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Questi mesi resteranno negli annali della meteorologia mondiale perché, ancora una volta, si sono battuti tutti i record di alte temperature. Ma non c’è solo questo. La continuità temporale tra la pandemia e la guerra in Ucraina ha incrinato definitivamente la narrazione ventennale sulla globalizzazione. Il paradigma secondo il quale un mondo economicamente interconnesso sarebbe stato un mondo senza guerra è stato smentito dai carri armati di Mosca: e non c’era Paese più inserito nello spazio economico europeo della Russia, con il suo ruolo di principale fornitore energetico dell’UE, ma anche di importante esportatore di prodotti agricoli e risorse minerarie. Malgrado ciò, è in corso una guerra che potremmo definire “all’antica”, finalizzata cioè a ridefinire confini, affermare una politica di potenza e consolidare il potere di un regime, in spregio alle varie sanzioni economiche finora applicate.

Nel frattempo, nel Pacifico Cina e Stati Uniti si fronteggiano per assicurarsi i punti strategici di un’area che molti pronosticano sarà lo scenario della prossima crisi. Nel resto del continente americano, marginale rispetto a questi giochi, si affermano uno dietro l’altro governi progressisti, spesso nati dalle lotte contro le peggiori ricadute della globalizzazione sull’ambiente e sulle persone.

L’Africa è invece scomparsa dai radar, dopo il ridimensionamento del ruolo post-coloniale di Parigi. Sul continente è calata una sorta di “pax cinese”, qua e là sostenuta da mercenari russi, che garantisce un ordine precario, utile soltanto a coloro che dall’Africa continuano a ricavare profitti per sé, lasciando sul territorio quasi nulla.

Da qualsiasi lato lo si guardi, il mondo dell’estate 2022 appare carente di una cosa fondamentale: una politica multilaterale che riesca a porre le basi per la convivenza civile e a fronteggiare l’emergenza di una natura alterata dal cambiamento climatico. Le due questioni, in realtà, si intrecciano pericolosamente. Ai problemi creati all’agricoltura da un clima che, quest’anno, è stato molto secco quasi ovunque, si aggiungono i blocchi incrociati all’esportazione di grano dei due grandi produttori europei, Ucraina e Russia. Gli investimenti necessari per mitigare le emissioni di CO2 e favorire la transizione energetica vengono dirottati per pagare il rincaro dell’energia fossile e per sostenere la corsa al riarmo.

L’unica luce in fondo al tunnel è che un mondo così combinato non è l’ideale per il mondo degli affari, e non lo è nemmeno per gli Stati Uniti e la Cina, le uniche potenze globali. Nel caso della Cina, la sua tenuta può essere garantita solo dalla crescita ininterrotta dell’economia; per la tenuta del sistema degli Stati Uniti (e dell’Europa occidentale) è invece indispensabile fare in modo che la spaccatura sociale smetta di allargarsi, fenomeno che nelle urne si riflette nel voto di protesta oppure nell’astensione, e cioè in un tracollo della partecipazione alla vita democratica. Nelle democrazie, dall’Ottocento in poi, il principale fronte di lotta ha riguardato proprio l’allargamento della partecipazione, e con fatica si è arrivati dal ristretto nucleo iniziale di elettori (maschi benestanti) fino al suffragio universale. Oggi si sta progressivamente tornando a democrazie nelle quali a decidere sono sempre meno persone, e questo mina le fondamenta stesse del sistema.

In quest’estate 2022 non c’è soltanto una carenza di pace, di cibo e salute ambientale. C’è anche una totale mancanza di statisti. Cioè di donne e di uomini che riescano ad alzare la testa sopra il gregge e allunghino lo sguardo verso il futuro. Urge che qualcuno lo faccia, prima che sia tardi.

