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Con la scomparsa di Fidel Castro si chiude definitivamente il ‘900. E questo perché il Comandante della rivoluzione cubana era l’unico autorevole protagonista in vita del secolo breve e dello scontro ideologico, economico e politico che aveva visto il mondo diviso in due blocchi contrapposti per mezzo secolo. Cuba, una piccola isola caraibica, è stata un gigante politico per il peso che la Rivoluzione di Fidel e di Che Guevara del 1959 ebbe sull’America Latina e su tutto il mondo, ma anche per la sua vicinanza geografica al gigante statunitense. Fidel è stato per decenni l’uomo più bersagliato dalla CIA, che tentò in tutti i modi di eliminarlo fisicamente perché la sua Cuba era la zanzara fastidiosa che punzecchiava l’impero dall’interno del suo cortile di casa. Il prezzo dell’indipendenza fu però l’alleanza di ferro con l’Unione Sovietica che l’avvocato liberal-democratico Fidel dovette accettare, ma sempre alla cubana. Permettendo ad esempio che continuasse a funzionare regolarmente la Chiesa cattolica, la santeria afrocubana e la massoneria. L’ideologia di Fidel divenne marxista-leninista per necessità, ma alla sua radice c’era il nazionalismo patriottico e democratico del poeta José Martì che combatté contro gli spagnoli alla fine dell’800. Il vero collante della rivoluzione non è mai stato infatti la dimensione ideologica, ma l’aspirazione all’indipendenza dal vicino del Nord.

Fidel è stato implacabile nel gestire il potere, impedendo l’emergere di altre figure che potessero fare ombra al suo ruolo di guida. Nella sua Cuba, il dissenso e la libertà di stampa sono state represse non solo in nome dell’ortodossia politica, ma perché Cuba, anche grazie all’embargo e ai madornali errori politici di Washington, si è sempre considerata un paese in guerra. La transizione, complessa e travagliata è ormai in corso da tempo. Il fratello minore Raul ha ottenuto la lenta fine dell’embargo e il beneplacito di Washington al suo modello di stampo cinese che Fidel non amava tanto.

La Cuba che lascia il Comandante è un paese povero, ma colto e istruito, con buoni medici e insegnanti, con incredibili artisti e musicisti, con una grande sete di apertura e di rinnovamento. La Cuba della Revoluciòn probabilmente finisce qui, il sogno di Fidel e dei suoi barbudos viene consegnato alla storia come una pagina imprescindibile del ‘900.

Alfredo Somoza

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Quando si chiudono oltre 50 anni di scontri, verbali e talvolta fisici, non ci sono mai vincitori o perdenti netti. Ma la stretta di mano di ieri consegna alla storia una fotografia nella quale c’è Barak Obama, diventato un gigante a fine mandato, insieme al fratello minore dei Castro, il cinese come viene chiamato per i suoi gusti politici. Non ci sono in questa foto né Fidel, ancora vivo, né i duri di Miami e i loro rappresentanti politici repubblicani.

Con questo dialogo vincono le multinazionali statunitensi che fremevano per potere tornare a investire su un mercato monopolizzato da canadesi ed europei, ma vincono anche i cittadini cubani che finalmente vedranno scomparire l’embargo economico che ha strangolato a lungo l’isola.

Vince la linea di Obama che impone agli Stati Uniti un avvicinamento con l’America Latina anche a costo di ingoiare la stretta di mano con un Castro.

Vince l’America Latina progressista, che ha sempre difeso la sovranità territoriale e politica di Cuba e per decenni denunciò la politica statunitense di aggressione.

Vincono i colombiani che hanno scommesso sulla pace, grazie alla mediazione di Cuba e il beneplacito degli USA. mettendo in minoranza chi soffiava sul più antico conflitto americano per legittimarsi.

Stravince Papa Francesco, silenzioso tessitore della mediazione iniziata da Wojtyla e continuata da Ratzinger. Il Vaticano a guida del primo Papa latinoamericano e gesuita è tornato un protagonista della politica internazionale.

