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Barack Obama vuole concludere il suo mandato rilanciando i rapporti con i “vicini” latinoamericani. Così, dopo decenni di incomprensioni, disinteresse e ridimensionamento anche dal punto di vista della presenza economica, gli Stati Uniti tornano prepotentemente ad affacciarsi sul continente che si estende a sud del Rio Bravo. Durante la lunga assenza del “fratello del Nord”, però, nel vicinato sono accadute molte cose. Un grande Paese, il Messico, è precipitato in una guerra civile sanguinosa tra Stato e narcotraffico. Un altro grande Paese, il Brasile, è diventato potenza globale. In diversi piccoli Paesi, come Ecuador, Uruguay e Bolivia, sono avvenuti profondi cambiamenti nell’ambito della sovranità economica e dei diritti sociali e individuali. Altri Stati ancora, come Cile e Perú, conoscono alti tassi di crescita economica, mentre Argentina e Venezuela si trascinano in una crisi politica quasi endemica.

Situazioni molto diverse ma con elementi comuni: la crescita delle società latinoamericane degli ultimi vent’anni è stata proporzionale al ridimensionamento delle relazioni economiche e politiche con gli Stati Uniti e alla diversificazione dei partner internazionali. Per diversi Paesi dell’America centro-meridionale, la potenza economica di riferimento è oggi la Cina. E proprio questo ha fatto scattare l’allarme, in ritardo, a Washington. La strategia del ritorno degli Stati Uniti in America Latina prevede la guarigione delle due ferite che in passato hanno compromesso i rapporti tra le due aree: cioè i “casi” Cuba e Colombia. Le trattative che si stanno svolgendo a L’Avana tra le FARC e lo Stato colombiano per porre fine alla guerra civile più lunga del continente americano, 50 anni e 200.000 morti, è strettamente legata ai round negoziali tra USA e Cuba, in svolgimento sempre a L’Avana, per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e commerciali dopo decenni di inutile embargo. In entrambi i casi gli Stati Uniti sono stati sconfitti, non essendo riusciti a rovesciare Castro né a liquidare la guerriglia delle FARC. Ma il danno è stato ancora maggiore se si considera che l’ostinata difesa di questa fallimentare politica di ingerenza ha alienato, con pochissime eccezioni, qualsiasi simpatia nei confronti degli USA da parte di governi di destra come di sinistra. E già nel 2005 gli errori hanno pesato nella decisione degli Stati latinoamericani di rifiutare l’accordo ALCA, il disegno – ormai sepolto – di costruzione di un unico mercato dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco.

Obama ora sta dimostrando coraggio. Nel discorso in cui annunciava l’apertura del dialogo con Cuba ha fatto giustizia storica citando il patriota cubano José Martí e restituendo a 400 milioni di persone la denominazione di “americani”, a segnalare un destino comune. Tuttavia lo slogan “siamo tutti americani” ha per ora provocato solo sorrisi in America Latina. E questo perché da quelle parti sono abituati all’uso alternato del bastone e della carota da parte dei vicini del Nord. Gli Stati Uniti, dopo le aperture di Obama, dovranno così riguadagnarsi sul campo ciò che la globalizzazione ha loro tolto. In primo luogo, prendendo atto del fatto che l’America Latina della Guerra Fredda, quella schiacciata nell’alleanza obbligatoria con gli Stati Uniti, che non risparmiarono mezzi né tragedie per perpetuarla, non esiste più.

Ora il rapporto deve essere alla pari, perché i latinoamericani per la prima volta possono scegliere con chi stare e con chi fare affari. È uno scenario al quale a Washington faticano ad abituarsi, ma con il quale devono fare i conti. Per la prima volta, nelle relazioni diplomatiche tra i mondi separati del Nuovo Continente sono gli americani del Nord ad avanzare proposte di cooperazione e a proporsi come forza di pace: le parti si stanno rovesciando, e questo non può che essere un bene.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Il tour americano del presidente cinese Xi Jinping, il primo del suo mandato, è iniziato in modo irrituale. O forse no. Prima di sbarcare a Washington per incontrare Obama, infatti, Xi Jinping ha fatto tappa a Trinidad e Tobago, piccola enclave petrolifera al largo del Venezuela, e poi in Costa Rica e Messico. Particolare rilievo ha l’incontro con le autorità del Costa Rica, il Paese centroamericano che più a lungo rifiutò i rapporti con Pechino favorendo quelli con la rivale Taiwan.