L’ingerenza aperta e non contrastata di Russia e Turchia in Libia conferma, se ce ne fosse bisogno, la previsione contenuta nel lavoro del 2013 di Charles Kupchan, docente di Relazioni internazionali alla Georgetown University, intitolato Nessuno controlla il mondo. Kupchan scrive che il secolo che stiamo vivendo non apparterrà a nessuno. Non sarà degli Stati Uniti né dell’Europa, perché l’Occidente attraversa un declino economico e politico che lo priverà di quella preminenza di cui gode fin dal Rinascimento. Ma non sarà neppure di Cina, Russia o India, perché nessuno dei Paesi emergenti ha i numeri per imporsi come nuova potenza dominante. Sarà più libero, nel senso che ognuno potrà svilupparsi secondo il modello che preferisce, ma anche più complesso, perché non esisterà un baricentro capace di garantire la stabilità, e i vari attori coprotagonisti sul palcoscenico non parleranno la stessa lingua in termini di valori “universali” condivisi. I Paesi emergenti sulla scena internazionale, infatti, non seguono più necessariamente il modello della democrazia liberale e del capitalismo. In Medio Oriente i movimenti islamisti hanno tratto quasi ovunque benefici dalle cosiddette “primavere arabe”. In Cina c’è un regime autocratico che adotta l’economia di mercato, mentre India e Brasile scivolano verso il populismo. La Russia, piegata la resistenza europea, sta riconquistando velocemente lo spazio geopolitico dell’Unione Sovietica e torna a essere un giocatore globale. Costruire una politica di alleanze multilaterali è sempre più difficile, come si è potuto verificare con il fallimento dei vertici sul cambiamento climatico. Insomma, questo secolo non sarà di nessuno. E dire che, visto dal Novecento, il XXI secolo doveva essere l’era della Cina oppure dell’India. Qualche economista era perfino pronto a scommettere sul Brasile, mentre i neoconservatori americani puntavano sul ritorno alla supremazia degli Stati Uniti.

Oggi le democrazie occidentali rappresentano meno della metà della ricchezza mondiale, e il loro rallentamento economico va di pari passo con la crescita di altre potenze, “minori” fino a ieri, ma che oggi dispongono di arsenali di tutto rispetto e soprattutto, nel caso della Cina, di un potere economico immenso. Quali strutture politiche e sociali s’imporranno, se le democrazie dei due lati dell’Atlantico non si ergeranno più a controllori dell’ordine globale? Vivremo certamente in un mondo più instabile e complicato. Presto la maggior parte delle dieci principali potenze economiche non sarà democratica. O meglio, si tratta di Paesi nei quali la democrazia si declina in modo diverso rispetto all’ortodossia: sistemi a partito unico, come in Cina; o a leader unico, come in Russia o Turchia; populismi e nazionalismi di destra, anche violenti, come in Brasile e India, e Stati controllati dal potere religioso come l’Iran.

Da dove cominciare? Fermo restando che le istituzioni multilaterali globali, come il WTO o le Nazioni Unite, in questa fase non sono agibili, l’unico modo per provare a porre rimedio alla deriva in corso è ripartire dalle istituzioni regionali, come l’Unione Europea, il Mercosur e i trattati asiatici. Per l’Occidente la missione storica – se mai è davvero stata tale – di “esportatore della democrazia” si è esaurita. Non potendo imporre un modello di democrazia, è però importante che resti alta l’asticella della difesa dei diritti umani e ambientali. È quasi l’unico piano sul quale si può riuscire a costruire un ponte se non verso le istituzioni, almeno verso la società civile di questi Paesi.

Sarà davvero – e anzi lo è già – un mondo di nessuno, e bisogna attrezzarsi. Un mondo nel quale non ci si può aspettare nulla da nessuno, dove ogni certezza, perfino quella della solidarietà atlantica, è ormai saltata. Un mondo più difficile e pericoloso, nel quale occorre sforzarsi di tenere in vita la speranza di ricreare un concerto tra le nazioni, per trovare insieme un nuovo ordine condiviso, basato su rapporti pacifici e di cooperazione.