Perdono infine i settori più recalcitranti della destra repubblicana, l’incontro di ieri tra Castro e Obama è una delle loro più grandi sconfitte nella storia degli Stati Uniti: un regime che hanno tentato di rovesciare, un paese che hanno tentato di invadere, una leadership che hanno tentato di uccidere ieri ha sigillato con il Presidente dell’Unione, a pari dignità, la fine della Guerra Fredda.

 

Alfredo Somoza per Radio Popolare

 

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Barack Obama vuole concludere il suo mandato rilanciando i rapporti con i “vicini” latinoamericani. Così, dopo decenni di incomprensioni, disinteresse e ridimensionamento anche dal punto di vista della presenza economica, gli Stati Uniti tornano prepotentemente ad affacciarsi sul continente che si estende a sud del Rio Bravo. Durante la lunga assenza del “fratello del Nord”, però, nel vicinato sono accadute molte cose. Un grande Paese, il Messico, è precipitato in una guerra civile sanguinosa tra Stato e narcotraffico. Un altro grande Paese, il Brasile, è diventato potenza globale. In diversi piccoli Paesi, come Ecuador, Uruguay e Bolivia, sono avvenuti profondi cambiamenti nell’ambito della sovranità economica e dei diritti sociali e individuali. Altri Stati ancora, come Cile e Perú, conoscono alti tassi di crescita economica, mentre Argentina e Venezuela si trascinano in una crisi politica quasi endemica.

Situazioni molto diverse ma con elementi comuni: la crescita delle società latinoamericane degli ultimi vent’anni è stata proporzionale al ridimensionamento delle relazioni economiche e politiche con gli Stati Uniti e alla diversificazione dei partner internazionali. Per diversi Paesi dell’America centro-meridionale, la potenza economica di riferimento è oggi la Cina. E proprio questo ha fatto scattare l’allarme, in ritardo, a Washington. La strategia del ritorno degli Stati Uniti in America Latina prevede la guarigione delle due ferite che in passato hanno compromesso i rapporti tra le due aree: cioè i “casi” Cuba e Colombia. Le trattative che si stanno svolgendo a L’Avana tra le FARC e lo Stato colombiano per porre fine alla guerra civile più lunga del continente americano, 50 anni e 200.000 morti, è strettamente legata ai round negoziali tra USA e Cuba, in svolgimento sempre a L’Avana, per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e commerciali dopo decenni di inutile embargo. In entrambi i casi gli Stati Uniti sono stati sconfitti, non essendo riusciti a rovesciare Castro né a liquidare la guerriglia delle FARC. Ma il danno è stato ancora maggiore se si considera che l’ostinata difesa di questa fallimentare politica di ingerenza ha alienato, con pochissime eccezioni, qualsiasi simpatia nei confronti degli USA da parte di governi di destra come di sinistra. E già nel 2005 gli errori hanno pesato nella decisione degli Stati latinoamericani di rifiutare l’accordo ALCA, il disegno – ormai sepolto – di costruzione di un unico mercato dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco.

Obama ora sta dimostrando coraggio. Nel discorso in cui annunciava l’apertura del dialogo con Cuba ha fatto giustizia storica citando il patriota cubano José Martí e restituendo a 400 milioni di persone la denominazione di “americani”, a segnalare un destino comune. Tuttavia lo slogan “siamo tutti americani” ha per ora provocato solo sorrisi in America Latina. E questo perché da quelle parti sono abituati all’uso alternato del bastone e della carota da parte dei vicini del Nord. Gli Stati Uniti, dopo le aperture di Obama, dovranno così riguadagnarsi sul campo ciò che la globalizzazione ha loro tolto. In primo luogo, prendendo atto del fatto che l’America Latina della Guerra Fredda, quella schiacciata nell’alleanza obbligatoria con gli Stati Uniti, che non risparmiarono mezzi né tragedie per perpetuarla, non esiste più.

