Uno degli elementi che consentono di riconoscere con chiarezza un “impero” è il peso delle risorse e delle idee che uno Stato mette in campo per darsi una politica internazionale. È così dai tempi di Roma, di Isabella la Cattolica, della regina Vittoria. Gli Stati Uniti d’America, pochi decenni dopo aver conquistato l’indipendenza dalla Gran Bretagna, elaborarono una dottrina che per la prima volta  estendeva lo sguardo di Washington oltre i confini nazionali. Passò alla storia con il nome del presidente James Monroe: lo slogan era “l’America agli americani”, e si poneva come obiettivo l’eliminazione di ogni influenza delle potenze europee sul suolo americano, del Nord e del Sud.

La dottrina Monroe segnò l’inizio dell’inarrestabile espansione mondiale del nuovo Paese americano, che in pochi anni decenni riuscì a costruire un impero diverso da quelli coloniali, senza viceré né truppe coloniali. Un impero basato sulla finanza, sul ruolo delle multinazionali, sulla potenza del dollaro, su un apparato bellico temibile e in grado di intervenire ovunque ce ne fosse bisogno.

La Seconda Guerra Mondiale sancì la divisione del mondo in due aree di influenza: quella più importante spettò agli Stati Uniti, premio allo sforzo globale compiuto da Washington. Da allora, è tradizione che gli inquilini della Casa Bianca abbiano una visione chiara della politica estera e parlino sempre al loro Paese come se si rivolgessero al mondo. E l’attenzione che i media stranieri riservano alle primarie e alle elezioni presidenziali negli USA è figlia del fatto che da questo processo democratico scaturisce una guida politica di rilevanza planetaria.

In queste ultime elezioni le cose non sono andate secondo consuetudine. I due candidati, soprattutto Mitt Romney, hanno espresso indifferenza oppure ostilità nei confronti del resto del mondo, arrivando addirittura a descrivere storici alleati occidentali, come l’Italia o la Spagna, come un “rischio da scongiurare”. Lo storico di Yale Paul Kennedy pensa che “la politica estera della massima potenza mondiale sia in realtà una lenta deriva, un lasciarsi trascinare dalla corrente senza sapere bene dove sta andando”. Una sensazione che è diffusa anche tra gli inviati delle grandi testate europee: l’unico orizzonte che ha suscitato interesse in questa campagna è stato quello di casa propria, e l’unico vero “mondo” straniero al quale si è guardato è stato quello degli immigrati e dei loro pacchetti di voti. Nulla sul Medio Oriente, sull’Iran, sull’America Latina sempre più lontana, sull’Europa in affanno.

Silenzio totale sul maggiore creditore degli USA, la Cina, rotto solo dall’attacco di Romney contro la  potenza commerciale dal gigante asiatico. E dire che di argomenti ce ne sarebbero stati. Proprio in queste settimane Pechino ha cominciato a comprare e vendere petrolio dalla Russia pagandolo in yuan anziché in dollari, e l’India sta pagando il greggio all’Iran in rupie. Anche Giappone e Corea vorrebbero sganciarsi dalla dittatura della valuta USA. La “de-dollarizzazione” degli scambi commerciali è oggi il segnale più evidente del declino di un impero costruito sull’economia prima ancora che sulle armi. A Washington ormai molti fanno i conti con un futuro più autarchico, più locale e meno globale. Forse solo in Europa si pensa ancora che la soluzione alla grande crisi dell’Occidente possa arrivare dall’altra sponda dell’Atlantico.

Alfredo Somoza per Esteri (Polare Network)

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