Nel rumore mediatico generato dai mille conflitti sociali o bellici in corso, si è persa una notizia incoraggiante. È l’ennesima dimostrazione dell’importanza e dell’efficacia delle politiche multilaterali, cioè eseguite di comune accordo da un grande insieme di Paesi. La notizia è che tra il 2008 e il 2018, secondo uno studio dell’OCSE, sono diminuiti del 34% i depositi bancari offshore. Cioè i soldi che privati e società depositano in paradisi bancari e fiscali per evadere il fisco o, nei casi più gravi, per riciclare soldi sporchi. Si parla di 531 miliardi di dollari in meno, una cifra praticamente pari al PIL di uno Stato come il Belgio. Questo successo, anche se ancora insufficiente, è stato raggiunto per il semplice motivo che oltre cento Paesi hanno aderito alla proposta dell’OCSE di scambiarsi automaticamente, dal 2017, i dati dei conti correnti dei non residenti. Tra gli aderenti si annoverano diversi ex paradisi fiscali come Svizzera, Uruguay e Isole Cayman. La schiera dei pirati della finanza globale si è infatti assottigliata, per quanto non sia ancora scomparsa.

Un problema globale può essere affrontato solo in modo globale. Anche in passato, quando si è raggiunto un accordo multilaterale i risultati sono arrivati velocemente: per esempio con il Trattato di Montreal del 1987, che mise al bando i gas CFC, clorofluorocarburi responsabili del cosiddetto “buco nell’ozono”. L’accordo, con le sue successive revisioni, è stato finora sottoscritto da 196 Stati più l’Unione Europea e ha portato alla riduzione progressiva, accertata scientificamente, dei CFC sull’Antartide a un ritmo dello 0,8% annuo. Un risultato eccezionale ottenuto soltanto grazie alla cooperazione internazionale.

Paradisi bancari e gas CFC sono due esempi delle potenzialità gigantesche del multilateralismo per il destino dell’umanità. Tra i grandi problemi che potrebbero essere risolti, o almeno fortemente mitigati, da un’azione collettiva ci sono il cambiamento climatico, la fame, i conflitti, la grande criminalità. Ma, per cecità o per interessi di bottega, non si trova l’accordo per procedere su nuovi fronti. È come se il concerto delle nazioni si fosse interrotto senza darsi una scadenza per la riprogrammazione.

Alcune grande potenze, come gli Stati Uniti e la Russia, boicottano attivamente le istituzioni multilaterali, favorendo il ritorno alla politica delle “mani libere”: ciascuno detta legge secondo la propria potenza, e comunque non accetta vincoli esterni. È un’idea molto antica, ottocentesca, di un’epoca in cui – non a caso – la politica internazionale si faceva a colpi di cannone. Ma le grandi questioni planetarie del XXI secolo, dopo l’ultima ondata di globalizzazione, non sono più risolvibili individualmente e nemmeno con il potere delle armi. A problemi globali, risposte collettive.

In sintesi, malgrado la vulgata sulla fine della politica, ciò che bisogna temere è proprio il vuoto politico: la perdita di capacità di esprimere una posizione e di trovare una mediazione in nome di interessi generali, è il problema dei nostri tempi. In termini di capacità politica, l’attuale classe dirigente globale è una delle più deboli di cui si abbia memoria. Sarà il compito di una futura generazione di statisti riaprire i tavoli del dialogo. Nel frattempo, è affidato alla società civile il compito di continuare a ricordarci che il nostro mondo potrebbe essere migliore, se soltanto lo si volesse.

 

Per definire questo Natale non si può certo usare l’aggettivo “sereno”. Il mondo è come in apnea, in attesa di capire quale piega prenderà la situazione internazionale nei prossimi anni. Il 2018 stato un anno pieno di segnali non proprio rassicuranti: soprattutto per la messa in discussione della dimensione multilaterale nei rapporti fra gli Stati, a partire dalla situazione dall’Unione Europea per arrivare agli accordi commerciali internazionali. Più che all’affermazione del sovranismo stiamo assistendo al ritorno della politica delle cannoniere, e cioè a dinamiche tipiche dei tempi in cui le grandi potenze coloniali piegavano altri popoli a suon di cannonate. Una politica che, nel XXI secolo, forse può essere esercitata dagli Stati Uniti e, in misura molto minore, da Russia e Cina, ma non certo da quelle piccole nazioni dell’Est europeo o del Mediterraneo che si comportano come se avessero qualche chance di cavarsela da sole.

