Posts contrassegnato dai tag ‘immigrati’

Correva l’anno 1888 e il Brasile aboliva la schiavitù. Era l’ultimo Paese americano a farlo: chiudeva così un capitolo vergognoso della sua storia, lungo più di quattro secoli. Improvvisamente le campagne si svuotarono, gli impianti per la spremitura della canna da zucchero rimasero senza braccia, le piante di caffé senza cure. Gli ex schiavi fuggirono dai luoghi dove avevano conosciuto solo fame e frustate per accalcarsi nelle città, alla ricerca di un lavoro salariato e di nuove possibilità. Speranze che, purtroppo, erano spesso destinate a svanire nel nulla.

Il Brasile di fine Ottocento doveva dunque risolvere il problema della manodopera rurale. La soluzione abitava in Italia, più precisamente in Veneto, dove gli agenti del governo carioca trovarono un popolo cattolico e mansueto disposto a tutto per fuggire dalla fame. Furono un milione e mezzo gli italiani che nei successivi 40 anni si recarono in Brasile, e altri tre milioni navigarono fino alla vicina Argentina. Un esodo biblico si direbbe oggi, da far impallidire qualsiasi sbarco mai avvenuto a Lampedusa. Il resto della storia lo conosciamo: gli oriundi italiani nel mondo sono stati capaci di conquistarsi ruoli di tutto rispetto nelle diverse società che li hanno accolti.

Solo a partire dal 1970 il saldo migratorio italiano è diventato positivo. Fino a quel momento, a partire dall’inizio del secolo, l’Italia era stata terra di emigranti; nel 1970 invece, il numero degli immigrati ha cominciato a superare quello di chi lasciava il Paese per cercare fortuna altrove. L’Italia si era trasformata in una potenza economica, mentre molti degli Stati che un secolo prima avevano ospitato europei in fuga erano diventati a loro volta luoghi dai quali si scappava, per motivi politici o economici.

Altro giro di ruota, e negli anni 2000 i Paesi emergenti cominciano a conquistare un ruolo da protagonisti sulla scena globale. Nel 2011, dopo la Cina, il Brasile entra nel gruppo delle prime potenze mondiali superando il PIL di Italia e Regno Unito. Com’è noto, per capire la situazione economica di uno Stato non bastano i macroindicatori che fotografano il momento, come appunto il dato del prodotto interno lordo. Bisogna osservare anche le tendenze e i fenomeni a lungo termine. Da questo punto di vista il Brasile è un Paese in piena crescita: ha da poco ottenuto un upgrade da Standard & Poor’s e ha un bisogno urgente di figure professionali specializzate.

Per questa ragione il governo di Dilma Roussef sta mettendo a punto una legge che faciliterà l’immigrazione e che dovrebbe consentire a 400mila professionisti stranieri altamente qualificati, preferibilmente europei disoccupati, di lavorare nelle imprese brasiliane. In Italia per ora ne hanno parlato soltanto Esteri e Il Sole 24 ore, ma la notizia è carica di significati. Nel primo semestre 2012 il numero di immigrati approdati nel gigante sudamericano è cresciuto del 52,4%; il motore di ricerca lavoro Monster conta 80mila curricula di professionisti europei che si rivolgono al mercato brasiliano.

Per quanto riguarda l’Italia, a spingere molti a guardare nuovamente verso l’America Latina non sono soltanto i legami migratori storici con il Brasile, ma anche la crisi economica e le scarse prospettive di impiego. Certo oggi non è facile pensare di tornare a navigare le vecchie rotte dell’emigrazione; eppure la veloce industrializzazione di zone fino a ieri poverissime (come il Pernambuco, dove la Fiat sta aprendo la sua quarta fabbrica brasiliana) genera una domanda di manodopera qualificata e di tecnici di alto livello che in quelle terre non è disponibile, mentre in Italia la stessa manodopera viene lasciata per strada dalle aziende in crisi.

Se gli italiani torneranno davvero a emigrare in Brasile si ripeterà un ciclo storico che sembrava chiuso per sempre. La crisi economica che sta riscrivendo il nostro futuro si prepara a regalarci un’altra grande sorpresa.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Da quando l’uomo ha iniziato la sua avventura intelligente sulla terra, una delle costanti del suo agire è stata la ricerca di spazio vitale per sopravvivere e prosperare. Non è esistito periodo storico a noi noto che non sia stato attraversato da grandi o piccoli spostamenti umani in fuga da condizioni, climatiche o politiche, avverse. Dalla conquista degli spazi vuoti dell’Africa, dell’Asia e poi via via fino alle Americhe, all’Oceania e ai Poli i movimenti di riassestamento e rimescolamento della popolazione mondiale non hanno conosciuto intervalli. Anche la tratta negriera dall’Africa verso le Americhe, che studi prudenti stimano in 15 milioni di persone, ha avuto a posteriori effetti simili a quelli dei flussi migratori sul futuro dei Paesi di destinazione, gravando anche i discendenti dei migranti dell’eredità negativa della schiavitù.

