Pare che il principale pericolo per la sicurezza italiana rispetto alla crisi politica in Libia siano le ondate di profughi, sommariamente definiti “immigrati illegali” in violazione di ogni elementare regola del diritto internazionale. In subordine vengono amplificate le veline dei servizi segreti sulle infiltrazioni di gruppi fondamentalisti, un evergreen dalla guerra in Iraq in avanti. Sappiamo poi degli interessi legati al petrolio e alla posizione delle aziende italiane in terra libica.
Di armi si parla poco, anche se non è un tema secondario. Nel 2004 furono i delegati italiani a convincere Bruxelles a cancellare le sanzioni alla Libia, un risultato che il Ministro degli Interni dell’epoca, Beppe Pisanu definiva come “un successo italiano che giova a tutta l’Europa”. L’argomento principale della diplomazia italiana era stato il tema del controllo dei flussi migratori, che incontrò il favore degli alleati europei: togliendo l’embargo – questo il senso della posizione italiana – ci sarebbe stato un amico che avrebbe pattugliato le coste meridionali del Mediterraneo. Un alleato al quale fornire le “attrezzature necessarie”, armi incluse. L’equazione “sicurezza-immigrati-forniture di armi”, utilizzata anche per la Tunisia, diventava lo strumento di politica europea per il Mediterraneo, con i Paesi nordafricani relegati al ruolo di cuscinetto per fermare l’immigrazione da Sud, ma anche quello di terra promessa per gli affari dei mercanti d’armi.
Made in Italy sono, infatti, buona parte dell’aviazione libica, fiore all’occhiello delle milizie del Colonnello Gheddafi, e buona parte delle navi che pattugliano le coste. Le aziende del gruppo Finmeccanica, Agusta Westland e Alenia, tra il 2005 e il 2009 hanno venduto alla Libia dieci elicotteri, due aeromobili e alcuni sistemi missilistici. Il legame si è ulteriormente rinsaldato con la partecipazione dei fondi libici nell’azionariato di Finmeccanica. Dall’Italia verso la Libia non sono partiti solo aerei e navi leggere: un gruppo di ONG ha denunciato che nel 2009 attraverso Malta c’è stata una triangolazione di armi leggere a uso militare a marchio Beretta, per una cifra di oltre 79 milioni di euro, con destinazione finale Tripoli.
Il resto è storia di questi giorni, ma per correttezza di informazione bisogna ricordare che operazioni simili sono state compiute da altre potenze in altri scenari: dalla Francia nei Paesi del Sahel, dalla Cina in Sudan, dal Regno Unito in Nigeria, dagli Stati Uniti in Colombia, Arabia Saudita e Pakistan. Gli alibi cambiano, ma la sostanza rimane la stessa. Una volta si armavano i regimi del Sud del Mondo in chiave geopolitica rispetto agli equilibri della Guerra Fredda, oggi lo si fa in nome della lotta al narcotraffico, all’integralismo islamico o all’immigrazione clandestina.
La cronaca ci riporta regolarmente poi la notizia scontata che quelle armi vengono usate contro gli stessi popoli che le hanno pagate, confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, l’immensa distanza tra le belle parole di democrazia e libertà che vengono spese dai leader mondiali e la cruda e cinica realtà della politica degli interessi nazionali.