Ora il rapporto deve essere alla pari, perché i latinoamericani per la prima volta possono scegliere con chi stare e con chi fare affari. È uno scenario al quale a Washington faticano ad abituarsi, ma con il quale devono fare i conti. Per la prima volta, nelle relazioni diplomatiche tra i mondi separati del Nuovo Continente sono gli americani del Nord ad avanzare proposte di cooperazione e a proporsi come forza di pace: le parti si stanno rovesciando, e questo non può che essere un bene.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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A livello mondiale, il pacchetto di riforme fiscali e incentivi al settore manifatturiero elaborato da Barak Obama si presenta come il più importante tentativo degli ultimi decenni di dare vita a una politica industriale. Un concetto, quello delle politiche industriali, utilizzato a sproposito dai politici di mezzo mondo per abbellire discorsi elettorali, ma che si sta davvero materializzando negli USA, la patria degli estremi opposti in materia economica: dal dirigismo al liberismo più assoluto.

In questa fase storica lo Stato non aspira certo a diventare “imprenditore”, ma punta a stimolare la ripresa industriale attraverso la leva fiscale e gli investimenti in ricerca, infrastrutture e formazione. Questi, infatti, sono i tre punti centrali della “manovra Obama”. La prima e più importante iniziativa è l’abbattimento delle aliquote fiscali massime applicate alle imprese, che dal 35% (tra le più alte al mondo) scenderanno al 25% per il settore manifatturiero e al 28% per tutti gli altri. Verranno però eliminate le scappatoie legali che finora le aziende hanno utilizzato, pagando i migliori studi di avvocati, per aggirare il fisco. Un Grand Bargain, insomma, un “grande compromesso” tra chi sarà chiamato a versare meno tasse e lo Stato: uno Stato che si impegna a “chiedere” di meno, però pretende che paghino tutti.

A queste misure si accompagnano l’introduzione di particolari detrazioni destinate alle piccole e medie aziende e l’eliminazione dei paradossali incentivi alla delocalizzazione produttiva, finora premiata da una fiscalità di favore risalente agli anni ruggenti di Ronald Reagan. Nella visione dei democratici americani, il manifatturiero è fondamentale per la stabilità del Paese perché crea posti di lavori “buoni”, cioè stabili e garantiti, e non precari e a basso costo come accade nel settore dei servizi; in questo senso è un settore che favorisce i ceti medi.

Il secondo fronte è quello degli investimenti indiretti a sostegno delle imprese, attraverso un megapiano pubblico-privato che ammodernerà le infrastrutture necessarie al decollo dell’industria: dalle strade alle autostrade informatiche.

Il terzo fronte è l’investimento nella formazione e nella ricerca. In dieci anni verranno creati 45 nuovi istituti per l’innovazione, centri di eccellenza tecnologica dedicati allo sviluppo industriale; inoltre saranno incentivati i college nelle aree industriali perché moltiplichino l’offerta dei percorsi formativi pensati per l’industria.

Questo ritorno dello Stato al centro delle scelte economiche e produttive, voluto da Obama dopo un’assenza che negli USA durava dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, si basa su una visione strategica di lungo termine. Se gli USA, proiettati verso l’autonomia energetica, riusciranno a rimettere in sesto anche il sistema manifatturiero, potrebbero spezzare entrambe le loro dipendenze: quella dai fornitori di greggio mediorientali e quella dalla Cina, il loro grande fornitore e creditore.

La riforma dovrebbe a breve toccare anche il punto dolente dell’erosione della base imponibile, proponendo un rimpatrio dei capitali che le grandi corporation hanno guadagnato in questi anni di globalizzazione, ma che sono rimasti all’estero per evitare la fiscalità a stelle e strisce. Si calcola infatti che il 60% delle riserve in contanti di colossi come Disney, General Electric e Microsoft sia oltre confine: ben 840 miliardi di dollari. Uno scudo fiscale per il loro rientro potrebbe generare un gettito miliardario per le casse federali.