Eppure questo non è stato un anno di sole negatività. Se non altro perché il rischio bellico nucleare della Corea del Nord è stato almeno momentaneamente stoppato, grazie al dialogo con gli Stati Uniti. In Medio Oriente il conflitto siriano è calato di intensità anche grazie al risoluto intervento russo, che ha colpito duramente l’ISIS, mentre la Turchia, con una piroetta degna di menzione, è passata dalla parte dei vincitori per portare avanti la sua guerra infinita contro il popolo curdo. Intanto, all’interno dei confini nazionali, l’autocrate Erdogan è riuscito nell’impresa di reprimere il dissenso e cambiare natura allo Stato nel completo silenzio internazionale: anzi, con l’Europa che sta finanziando le sue controriforme, pagando il dazio richiesto perché la Turchia non riapra le porte della rotta migratoria balcanica.

Dalla vicenda siriana, Putin è riuscito a ottenere un reddito politico che ha subito speso sul fronte dell’Ucraina. In sostanza, la posizione centrale assunta dalla Russia sullo scacchiere euro-asiatico permette a Mosca di infischiarsi dall’embargo europeo e di continuare la politica di consolidamento e di allargamento dei confini ereditati al momento del crollo dell’URSS.

In America Latina a fare da contraltare alle affermazioni delle destre, anche estreme come in Colombia e in Brasile, c’è stata la prima vittoria di un presidente proveniente dalla sinistra in Messico, il “socio povero” degli Stati Uniti. Anche in Africa si registrano segnali contraddittori sul fronte dei conflitti in corso, come quello nelle regioni settentrionali della Nigeria e quello tra anglofoni e francofoni in Camerun. Le buone notizie sono la fine dell’antica ostilità tra Etiopia ed Eritrea e la stabilizzazione crescente dell’Africa australe. Per il Nordafrica, invece, sono ancora tempi difficili: dalla Libia, dove la ricostruzione di uno stato unitario è boicottata dai signori della guerra, all’Egitto, sotto una dittatura che ormai ha zittito qualsiasi forma di protesta.

 

La pagina più vergognosa del 2018 è stata la Cop24 in Polonia sul cambiamento climatico, o meglio il suo fallimento, perché il carbone continuerà a regnare indisturbato in tutto il mondo. Ai problemi posti dalla globalizzazione e dall’ambiente si sta rispondendo con il ritorno al passato, senza capire che è impossibile riavvolgere il filo della storia. Un fallimento che è l’emblema di un atteggiamento più generale, e di una politica urlata che ricorre a un linguaggio sempre più diretto e propone solo soluzioni semplici. Una politica che fa un uso sapiente dei social per creare, manipolare e spacciare notizie che così diventano verità e consenso.

Prima di lasciarci, Umberto Eco aveva parlato di Internet dicendo che la rete aveva reso autorevoli una legione di imbecilli, quelli che una volta parlavano solo al bar. Il punto è che ormai gli “imbecilli da tastiera” sono solo gli strumenti di chi, invece, se ne intende fin troppo della vecchia arte della manipolazione di massa. Attuata oggi con mezzi mai immaginati prima.

Il mondo del 2019 dovrà chiedersi se va bene continuare a distruggere quanto si è fatto fino a ieri senza costruire nulla di nuovo, lasciando il potere di governare il presente e indirizzare il futuro a chi manovra l’opinione pubblica da dietro le quinte del mondo digitale. La legge fiscale di Trump, la riforma pensionistica di Bolsonaro in Brasile, la flat tax italiana lasciano facilmente capire che, anche questa volta, i populisti finiranno molto presto per colpire quello stesso popolo che dicono di rappresentare. Una lezione che ormai dovremmo conoscere bene, ma che in molti abbiamo dimenticato.

