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Lo Zimbabwe è da molti anni un caso da manuale. Fino al 1980, questo Paese dell’Africa meridionale si chiamava Rhodesia in onore di sir Cecil Rhodes: un imprenditore e politico britannico che si era costruito un impero personale nel Continente Nero, depredandone le risorse. Dopo l’indipendenza e la fine del predominio bianco, lo Zimbabwe ha conosciuto solo momenti di caos economico inframezzati da ondate di repressione del dissenso.

Il padre-padrone del Paese, il novantunenne Robert Mugabe, già tra i promotori dell’indipendenza, ha rivestito senza soluzione di continuità il ruolo di primo ministro e poi di presidente dal 1980 a oggi. Di ideologia marxista, Mugabe è presto diventato un esponente di quella particolare razza di “dinosauri politici” africani preoccupati solo di perpetuare il proprio potere a qualsiasi costo. Considerato “persona non grata” da buona parte dei Paesi occidentali, ha portato lo Zimbabwe a essere sottoposto a sanzioni internazionali: eppure è riuscito a restare aggrappato al potere grazie al sostegno discreto del Regno Unito e a quello palese della Cina.

Lo Zimbabwe è ricco di risorse agricole e minerarie, eppure la sua economia è dissestata, soprattutto perché le migliori terre, espropriate ai coloni inglesi, sono state poi concesse dal governo in modo clientelare. Dopo la dichiarazione di fallimento negli ’90, negli anni 2000 il Paese è stato colpito da una crisi di iperinflazione senza precedenti. Nel luglio 2008 l’inflazione ha toccato la fantasmagorica quota di 231 milioni per cento: lo Zimbabwe si è visto costretto a cessare di battere moneta e ha adottato come valuta il dollaro statunitense e il rand sudafricano. L’economia allo sbando, la situazione politica bloccata, la popolazione sofferente che in massa emigrava verso il Sudafrica erano le poche notizie che filtravano all’esterno.

In un simile scenario si è rafforzato il ruolo della Cina, che negli anni della crisi è diventata il primo partner commerciale del Paese. Il gigante asiatico, nuovo grande socio degli Stati africani, è infatti il principale acquirente delle derrate alimentari prodotte in Zimbabwe e vi esporta tutti i manufatti di cui si ha bisogno localmente, incluse le armi per l’esercito di Mugabe e gli aerei per la compagnia di bandiera. Le autorità di Pechino, che hanno incluso lo Zimbabwe tra le “destinazioni autorizzate” per i loro turisti, hanno recentemente cancellato 40 milioni di crediti in scadenza nel 2015.

Questa politica della Cina, che tende a consolidare i rapporti non solo commerciali ma anche finanziari e politici con i suoi fornitori di materie prime, sarà ulteriormente rinforzata da 60 miliardi di dollari di investimenti per lo sviluppo delle infrastrutture africane annunciati dal presidente Xi Jinping.

Sulle ragioni del successo della Cina in Africa si è molto scritto e detto, ma il dato principale rimane che, per Pechino, Paesi disastrati come lo Zimbabwe possono diventare partner strategici, a prescindere dalle sanzioni internazionali, dalle violazioni dei diritti umani, dalla mancanza di democrazia.

E ora lo Zimbabwe ripagherà la Cina con una decisione dal forte valore simbolico: dal 2016, il Paese africano adotterà la moneta cinese come valuta nazionale. Lo yuan o renminbi, pochi mesi dopo aver superato il test d’ingresso nel paniere del FMI, diventa per la prima volta moneta di riferimento di un Paese terzo. Come la sterlina britannica, il franco francese o il dollaro statunitense. Anche Pechino, che però non ha mai avuto le colonie, debutta nel ristretto club delle valute forti. C’è da scommettere che ciò che sta avvenendo nel laboratorio dello Zimbabwe non rimarrà un caso isolato. Il mondo è cambiato, anche se ancora facciamo fatica a percepirlo.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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L’AGOA (African Growth and Opportunity Act, “atto di crescita e opportunità per l’Africa”) è un atto legislativo emesso nel maggio 2000 dal Congresso degli Stati Uniti per la collaborazione e l’assistenza economica e commerciale nei confronti dei Paesi dell’Africa subsahariana. Non un vero accordo di libero scambio, sul modello di Nafta o TTIP, bensì un atto unilaterale, teso a favorire l’ingresso nel mercato nordamericano di prodotti africani non petroliferi.

