri e gestiti dai cubani.

Chávez ha continuato a dialogare quotidianamente con il suo popolo “a tu per tu”, attraverso ore e ore di trasmissioni televisive con domande e risposte in diretta. Una relazione tra capo e popolo nel più puro stile peronista, caratterizzata in questo caso dal rispetto delle forme democratiche e dall’uso della televisione. L’opposizione, che controlla l’intero settore dell’informazione privata, è stata più volte minacciata ma mai toccata sul serio. Nelle cinque elezioni dell’era chavista (quattro vinte e una persa), nessuno ha avanzato infatti il benché minimo dubbio sulla regolarità delle consultazioni. In questi lunghi anni, l’opposizione a Chávez si è rivelata rissosa, frammentaria e soprattutto popolata da personaggi poco presentabili.

Il potere chavista è stato costruito sia dall’alto verso il basso sia viceversa. Con alla testa un leader carismatico dalle spiccate doti da predicatore, ma anche con una miriade di organizzazioni di base cresciute modellandosi sugli schemi di partecipazione cittadina maturati a Porto Alegre. Il programma economico di questi anni, fortemente statalista e nazionalista, non è stato molto dissimile da quelli di molte forze antisistema del Vecchio continente. La differenza è che Chávez ha saputo costruire un blocco di potere per governare, basato sull’esercito e sul popolo organizzato.

Il Venezuela che verrà non potrà mai cancellare alcuni punti introdotti da Chávez nella sua Costituzione; soprattutto non potrà tornare indietro sulle scelte economiche che, per quanto si possa essere critici, hanno permesso a un paese fallito di uscire dalle macerie e di diventare protagonista in uno dei cambiamenti geopolitici più importanti dell’ultimo decennio: la rottura dei legami di dipendenza tra l’America del Sud e le vecchie potenze industrializzate.

Alfredo Somoza per Popolare Network

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La grande crisi che si è abbattuta dal 2008 in poi su Europa e Stati Uniti per ora ha solo rallentato la crescita impetuosa delle cosiddette economie “emergenti”, e soprattutto degli alfieri del nuovo ordine internazionale multipolare, i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Le stime al ribasso della crescita della Cina e del Brasile non destano per ora troppe preoccupazioni, o comunque ne suscitano molte meno di quelle che riguardano l’Europa.

Il campanello d’allarme in America Latina, continente che continua a godere di un periodo positivo dal punto di vista economico grazie ai prezzi delle commodities e all’aggancio progressivo al mercato del Pacifico, riguarda invece la politica.  In Venezuela, dove il prossimo ottobre si voterà per eleggere il nuovo presidente, il principale punto del dibattito è la salute di Hugo Chávez che ha deciso di ripresentarsi, malgrado la gravità della sua malattia. La sua non appare una ricandidatura attribuibile a quella “aspirazione all’eternità” tipica dei populismi, quanto piuttosto alla constatazione che la rivoluzione bolivariana non ha prodotto una classe dirigente in grado di esprimere nuove leadership.

Non sarebbero pochi gli argomenti sui quali farsi venire nuove idee in Venezuela. Innanzitutto sul tema della persistenza della povertà di massa e dell’insicurezza generale che essa produce, pur dopo 13 anni di investimenti dello Stato. Oppure sul perdurare delle storiche dipendenze venezuelane dall’import di prodotti industriali e alimenti. Il candidato delle opposizioni, Capriles, non è totalmente fuori dai giochi, anche se ha già dovuto confermare, in caso di vittoria, il mantenimento di diverse politiche di welfare create da Chávez. Una situazione, quella dei liberisti che devono mantenere alcune conquiste sociali, molto frequente nell’America Latina degli ultimi anni.

In Paraguay invece c’è stato un golpe institucional contro il presidente Fernando Lugo. Lo scorso 22 giugno il Senato ha votato a favore della destituzione di Lugo per “cattiva gestione” in relazione ai gravissimi fatti che hanno visto la morte di 11 contadini e 6 poliziotti a Curuguaty durante l’operazione di sgombero di un’azienda agricola occupata da un mese dai senza terra. Il “giudizio politico”, previsto dalla Costituzione post-dittatura, si è concluso a tempo di record con la destituzione del presidente con un solo voto contrario. Dietro le quinte si registra la soddisfazione dei grandi proprietari terrieri che coltivano soia OGM, della parte conservatrice della Chiesa cattolica, e più in generale dei poteri forti. Il presidente-sacerdote è stato difeso solo dai colleghi alla guida dei Paesi del Mercosur, che hanno sospeso il Paraguay e minacciato ritorsioni senza ottenere però risultati concreti. Il mandato di Lugo sarebbe scaduto il prossimo mese di aprile: proprio per questo motivo è difficile interpretare il golpe che ha portato al potere il suo vice, esponente dello storico  Partito Colorado.