Dopo la sbornia della finanza creativa, della terziarizzazione dell’economia, della delocalizzazione dell’industria, gli Stati Uniti stanno quindi tornando alla loro storia. Una sfida per l’Europa, ma anche e soprattutto per i Paesi che, in questi ultimi anni, sono emersi a potenza mondiale assumendo il ruolo di “fabbriche del mondo”.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Il primo modesto ruggito della politica nei confronti dell’economia finanziaria anarchica di quest’inizio di millennio si è levato durante il G8 di Lough Erne, in Irlanda del Nord: probabilmente uno degli ultimi che si celebreranno, visti i mutati equilibri mondiali.

Sono due i segnali che confermano come il clima tra economia e politica stia cambiando. Il primo è sintetizzato dallo slogan di Obama: “mai più Apple”, inteso nel senso di evitare che le aziende multinazionali evadano legalmente le tasse con giochi di prestigio e facendo spola tra Paesi condiscendenti e paradisi fiscali. Un giochino, formalmente lecito, che permette a Apple di pagare le tasse solo per lo 0,1% dei profitti dopo averli fatti transitare dall’Irlanda, contro il 35% che dovrebbe sborsare al fisco statunitense. Per i bilanci di Washington questa fuga della base imponibile nazionale, chiamata eufemisticamente “ottimizzazione fiscale”, comincia a costare troppo.

Secondo la coalizione “Citizens for Tax Justice”, tra il 2008 e il 2010 una trentina di multinazionali come Boing, General Electric, Verizon e Apple non ha pagato un dollaro di tasse a fronte di 205 miliardi di dollari di profitto, sottraendo legalmente al fisco 78 miliardi. Se proviamo a valutare il peso di questo fenomeno sull’economia degli USA, scopriamo che l’incidenza delle grandi corporation nella formazione della base imponibile nazionale è crollata dal 32% del 1952 all’attuale 9%. I cittadini, i commercianti, i professionisti e le piccole e medie imprese sono ora i principali finanziatori dello Stato, che continua però a destinare imponenti risorse a ricerca e sviluppo, alle infrastrutture e agli acquisti diretti a beneficio delle grandi società multinazionali.

La seconda scoperta del G8 è stata la presa d’atto, da parte del premier britannico, del fatto che qualcosa non torna nelle colonie di Sua Maestà. E cioè in quella decina di “territori d’oltremare” – eufemismo che continua a significare colonie – che sono diventati altrettanti covi di pirati. Intesi non nel senso di navigatori in caccia di galeoni, come ai tempi di Morgan, ma di pirati fiscali che navigano sul web. Si tratta infatti di paradisi fiscali nei quali è possibile mettere al riparo il bottino proveniente dall’evasione e dal crimine. Il paradosso è che non sono Paesi governati dalla filibusta, ma appunto “territori” di un Paese membro dell’Unione Europea e del G8. Pare che Cameron abbia strappato ai diversi governatori di questi territori la promessa che accetteranno le regole di trasparenza e cooperazione internazionale suggerite dell’OCSE. Un sì convinto espresso al telefono, secondo quanto ha riferito Downing Street: vedremo quale seguito avrà.

Mentre tutti gli Stati si sono indebitati per soccorrere le banche, i sistemi di welfare traballano e il lavoro si riduce, il mondo della finanza internazionale ha operato e continua a operare sempre più fuori dalle regole. Le norme sono saltate o sono state modificate negli anni per favorire l’espansione a livello globale dei grandi soggetti economici. Oggi però le multinazionali riescono a fare a meno anche degli Stati nei quali lavorano, evadendo in modo legale il loro obbligo di contribuire alla comunità di appartenenza attraverso la fiscalità. Queste aziende godono di servizi, infrastrutture, ammortizzatori sociali, detassazioni competitive, incentivi: ma al momento di dividere i profitti con lo Stato riescono a sfuggire. Spesso nel marchio sbandierano e vendono la loro “americanità”, ma in realtà sono ufficialmente registrate in qualche isoletta caraibica.