In base a questa risoluzione, anno per anno il presidente degli Stati Uniti decide quali sono i Paesi idonei a godere di agevolazioni all’export verso gli USA e quali i prodotti che possono beneficiarne. E lo fa considerando anche, si fa per dire, che i Paesi in questione siano democrazie e che aderiscano ai principi dell’economia di mercato.

L’AGOA è in realtà solo una deroga ai vincoli creati a protezione del mercato statunitense, e ha suscitato non poche polemiche. Nei fatti si applicherebbe a 39 Stati africani, ma finora solo 7 ne hanno beneficiato e tre di essi (Nigeria, Angola e Sudafrica) garantiscono l’80% dell’export complessivo.

Il secondo punto critico riguarda la composizione dei 5 miliardi di dollari di esportazioni africane negli USA finora avvenute nel quadro dell’accordo. Il mix, infatti, è fortemente sbilanciato sui settori tessile e dell’abbigliamento, con prodotti realizzati all’interno di zone franche gestite sul modello delle maquiladoras messicane. Un grosso limite è che l’accordo non comprende l’importante settore alimentare ed esclude buona parte dei prodotti agricoli africani (tabacco, cotone, zucchero). Questo perché le norme sanitarie statunitensi bloccano l’import di molti prodotti alimentari e perché l’apertura sulle commodities agricole creerebbe una pericolosa concorrenza ai produttori a stelle e strisce.

L’impatto positivo dell’AGOA riguarda invece l’occupazione: si calcola infatti che abbia creato almeno 80.000 posti di lavoro.

Se non verrà rinnovato, nel corso del 2015 questo partenariato scadrà. Al momento è difficile capire come evolverà la situazione. Ciò che emerge chiaramente è che si tratta di una relazione commerciale di tipo neocoloniale: date le gigantesche asimmetrie tra le parti, l’AGOA favorisce in primo luogo il Paese più forte in assoluto, gli Stati Uniti, e secondariamente quelli più forti dell’Africa. Inoltre si può affermare che gli investimenti diretti statunitensi nell’ambito dell’AGOA, 7 miliardi di dollari nell’ultimo periodo, sono insignificanti rispetto a quelli nel frattempo effettuati dall’altra potenza presente nella regione, la Cina.

Gli accordi bilaterali che il gigante asiatico ha stipulato con decine di Paesi africani partono da basi diverse e, soprattutto, prevedono investimenti diretti sulle infrastrutture locali e sulla capacità produttiva. In Africa, gli Stati Uniti hanno l’unico obiettivo di rifornirsi di materie prime e di importare prodotti utili al loro mercato, mentre la Cina, pur essendo anch’essa interessata a minerali e petrolio, segue un’idea di partenariato economico strategico, anche perché non ha un sistema protezionistico da tutelare. Nel primo caso, se va bene, parliamo della creazione di qualche posto di lavoro in più, nel secondo delle premesse per un vero sviluppo delle economie africane: quelle premesse, cioè, che negli ultimi 5 anni hanno consentito all’Africa subsahariana di diventare una delle regioni al mondo con la più alta percentuale di crescita del PIL.

