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Quest’estate si è confermato il dato divenuto ormai consueto verso la fine di agosto: anche nel 2018 la temperatura media registrata nel mondo è salita, facendo segnare un nuovo record. E tra luglio e settembre si è drammaticamente manifestata l’intera gamma di fenomeni associata al cambiamento climatico: incendi, siccità, nubifragi, uragani, afa record. Il campanello d’allarme sulle condizioni di salute della Terra sta suonando da anni, ma rimane inascoltato. L’ultimo grande tentativo di porre rimedio al cambiamento climatico, o almeno di rallentarlo, è stato l’accordo raggiunto a Parigi nel 2015, ma è bastato l’arrivo di un nuovo inquilino alla Casa Bianca perché buona parte delle linee guida e degli impegni scaturiti da quella conferenza fossero dimenticati.

C’è chi continua a inquinare molto, come i Paesi dell’Asia industrializzata o gli Stati Uniti, e chi ha fatto passi in avanti, come l’Unione Europea o la piccola Costa Rica, ma i “virtuosi” non pesano a sufficienza per bilanciare il tutto. Soprattutto perché è tornata protagonista una fonte energetica fossile che si pensava sarebbe stata totalmente eliminata dal ciclo produttivo: il carbone, responsabile per l’80% delle emissioni di CO2 del settore energetico. L’illusione dell’abbandono del carbone era stata alimentata dalla Cina, che da sola è responsabile del 50% del consumo globale e che fino al 2016 aveva ridotto il ricorso a questa fonte. Ma dal 2017 l’estrazione carbonifera a livello globale è tornata a crescere soprattutto per l’aumentata domanda dell’India, secondo Paese al mondo per consumo. Nel frattempo anche negli Stati Uniti l’industria del carbone, da tempo in declino, ha registrato un aumento di produttività e di export, così come promesso in campagna elettorale da Donald Trump. E anche la Germania non ha abbandonato definitivamente la lignite.

L’ennesima illusione che oggi ci viene proposta come soluzione all’inquinamento sono le automobili elettriche. Ma proprio l’aumento della domanda di elettricità ha paradossalmente fatto tornare protagonisti il carbone e la lignite: macchine pulite, elettricità sporca potrebbe essere lo slogan. Allo stesso modo l’industria “smart”, che si sgancia sempre di più dall’impiego diretto dei combustibili fossili, è dipendente dall’elettricità generata ancora in alta percentuale da energia fossile.

Il cambiamento climatico sta mutando le condizioni di vita, le abitudini e l’economia di molti territori. Così come nel Galles si stanno impiantando vigneti e in Groenlandia si torna a coltivare la terra, in Australia e in California la siccità e gli incendi stanno riducendo la capacità produttiva di un’agricoltura ormai a rischio. I profughi climatici non esistono più solo nelle previsioni e nei report, spesso giudicati “provocatori”, degli esperti dell’ONU: sono diventati una realtà drammatica, in Africa come in molte regioni in rapida desertificazione di Paesi ad alto reddito. Da un sondaggio condotto nel 2017 in 38 Paesi è emerso che il cambiamento climatico è considerato dal 61% del campione la seconda minaccia alla sicurezza del mondo dopo l’ISIS. Una minaccia molto selettiva dal punto di vista sociale, perché le sue conseguenze si abbattono soprattutto sui mondi rurali dove gli agricoltori non sono sostenuti dallo Stato, mentre nelle città il caldo uccide senzatetto, anziani e malati poveri, cioè quelle categorie che non possono permettersi abitazioni climatizzate e muoiono a decine, se non a centinaia, ormai ogni estate in Europa.

Del cambiamento climatico si discute ormai da decenni. Per molto tempo è rimasto un tema per ambientalisti e per scienziati, mentre la politica si limitava a fingere di ascoltare. Oggi le sue conseguenze bucano il muro del silenzio che sopra questa vicenda è stato costruito. Il cambiamento climatico non è più esercizio teorico, ma drammatica realtà percepita da qualsiasi cittadino. Eppure la politica continua a prendere tempo, incurante del fatto che il tempo è ormai quasi scaduto, prima che si giunga a scenari poco rassicuranti per tutti.

 

È stato il biologo statunitense Eugene Stoermer, negli anni ’80, a ideare il concetto di Antropocene per indicare l’odierna era geologica nella quale – fatto inedito nella storia del pianeta – le trasformazioni del territorio e del clima sono determinate principalmente dall’uomo. Una tesi che ormai appare una certezza, ma che all’epoca della sua formulazione precorreva i tempi. Dagli anni ’90 in poi i dibattiti sul cambiamento climatico sono stati lunghi e complessi, finché si è arrivati alla constatazione, oggi rifiutata da pochissimi scienziati, del ruolo determinante svolto dalle attività umane nel riscaldamento della Terra.

Ma non solo per il clima imbizzarrito si caratterizza l’Antropocene. Nell’ultimo mezzo secolo gli esseri umani che popolano il pianeta sono aumentati vertiginosamente, insieme ai loro consumi e all’impatto sull’acqua, sui suoli, sulle foreste. L’anidride carbonica e il metano liberati dall’uomo hanno portato le concentrazioni di questi gas nell’atmosfera a livelli mai registrati negli ultimi 400.000 anni.

Il team di scienziati di prestigiosi istituti internazionali che sta studiando questo fenomeno sotto la direzione del chimico statunitense Will Steffen parla di “Great Acceleration”, una grande accelerazione delle attività umane che costituisce la base dell’Antropocene. In pratica, per la prima volta nella storia della Terra, nell’ultimo secolo l’insieme delle azioni prodotte dall’uomo è diventato più incisivo di tutte le altre modalità di trasformazione per così dire “spontanee”: oggi la mano dell’uomo incide di più sulla natura di quanto non sia in grado di fare la natura stessa.