La sfida che si pone oggi ai grandi della Terra è capire con quali strumenti e quali regole sia possibile riconvertire l’economia globale a criteri di sostenibilità e di trasparenza. Perché un’economia autoalimentata, che prende e non dà nulla, impoverisce un Paese anziché arricchirlo, e un Paese più povero è anche un mercato più povero. I Grandi hanno davanti una sfida inedita: salvare il capitalismo mondiale da quelli che sono stati suoi primi beneficiari.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)
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Il tour americano del presidente cinese Xi Jinping, il primo del suo mandato, è iniziato in modo irrituale. O forse no. Prima di sbarcare a Washington per incontrare Obama, infatti, Xi Jinping ha fatto tappa a Trinidad e Tobago, piccola enclave petrolifera al largo del Venezuela, e poi in Costa Rica e Messico. Particolare rilievo ha l’incontro con le autorità del Costa Rica, il Paese centroamericano che più a lungo rifiutò i rapporti con Pechino favorendo quelli con la rivale Taiwan.

Con questi incontri, la Cina ribadisce che a Pechino “America” non è sinonimo di Stati Uniti, nonostante gli USA siano abituati ad autodefinirsi in questo modo. L’America è un continente, e con questo continente la Cina ha ormai stabilito rapporti economici e politici duraturi. Lo ha fatto senza mai interferire nella politica interna dei vari Paesi, abituati dalla storia dell’800 e del ’900 a continue e pesanti ingerenze delle potenze estere.

Pechino è già il nuovo partner globale dei Paesi emergenti dell’area, in passato “obbligati” ad avere rapporti con una sola potenza: quella del Nord. Sullo sfondo, l’inizio di una reciprocità geopolitica tra Cina e USA alla quale Washington dovrà abituarsi: non saranno solo gli Stati Uniti a “giocare” nel cortile di casa cinese, ma accadrà anche il contrario. In questo senso la visita in America Latina del presidente cinese è simmetrica al viaggio negli USA, per firmare diversi accordi commerciali, del presidente birmano Thein Seinn, a capo di un Paese che finora  aveva rapporti internazionali solo con la Cina.

La forza di Pechino rimane però il suo gigantesco commercio estero, che si estende a diverse aree del mondo. Nel 2012 la Cina ha scambiato con l’America Latina 260 miliardi di dollari USA in merci e servizi; è il primo partner commerciale di Brasile e Cile e il secondo di Perú, Cuba e Costa Rica. Gli Stati Uniti rispondono sottolineando che i loro rapporti con i vicini del Sud hanno una qualità istituzionale superiore rispetto a quelli che il resto del continente intrattiene con Pechino: includono infatti anche i temi della sicurezza, del narcotraffico e della difesa. Tutte questioni indubbiamente importanti ma che, in base alla storia, i latinoamericani gradirebbero gestire senza il coinvolgimento del Pentagono.

Il grande “gioco” tra Cina e USA si svolge però nell’area del Pacifico. I riflettori sul futuro dell’economia globale si sono infatti spostati dall’Atlantico all’altro grande oceano. Non a caso gli USA stanno promuovendo con grande forza la TPP (Trans-Pacific Partnership), una grande area di libero commercio sulle due sponde dell’oceano che esclude però la Cina. E anche l’America Latina, che ha le sue storiche potenze sull’Atlantico (Brasile, Venezuela e Argentina), ha carte da giocare con i Paesi emergenti del Pacifico: Cile, Perù, Colombia e Messico. Cina e USA sono i due grandi poli di attrazione e di aggregazione, tra loro in competizione soft, per ora.