 

Quando quest’ultima ondata di globalizzazione dell’economia ebbe inizio, con lo scoccare degli anni ’90, l’entusiasmo era il sentimento preponderante. Non tanto perché tutti fossero convinti che l’apertura dei mercati mondiali allo scambio di servizi e merci fosse cosa buona a prescindere, ma perché chi aveva dei dubbi rimase a guardare. Si diffondeva senza contrasti una narrazione epica della rivoluzione in corso, che si è poi avverata solo in parte: società più aperte, più ricche e meticce, vantaggi per tutti, nuovi mezzi di comunicazione che creavano l’illusione di vivere in un unico villaggio globale. Si dava il via alle delocalizzazioni produttive dai Paesi di vecchia industrializzazione a quelli emergenti. Masse di centinaia di milioni di contadini cominciavano a spostarsi verso le città della Cina, dell’Indonesia, dell’India, del Messico. Il reddito aumentava nei Paesi poveri e “teneva” in quelli ricchi. Nasceva il WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio, per sancire la vittoria del libero mercato e regolare le controversie in campo commerciale.

La fede nella fine della Storia, come si diceva allora, portò addirittura a stabilire che il WTO dovesse trovare l’unanimità per decidere le regole mondiali. Andava così: chi poteva immaginare, allora, che qualcuno volesse opporsi alla narrazione della globalizzazione? Quell’onda di piena metteva alla pari democrazie e dittature, Paesi del primo e del terzo mondo, tutti insieme per costruire la mappa del futuro. Furono in pochi a segnalare per tempo i limiti di ciò che stava avvenendo, a dire che quel processo, in nome dell’apertura dei mercati, veniva condotto senza regole condivise, e anzi abbattendo regole preesistenti che tutelavano cittadini o Stati. Mancanza di regole sulla fiscalità globale, sui paradisi fiscali, sui temi ambientali, sulla mobilità delle persone, sul lavoro.

Pian piano molti nodi hanno cominciato a venire al pettine. Con la scoperta, ad esempio, che la delocalizzazione produttiva aveva sì creato molti posti di lavoro in Cina, ma stava desertificando intere aree in Europa o nel Nordamerica, dove non si riusciva più a garantire lavoro a intere comunità. I grandi soggetti multinazionali nati dalla rivoluzione tecnologica, quasi tutti statunitensi, erano diventati praticamente dei monopolisti, pagando percentualmente meno tasse del salumiere sotto casa e stroncando così qualsiasi ipotesi di concorrenza. Nei Paesi di vecchia industrializzazione, il passaggio dall’ottimismo alla preoccupazione è stato breve, e soprattutto foriero di cambiamenti nel rapporto con la politica, colpevole di aver ceduto sulla sovranità nazionale. La retorica “globalizzata” oggi è praticamente scomparsa: si è rivalutato il “territorio”, è tornata di moda la nazione, si stanno ipotizzando diverse modalità di autarchia. Si rifiuta la società meticcia e si demolisce a picconate il sistema multilaterale di relazioni.

Siamo quindi all’alba di una nuova era? È probabile, ma la globalizzazione è un dato irreversibile. Passata la sbornia attuale si lavorerà sulle riforme necessarie per adeguare il diritto internazionale e quello nazionale al nostro tempo, in un contesto multilaterale. Non esiste altra possibilità. Anche i fautori dell’approccio da “padroni a casa nostra” capiranno che, nel mondo attuale, è impossibile andare avanti senza cedere una parte della propria sovranità. Il punto è a quali condizioni, per quali obiettivi. Ma su temi come l’ambiente, la finanza, la mobilità delle persone le soluzioni o sono condivise o non sono vere soluzioni. Gli automatismi ideologici, che sono sopravvissuti alla morte ufficiale delle ideologie, non hanno portato nulla di buono.