In tempi moderni, sono state le tecnologie militari e dei trasporti a segnare la più grande operazione di occupazione di terre della quale si abbia memoria: l’Europa, tra il 1815 e il 1914 espulse 60 milioni di cittadini poveri verso il Nord e il Sud America, l’Africa australe e l’Oceania, mentre altri 10 milioni di persone si spostavano dall’Europa mediterranea verso quella settentrionale. Intere regioni si svuotavano in Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda, Gran Bretagna per dare vita a “neo europe” agli antipodi o per alimentare la rivoluzione industriale nei Paesi centrali. In quel periodo anche India e Cina contribuivano ai flussi mondiali fornendo manodopera a basso costo all’Impero Britannico o agli Stati Uniti. Flussi giganteschi di braccia che hanno ridisegnato intere regioni, alimentato l’economia globalizzata dell’Ottocento, ridando fiato ai Paesi d’origine grazie all’abbassamento della tensione demografica e al contributo delle rimesse allo sviluppo.

Le migrazioni hanno anche rivitalizzato la cultura mondiale rendendola universale. Nuove visioni, nuovi suoni e gusti che da espressione di piccole realtà territoriali divennero globali. La gastronomia italiana, senza l’emigrazione, sarebbe oggi tanto importante internazionalmente quanto quella svedese o polacca. La musica brasiliana, senza l’apporto africano, sarebbe ancora una variante di quella portoghese. Questo fenomeno inarrestabile è stato accompagnato da violenze, soprusi, drammi individuali e collettivi. I migranti, anche negli Stati che richiedevano la loro presenza, non hanno mai avuto vita facile. Gli italiani ne sanno qualcosa. Sono state però spesso le popolazioni dei Paesi “ospitanti” a vedere calpestati i propri diritti e a dover arretrare fino quasi a scomparire. I nativi dell’intero continente americano, i neri sudafricani e dello Zimbabwe, gli aborigeni australiani e i maori neozelandesi pagarono un prezzo altissimo per l’arrivo dei coloni europei: la perdita della propria terra e libertà.

Fin qui una storia che tutti conosciamo e che spesso dimentichiamo. Le migrazioni oggi, da almeno 40 anni, continuano, come sempre, ma hanno invertito strada e natura. Da Nord-Sud a Sud-Nord e non per occupare spazi a discapito dei locali, bensì per farsi carico del funzionamento di società invecchiate, a natalità quasi zero e bisognose di manodopera. Non si può più parlare di “invasioni”, ma di lento ricambio demografico di società ricche che hanno perso, o stanno perdendo, la loro spinta vitale.

Da qui le tensioni e i conflitti: non ci sono diritti nuovi da conquistare o terre da rendere produttive, ma diritti da condividere e spazi da spartire. Gli studi di antropologia sulla psicologia dei gruppi etnici ci spiegano che un popolo in arretramento demografico vive sempre con ostilità un altro popolo in espansione. Anche su questo tema troviamo abbondante letteratura d’epoca sul vissuto di statunitensi, inglesi o argentini nei confronti dell’immigrazione italiana, non soltanto considerata fonte di delinquenza e corruzione, ma temuta perchè la prolificità degli immigrati metteva in discussione gli equilibri sociali. Più figli significa più potere e più opportunità di arrivare a condurre l’economia e la res publica. Le paure che serpeggiano nella vecchia Europa e negli strati conservatori degli Stati Uniti passano fondamentalmente da questa equazione, che troviamo esasperata in uno Stato di Israele assediato, prima ancora che dall’ostilità dei Paesi vicini, dalla crescita della popolazione araba entro i propri confini.

I tentativi di arginare la paura dell’immigrato si ripetono nella storia quasi sempre nello stesso modo: cercando di limitare i diritti dei “nuovi arrivati” e considerando questi ultimi un fattore temporaneo che non inciderà sull’identità locale. Le conseguenze di queste politiche le conosciamo: non c’è stato Paese al mondo che abbia potuto tenere ai margini i migranti per più di una generazione. Le lotte per la conquista del diritto al voto, per condizioni di lavoro decenti, per la scuola e l’assistenza medica hanno segnato il Novecento in Europa e in America, e in molte realtà sono stati proprio gli italiani i più agguerriti e coraggiosi portabandiera. Sono pochissimi gli Stati che hanno scommesso sull’integrazione da subito, come il Canada o l’Australia, e non se ne sono mai pentiti.