Il terzo campanello d’allarme arriva dal Messico, dove dopo 12 anni di governo del conservatore PAN torna al potere l’inossidabile PRI, il Partito della Rivoluzione Istituzionale che aveva governato il Messico nei precedenti… 70 anni! La sinistra ancora una volta non è riuscita a vincere, confermando che il Paese confinante con gli Stati Uniti continua a rimanere estraneo all’ondata di rinnovamento che, ormai da un decennio, ha investito la politica latinoamericana, determinando anche gli equilibri del Centro del continente. Un ritorno dei “dinosauri”, dunque, che in realtà non sono mai scomparsi. Sono solo rimasti in agguato cercando di riproporsi, come in Messico, con facce più giovani e  telegeniche.

Altri fronti di preoccupazione sono la situazione stagnante di Cuba, dopo le aperture dell’anno scorso, e la crisi sull’economia che sta determinando il blocco del mercato dei cambi in Argentina.

Se ne potrebbe dedurre che in America Latina si sta voltando pagina di nuovo, ma sarebbe una conclusione errata. L’architrave dei cambiamenti in corso, e soprattutto del nuovo posizionamento internazionale dell’America Latina (equidistante da Stati Uniti e Europa, in veloce avvicinamento all’Africa e all’Asia e con alleanze regionali via via più ambiziose) è stato il Brasile di Lula e oggi di Dilma Rousseff. L’asse Lula-Chávez-Kirchner-Bachelet è stato decisivo nella messa in moto di queste dinamiche: poi si sono aggiunti Morales, Correa, Lugo, Vázquez. Alcuni processi avviati durante quella stagione sono ormai irreversibili. Primi fra tutti la diversificazione dei mercati internazionali e l’autonomia politica dagli Stati Uniti. Altri caposaldi non si discutono: il neo-conservatore Piñera in Cile ha dovuto confermare buona parte del welfare ereditato dal centrosinistra. Lo stesso, come si è detto, si è impegnato a fare in caso di vittoria Capriles in Venezuela.

Ultimo ma non meno importate, la democrazia come sistema di governo si è ormai consolidata nella regione: tanto che sono stati gli stessi Paesi latinoamericani a intervenire per bloccare diversi tentativi di sovvertimento dell’ordine democratico. Con l’eccezione del pasticcio paraguayano. Ora siamo alla “seconda generazione” di politici: qui cominciano le difficoltà e si distinguono i leader carismatici che hanno lavorato per preparare la propria successione e quelli che non lo hanno fatto. La differenza che passa tra Lula e Chávez.

Se il livello di partecipazione della società civile resterà alto come in questi anni, sicuramente sarà possibile garantire la continuità di politiche che si sono dimostrate molto efficaci nel ridurre la povertà e garantire i diritti. Anche se poco noto, oggi nel continente sudamericano molti paesi hanno legiferato in favore dei matrimoni gay, hanno sancito il diritto al cambiamento di sesso, al testamento biologico. Hanno legalizzato le droghe leggere. La povertà è calata in generale, ma soprattutto in Brasile, storico serbatoio della disperazione sociale, dove decine di milioni di ex-poveri si sono avvicinati ai ceti medi. Ma sarà l’andamento dell’economia, che qui ancora “gira”, a permettere il sostegno delle politiche espansive e ridistributive applicate negli anni scorsi. Quando bisognava uscire dalle macerie lasciate dal neoliberismo degli anni ’90. Quelle politiche che i Paesi latini si sono potuti permettere dopo la rottura politica con il Fondo Monetario Internazionale e le sue ricette recessive sempre uguali, oggi riproposte in Grecia e Spagna.

L’America Latina ha ancora margini incredibilmente grandi per crescere riducendo le ingiustizie sociali. Purché a guidare il continente non sia l’economia ma la politica (oggi presa a bersaglio in Europa), proprio come è accaduto negli ultimi 10 anni. In questa parte del mondo il governo della finanza senza mediazione politica è già stato sperimentato: nessuno sano di mente potrebbe oggi proporre agli elettori di tornarci.

Alfredo Somoza