 

 

 

In Occidente si stanno avvicendando al potere forze politiche che hanno come punto di forza un obiettivo impensabile fino a poco tempo fa: smontare la globalizzazione. Ma che cos’è oggi la globalizzazione, e soprattutto come viene percepita? Per il grande capitale è stata una manna che ha spalancato mercati prima ermeticamente chiusi, che ha permesso di trovare manodopera a basso costo altrove e soprattutto di pagare meno tasse, talvolta addirittura nulla, grazie alla cosiddetta “ottimizzazione fiscale”. Gli imprenditori di dimensioni nazionali non hanno invece lo stesso vissuto: la concorrenza delle multinazionali ha ridotto le loro possibilità di sopravvivenza, e oggi i grandi marchi stanno occupando ogni nicchia produttiva e commerciale disponibile. Per le persone, per i privati cittadini, la situazione è ancora più complessa.

C’è chi ha migliorato le sue condizioni di vita, c’è chi invece è stato scartato, espulso dal lavoro. Questa è stata la conseguenza delle delocalizzazioni produttive, che hanno caratterizzato soprattutto la prima fase della globalizzazione. Milioni di nuovi posti di lavoro creati in Oriente, milioni di posti di lavoro in meno in Occidente. Nel frattempo l’offerta di lavoro è cambiata: l’alternativa all’impiego “di una volta” consiste spessissimo in occupazioni precarie, senza prospettive di carriera, con pochi diritti. È la situazione in cui si trovano, per esempio, centinaia di migliaia di distributori a domicilio delle merci ordinate via web. Così in Occidente è cresciuta la delusione per le promesse mancate, insieme alla paura di perdere anche ciò che resta dei diritti e del lavoro del passato.

Il programma dei cosiddetti populismi è molto semplice: dare risposte radicali ai problemi della globalizzazione, senza fare mediazioni e utilizzando un linguaggio diretto. Il nocciolo della proposta è l’idea che si possa tornare al passato, che si possa ricreare un mondo che a molti, ora, sembra idilliaco. Si pensa ad esempio che se una donna europea ricevesse sussidi dallo Stato farebbe molti figli, che dazi e barriere doganali possano rilanciare la produzione nazionale, che la forza militare sia una carta vincente. Il bersaglio preferito dei populismi sono i cittadini privi del diritto al voto, cioè gli immigrati, senza i quali in realtà molte società sarebbero boccheggianti. Dai messicani negli Stati Uniti agli africani e mediorientali di religione musulmana in Europa, gli immigrati diventano la dimostrazione di un complotto: “sostituzione etnica” la chiamano, un grande disegno per cancellare i popoli bianchi d’Europa. Versione aggiornata dei Protocolli dei Savi di Sion, il pamphlet scritto dalla polizia zarista per giustificare i pogrom contro gli ebrei che portò dritto all’Olocausto.

I politici arrivati al potere su queste idee si stanno moltiplicando velocemente, da Trump negli Stati Uniti a Orbán in Ungheria, dall’Italia “gialloverde” all’Austria. E molti arriveranno ancora. Oggi i difensori della globalizzazione sono i Paesi che ne hanno tratto quasi solo vantaggi, dalla Cina al Vietnam, mentre le forze che l’hanno sostenuta in Occidente sono in stato confusionale. Il non avere mai voluto vedere le distorsioni che la globalizzazione produceva, il non avere mai voluto introdurre correttivi e riforme oggi si paga. L’azione di questi governi per ora si concentra sulla distruzione del sistema multilaterale di relazioni economiche, ma presto si arriverà all’approdo naturale di ogni nazionalismo: il ritorno a scenari bellici. Questo perché, se non sei interessato a vendere i tuoi prodotti attraverso gli accordi, i mercati li apri con le cannoniere, come usava fare l’Impero britannico. Il XXI secolo, che doveva essere quello del consolidamento di una società globale, rischia dunque di essere quello del ritorno agli Stati-nazione. La democrazia è in ritirata ovunque, gli organismi internazionali sono stati messi a tacere.