Oggi in Occidente è in corso una battaglia perdente in partenza, perché già combattuta e persa altrove. Le poche voci lungimiranti vengono sommerse da fischi e urla quando dicono quello che la ragione sa, ma l’opportunismo elettorale nega. Soltanto negli Stati Uniti un gruppo di miliardari ha avuto recentemente il coraggio di denunciare la politica restrittiva sui clandestini, che nasconde lo sfruttamento economico, come una politica cieca e contraria allo spirito con il quale venne fondato quel grande Paese. Problemi veri, come quelli della convivenza con l’Islam, della lotta tra poveri nelle periferie, del futuro dei figli degli immigrati, si scansano con fastidio per far luogo a lunghe e sterile polemiche su permessi per costruire moschee o aprire chioschi di kebab.

L’Europa deve attingere a piene mani dalla propria esperienza migratoria per trovare quelle risposte che oggi, nel XXI secolo, una società moderna, democratica e con un tasso di benessere relativamente alto e ben distribuito, è obbligata ad avere. Se si coniugano bisogni dell’economia e diritti delle persone si può cominciare a dipanare una matassa molto intricata. Se si pensa di continuare a immaginare l’immigrato come una risorsa “usa e getta”, tollerando sacche di illegalità delle quali beneficiano imprenditori senza scrupoli, e consegnando il pacchetto dei diritti in mano agli estremisti e agli xenofobi, la lotta è persa. Ci vuole coraggio anche per fare cose che oggi possono essere impopolari, come per esempio estendere il diritto di voto o attuare nuove politiche per la casa non discriminatorie. Se vinceranno l’immobilismo e la demagogia, le banlieus in fiamme di Parigi saranno ricordate come l’inizio di una nuova stagione di conflitto sociale in Europa dalle conseguenza oggi imprevedibili.

di Alfredo Luis Somoza

 

Guerre, immigrati a armi

Pubblicato: 29 marzo 2011 in Mondo
Tag:, ,

Pare che il principale pericolo per la sicurezza italiana rispetto alla crisi politica in Libia siano le ondate di profughi, sommariamente definiti “immigrati illegali” in violazione di ogni elementare regola del diritto internazionale. In subordine vengono amplificate le veline dei servizi segreti sulle infiltrazioni di gruppi fondamentalisti, un evergreen dalla guerra in Iraq in avanti. Sappiamo poi degli interessi legati al petrolio e alla posizione delle aziende italiane in terra libica.

Di armi si parla poco, anche se non è un tema secondario. Nel 2004 furono i delegati italiani a convincere Bruxelles a cancellare le sanzioni alla Libia, un risultato che il Ministro degli Interni dell’epoca, Beppe Pisanu definiva come “un successo italiano che giova a tutta l’Europa”. L’argomento principale della diplomazia italiana era stato il tema del controllo dei flussi migratori, che incontrò il favore degli alleati europei: togliendo l’embargo – questo il senso della posizione italiana – ci sarebbe stato un amico che avrebbe pattugliato le coste meridionali del Mediterraneo. Un alleato al quale fornire le “attrezzature necessarie”, armi incluse. L’equazione “sicurezza-immigrati-forniture di armi”, utilizzata anche per la Tunisia, diventava lo strumento di politica europea per il Mediterraneo, con i Paesi nordafricani relegati al ruolo di cuscinetto per fermare l’immigrazione da Sud, ma anche quello di terra promessa per gli affari dei mercanti d’armi.

Made in Italy sono, infatti, buona parte dell’aviazione libica, fiore all’occhiello delle milizie del Colonnello Gheddafi, e buona parte delle navi che pattugliano le coste. Le aziende del gruppo Finmeccanica, Agusta Westland e Alenia, tra il 2005 e il 2009 hanno venduto alla Libia dieci elicotteri, due aeromobili e alcuni sistemi missilistici. Il legame si è ulteriormente rinsaldato con la partecipazione dei fondi libici nell’azionariato di Finmeccanica. Dall’Italia verso la Libia non sono partiti solo aerei e navi leggere: un gruppo di ONG ha denunciato che nel 2009 attraverso Malta c’è stata una triangolazione di armi leggere a uso militare a marchio Beretta, per una cifra di oltre 79 milioni di euro, con destinazione finale Tripoli.

Il resto è storia di questi giorni, ma per correttezza di informazione bisogna ricordare che operazioni simili sono state compiute da altre potenze in altri scenari: dalla Francia nei Paesi del Sahel, dalla Cina in Sudan, dal Regno Unito in Nigeria, dagli Stati Uniti in Colombia, Arabia Saudita e Pakistan. Gli alibi cambiano, ma la sostanza rimane la stessa. Una volta si armavano i regimi del Sud del Mondo in chiave geopolitica rispetto agli equilibri della Guerra Fredda, oggi lo si fa in nome della lotta al narcotraffico, all’integralismo islamico o all’immigrazione clandestina.

La cronaca ci riporta regolarmente poi la notizia scontata che quelle armi vengono usate contro gli stessi popoli che le hanno pagate, confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, l’immensa distanza tra le belle parole di democrazia e libertà che vengono spese dai leader mondiali e la cruda e cinica realtà della politica degli interessi nazionali.