In realtà, questa lettura dei fatti non dovrebbe stupirci. Nelle grandi religioni monoteiste il potere assegnato all’uomo di “assoggettare” la natura per prosperare ha sempre dato una dignità filosofica e teologica ai passi che hanno portato l’umanità dall’essere una specie animale tra le altre a conquistare una centralità senza contendenti, fino ad avere la possibilità di determinare la stessa distruzione della vita sulla Terra. Un potere incommensurabile che oggi, nel suo complesso, pesa più della natura sui cicli vitali.

L’uomo ha anche la capacità unica di trascendere dalla sua esperienza diretta e di immaginare massimi sistemi. Ma questa condizione tende a sfumare proprio quando dovrebbe tradursi in soluzioni pratiche dei problemi: cede il passo ad altre caratteristiche della psicologia umana che ne neutralizzano gli aspetti positivi, e così l’incoscienza continua a essere una condizione fondante dell’Antropocene. Un’incoscienza che a lungo è stata determinata dall’ignoranza dei processi in atto e delle loro cause, ma che oggi non risulta più giustificabile se non andando a indagare i meccanismi più antichi della nostra specie rispetto al progresso, alla moltiplicazione, all’assoggettamento del resto della natura.

La fisica e la chimica ci descrivono un mondo che sta cambiando velocemente secondo modalità via via più anomale, che spesso si percepiscono anche a occhio nudo. L’antropologia, invece, non ha ancora cominciato a indagare come e perché l’uomo non abbia perfezionato strumenti culturali adatti ad affrontare questi cambiamenti in corso, mettendo progressivamente a tacere uno dei principi basilari della vita sulla Terra: l’istinto di sopravvivenza.

 

Alfredo Somoza per #Esteri, Radio Popolare

 

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La Groenlandia è la più grande isola al mondo, collocata a ridosso del Circolo Polare Artico. La sua marginalità geografica e il clima particolarmente rigido hanno determinato una presenza umana molto ridotta, ma dal valore esemplare per comprendere come l’uomo si sia adattato (o meno) ai cambiamenti climatici.

Popolata a nord da inuit, i cosiddetti eschimesi, a partire dall’anno Mille ospitò colonie di vichinghi provenienti dall’Islanda, almeno secondo la saga di Erik il rosso. Questo accadde perché per circa tre secoli il “periodo caldo” medioevale permise ai navigatori dell’Europa settentrionale di insediarsi in quella che battezzarono Groenlandia, cioè “terra verde”, e di dar vita a fattorie, coltivare i campi e allevare bestiame. Circa 400 anni prima di Colombo, dalla Groenlandia partirono spedizioni che arrivarono fino in Canada, ma senza lasciare quasi traccia.

Sull’isola, invece, le colonie vichinghe prosperarono fino al XV secolo, quando la zona fu colpita da una piccola glaciazione. Qui la storia si complica per i vichinghi che, non riuscendo ad adattarsi al cambiamento climatico, di origine naturale, dovettero “tornare a casa”: per non scomparire fecero rotta verso l’Islanda. Non avevano saputo rinunciare alla carne bovina e al grano, cioè alla loro cultura alimentare, importata dall’Europa – una dieta che nel nuovo contesto climatico non era più praticabile – mentre disprezzavano il pesce e i grassi dei mammiferi marittimi. Cioè gli alimenti-base dei loro vicini del Nord, abituati e adattati al freddo estremo.

La Groenlandia, ormai coperta dai ghiacci per l’83% del suo territorio, dopo cinque secoli tornò a essere degli inuit, che migrarono verso la costa meridionale. Ma il legame di queste terre con i vichinghi non si spezzò nemmeno con il passare dei secoli: nel 1720 sull’isola sbarcarono missionari provenienti dalla Danimarca per convertire gli “eschimesi” al cristianesimo. La Groenlandia subì successivamente l’occupazione coloniale durata fino al 2008: anno dell’autonomia (nell’ambito del Regno di Danimarca) ottenuta dagli inuit con un referendum. Oggi è il primo e unico Stato inuit al mondo, anche se questo popolo polare vive pure in Canada, Stati Uniti e Russia.

Intanto la Groenlandia sta tornando a essere una “terra verde”, perché il cambiamento climatico, questa volta dovuto all’uomo, sta sciogliendo progressivamente il pack che ricopriva il suolo, lasciando affiorare i vecchi terreni agricoli dei vichinghi. Ma la scomparsa del pack sta rivelando altre risorse finora insospettate. Per esempio le cosiddette terre rare, contenenti minerali preziosi soprattutto per la moderna industria hightech. Per un solo voto di maggioranza il Parlamento dell’isola ha abbandonato la tolleranza zero sull’estrazione di questa risorsa, finora praticamente monopolizzata dalla Cina, che possiede il 90% dei giacimenti conosciuti prima di questa scoperta.

La Groenlandia è ricca anche di un’altra risorsa preziosa, l’uranio, che pone seri interrogativi sull’integrità ambientale. Gruppi cinesi si stanno aggiudicando i diritti di prospezione e prima o poi avvieranno la fase estrattiva. Si annunciano investimenti miliardari e l’arrivo di un’ondata di operai e tecnici per i quali bisognerà costruire città e infrastrutture. Il tutto in un contesto ambientale che rimane di estrema fragilità.

Il miraggio dei guadagni facili rischia di far dimenticare agli inuit di oggi la lezione che arriva dai loro antenati di 500 anni fa: chi pratica un’economia insostenibile e non si adatta ai cambi climatici rischia di scomparire. La grande industria mineraria, impiantata in quelle terre estreme, potrebbe renderle invivibili, obbligando gli inuit a cercare una nuova casa. Proprio come successe ai vichinghi.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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