Come ridare fiducia a chi ritiene di aver soltanto perso, con la globalizzazione? È questa la domanda alla quale la politica dovrà dare urgentemente risposta. Le proposte dovranno essere concrete, dirette e radicali, ma finalizzate a riformare, non a smontare l’esistente. Perché oltre la globalizzazione non c’è la possibilità di tornare a stare meglio, c’è solo quella di tornare all’era dei conflitti.

Tra le vittime della grande crisi economica iniziata nel 2008 c’è sicuramente il multilateralismo. Almeno, il multilateralismo inteso come l’armonizzazione regionale dei mercati delle merci, dei servizi e dei capitali in preparazione di un unico mercato mondiale, secondo l’orizzonte prospettato dal WTO: una realtà che già esiste nell’Unione Europea, nel Nafta e nel Mercosur, dove le merci girano senza dazi né barriere, anche se, nel caso del Nafta, lo stesso non vale per le persone. La presidenza Obama si era congedata con la fine dei negoziati per un grande accordo regionale (cioè il TPP, l’area di libero scambio di 12 Stati dell’area del Pacifico), e con il TTIP con l’Unione Europea in discussione. La presidenza di Donald Trump ha ribaltato il tavolo cambiando radicalmente strategia, passando dalla costruzione di aree di libero scambio che escludessero la Cina all’isolazionismo e alle ritorsioni per equilibrare la bilancia degli scambi laddove questa pende a sfavore di Washington.

Per questo le comunità multilaterali non interessano a Trump, perché portano benefici a tutte le parti in gioco e non modificano, se non di poco, il saldo finale. Il TPP ha subito un duro colpo da quando gli USA si sono ritirati, ma gli altri Stati del “club” hanno deciso di continuare lo stesso da soli. Trattandosi di un’area di Paesi del Pacifico, è scontato che la Cina proverà a subentrare alla potenza americana. Il TTIP pareva morto e sepolto, ma a sorpresa il segretario statunitense al Commercio Wilbur Ross ha comunicato alla commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, di essere pronto a chiedere al suo Parlamento un mandato negoziale per riaprire le trattative. È più una minaccia che una prospettiva di cooperazione: per Trump la ripresa del negoziato TTIP significherebbe tornare a insistere su quei punti che hanno precedentemente stoppato il dialogo, per esempio le questioni dell’agroalimentare e della giustizia, per poi ritenersi libero di applicare dazi e penalità all’Europa rea di non voler accettare la sua “generosa offerta”.

Dunque il negoziato, come affermava il Comitato No TTIP, non era davvero su un binario morto, e oggi potrebbe preludere a una vera e propria guerra commerciale. I contenuti critici del TTIP non riguardano più solo il principio di precauzione sull’alimentare, gli OGM o i tribunali privati. Ora quel trattato potrebbe diventare una clava da usare contro l’Unione Europea perché si adegui ai bisogni dell’inquilino della Casa Bianca. Trump deve disperatamente portare a casa risultati prima delle elezioni di midterm (cioè di metà mandato) che daranno un segnale forte per capire se la sua avventura si concluderà tra due anni oppure tra sei.

Se il trumpismo non sarà un fenomeno destinato a scomparire a breve, l’Europa dovrà rivedere le sue priorità da subito e immaginare un suo posizionamento nel mondo a prescindere da Washington. Il Mercosur sudamericano aspetta da 15 anni la firma di un accordo di libero scambio e in Africa, proprio la settimana scorsa, è nata l’African Continental Trade Area, formata da 44 Stati che elimineranno il 90% di dazi e tasse sulle merci africane e apriranno alla libera circolazione delle persone. Il futuro del multilateralismo, ai tempi dello sbando statunitense, passa sempre di più dai Paesi che fino a poco tempo fa erano ermeticamente chiusi: in questo mondo alla rovescia, almeno questa è una buona notizia. Starà all’Europa dimostrare di essere in grado di costruire con questi Paesi rapporti equilibrati e reciprocamente vantaggiosi. C’è spazio per un nuovo multilateralismo che convenga a tutti, soprattutto a quelle aree come l’Africa finora escluse dalla globalizzazione.

Alfredo Somoza per #Esteri @RadioPopolare