Nei rapporti tra Paesi dell’ex terzo mondo e potenze mondiali la retorica ormai lascia il tempo che trova. Contano invece le possibilità economiche, la capacità di gestire i partner in modo più paritetico. E soprattutto diventa importante capire quanto queste relazioni rinforzino la sovranità degli Stati anziché ribadirne la dipendenza. È questa per ora è la principale forza della Cina.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Uno degli elementi che consentono di riconoscere con chiarezza un “impero” è il peso delle risorse e delle idee che uno Stato mette in campo per darsi una politica internazionale. È così dai tempi di Roma, di Isabella la Cattolica, della regina Vittoria. Gli Stati Uniti d’America, pochi decenni dopo aver conquistato l’indipendenza dalla Gran Bretagna, elaborarono una dottrina che per la prima volta  estendeva lo sguardo di Washington oltre i confini nazionali. Passò alla storia con il nome del presidente James Monroe: lo slogan era “l’America agli americani”, e si poneva come obiettivo l’eliminazione di ogni influenza delle potenze europee sul suolo americano, del Nord e del Sud.

La dottrina Monroe segnò l’inizio dell’inarrestabile espansione mondiale del nuovo Paese americano, che in pochi anni decenni riuscì a costruire un impero diverso da quelli coloniali, senza viceré né truppe coloniali. Un impero basato sulla finanza, sul ruolo delle multinazionali, sulla potenza del dollaro, su un apparato bellico temibile e in grado di intervenire ovunque ce ne fosse bisogno.

La Seconda Guerra Mondiale sancì la divisione del mondo in due aree di influenza: quella più importante spettò agli Stati Uniti, premio allo sforzo globale compiuto da Washington. Da allora, è tradizione che gli inquilini della Casa Bianca abbiano una visione chiara della politica estera e parlino sempre al loro Paese come se si rivolgessero al mondo. E l’attenzione che i media stranieri riservano alle primarie e alle elezioni presidenziali negli USA è figlia del fatto che da questo processo democratico scaturisce una guida politica di rilevanza planetaria.

In queste ultime elezioni le cose non sono andate secondo consuetudine. I due candidati, soprattutto Mitt Romney, hanno espresso indifferenza oppure ostilità nei confronti del resto del mondo, arrivando addirittura a descrivere storici alleati occidentali, come l’Italia o la Spagna, come un “rischio da scongiurare”. Lo storico di Yale Paul Kennedy pensa che “la politica estera della massima potenza mondiale sia in realtà una lenta deriva, un lasciarsi trascinare dalla corrente senza sapere bene dove sta andando”. Una sensazione che è diffusa anche tra gli inviati delle grandi testate europee: l’unico orizzonte che ha suscitato interesse in questa campagna è stato quello di casa propria, e l’unico vero “mondo” straniero al quale si è guardato è stato quello degli immigrati e dei loro pacchetti di voti. Nulla sul Medio Oriente, sull’Iran, sull’America Latina sempre più lontana, sull’Europa in affanno.

Silenzio totale sul maggiore creditore degli USA, la Cina, rotto solo dall’attacco di Romney contro la  potenza commerciale dal gigante asiatico. E dire che di argomenti ce ne sarebbero stati. Proprio in queste settimane Pechino ha cominciato a comprare e vendere petrolio dalla Russia pagandolo in yuan anziché in dollari, e l’India sta pagando il greggio all’Iran in rupie. Anche Giappone e Corea vorrebbero sganciarsi dalla dittatura della valuta USA. La “de-dollarizzazione” degli scambi commerciali è oggi il segnale più evidente del declino di un impero costruito sull’economia prima ancora che sulle armi. A Washington ormai molti fanno i conti con un futuro più autarchico, più locale e meno globale. Forse solo in Europa si pensa ancora che la soluzione alla grande crisi dell’Occidente possa arrivare dall’altra sponda dell’Atlantico.

Alfredo Somoza per Esteri (Polare Network)