Insomma, per gli Stati Uniti, come prima per il Regno Unito o la Francia, l’Africa rimane solo un fornitore di materie prime a basso costo, mentre per la Cina il continente nero è ormai parte del “cortile di casa”. Un cortile che si estende su tre continenti, a differenza di quello degli Stati Uniti, che si sviluppa in Centroamerica. E in questa nuova versione del “Grande Gioco” su scala globale, anche la marginalizzata Africa, per la prima volta, ha qualche carta da giocare.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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La nascita delle reti ferroviarie risale all’800, quando i Paesi industrializzati (Gran Bretagna, Germania, Francia, USA) cominciarono a collegare le miniere di carbone alle fabbriche, e i grandi Paesi produttori di derrate alimentari (Brasile, Argentina, Australia, India) le campagne ai porti. Il treno ha accompagnato la formazione degli Stati nazionali nati dalla decolonizzazione e ne ha sancito la coesione territoriale, collegando le province più isolate ai centri politici e produttivi. Insieme alle navi, fino alla seconda metà del ’900 è stato il mezzo di trasporto per eccellenza, per poi diventare sempre più marginale con l’avanzata dei camion e, negli ultimi decenni, degli aerei.

Assoluta protagonista dell’espansione dei binari nel mondo fu la Gran Bretagna vittoriana, che costruì il più grande impero politico e commerciale della storia basandosi su tre pilastri: il controllo dei mari, le ferrovie e il telegrafo. Erano inglesi gli ingegneri, la tecnologia e i manufatti che trasportavano persone e merci nelle Pampas, nei deserti australiani, nelle campagne infinite dell’India: lo sviluppo commerciale, l’industrializzazione e la globalizzazione marciavano al ritmo del fischio delle locomotive a vapore. Solo un continente, con pochissime eccezioni, rimase escluso da questa ondata di modernizzazione: l’Africa. Un continente condannato dalla storia contemporanea a rimanere produttore di poche materie prime, anche se dall’alto valore di mercato. Soprattutto, un continente senza investimenti produttivi, senza infrastrutture, senza mercati economici rilevanti e quindi senza ferrovie.

Chi conosce la storia contemporanea forse mai avrebbe immaginato che le trasformazioni sociali dell’800, dovute all’industrializzazione, si potessero ripetere quasi identiche a distanza di circa due secoli. L’aumento dei diritti, per esempio, che in Occidente fu il risultato delle lotte soprattutto dei ceti rurali diventati operai e maturati tra le mura delle fabbriche, oggi si ripresenta nello stesso modo nei Paesi di recente industrializzazione, dalla Cina all’India al Bangladesh: scioperi, lotte sindacali, repressione, negoziazione, estensione dei diritti. Ma ancora più illuminante sui cicli della globalizzazione, tra l’800 e gli anni 2000, è l’arrivo del treno in Africa. È stata recentemente annunciata la costruzione di una ragnatela di binari che dovrebbe collegare i Grandi Laghi a Nairobi e Mombasa e su fino a Addis Abeba e Gibuti. Si tratta del più grande progetto di infrastruttura dell’era post coloniale, dal valore iniziale di 3,8  miliardi di dollari USA.

Soldi e tecnologie sono made in China, Paese che si è specializzato nella costruzione di materiale ferroviario e di infrastrutture. Da due decenni esporta componenti, rotaie e treni in Asia, in America Latina e ora in Africa. Le aziende di Stato che costruiranno le ferrovie fanno parte del gruppo di oltre 2000 realtà cinesi sbarcate non solo per “prelevare” materie prime, come da secoli fa l’Occidente, ma per produrre in loco, guardando al mercato costituito da 300 milioni di persone che vivono tra il Kenya e l’Uganda.

Questo interesse cinese per un mercato da sempre snobbato comincia a dare frutti: le statistiche confermano anche nel 2014 la crescita dell’economia africana, in media del 5,5% e con picchi del 7,5% nell’Est del continente. Non è un caso che l’agenzia di rating Moody’s, per la prima volta nella storia, abbia rilasciato la classificazione del credito sovrano all’Etiopia, che sta per debuttare sul mercato dei bond. E così, tra i rumori di fondo generati dai conflitti, dalla corruzione, dalla sottrazione di terre, dalle tensioni religiose, l’Africa si arricchisce di un nuovo suono: il fischio del treno, che a tanti altri popoli ha portato fortuna.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

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