Con questi incontri, la Cina ribadisce che a Pechino “America” non è sinonimo di Stati Uniti, nonostante gli USA siano abituati ad autodefinirsi in questo modo. L’America è un continente, e con questo continente la Cina ha ormai stabilito rapporti economici e politici duraturi. Lo ha fatto senza mai interferire nella politica interna dei vari Paesi, abituati dalla storia dell’800 e del ’900 a continue e pesanti ingerenze delle potenze estere.

Pechino è già il nuovo partner globale dei Paesi emergenti dell’area, in passato “obbligati” ad avere rapporti con una sola potenza: quella del Nord. Sullo sfondo, l’inizio di una reciprocità geopolitica tra Cina e USA alla quale Washington dovrà abituarsi: non saranno solo gli Stati Uniti a “giocare” nel cortile di casa cinese, ma accadrà anche il contrario. In questo senso la visita in America Latina del presidente cinese è simmetrica al viaggio negli USA, per firmare diversi accordi commerciali, del presidente birmano Thein Seinn, a capo di un Paese che finora  aveva rapporti internazionali solo con la Cina.

La forza di Pechino rimane però il suo gigantesco commercio estero, che si estende a diverse aree del mondo. Nel 2012 la Cina ha scambiato con l’America Latina 260 miliardi di dollari USA in merci e servizi; è il primo partner commerciale di Brasile e Cile e il secondo di Perú, Cuba e Costa Rica. Gli Stati Uniti rispondono sottolineando che i loro rapporti con i vicini del Sud hanno una qualità istituzionale superiore rispetto a quelli che il resto del continente intrattiene con Pechino: includono infatti anche i temi della sicurezza, del narcotraffico e della difesa. Tutte questioni indubbiamente importanti ma che, in base alla storia, i latinoamericani gradirebbero gestire senza il coinvolgimento del Pentagono.

Il grande “gioco” tra Cina e USA si svolge però nell’area del Pacifico. I riflettori sul futuro dell’economia globale si sono infatti spostati dall’Atlantico all’altro grande oceano. Non a caso gli USA stanno promuovendo con grande forza la TPP (Trans-Pacific Partnership), una grande area di libero commercio sulle due sponde dell’oceano che esclude però la Cina. E anche l’America Latina, che ha le sue storiche potenze sull’Atlantico (Brasile, Venezuela e Argentina), ha carte da giocare con i Paesi emergenti del Pacifico: Cile, Perù, Colombia e Messico. Cina e USA sono i due grandi poli di attrazione e di aggregazione, tra loro in competizione soft, per ora.

Nei rapporti tra Paesi dell’ex terzo mondo e potenze mondiali la retorica ormai lascia il tempo che trova. Contano invece le possibilità economiche, la capacità di gestire i partner in modo più paritetico. E soprattutto diventa importante capire quanto queste relazioni rinforzino la sovranità degli Stati anziché ribadirne la dipendenza. È questa per ora è la principale forza della Cina.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Nel 1988 l’economista egiziano Samir Amin formulava la “teoria dello sganciamento”, ipotizzando la creazione di flussi commerciali e politici sud-sud come unica via per il superamento dei rapporti iniqui tra il Nord e il Sud del mondo. In sostanza, Amin considerava questa come l’arma risolutiva in mano ai Paesi del “Terzo Mondo” per porre fine alla loro dipendenza dagli storici rapporti coloniali e neocoloniali con l’Occidente.

Molto tempo è passato e alcuni timidi tentativi sono stati fatti, a partire dalla creazione del Mercosur, primo blocco economico interamente formato da Paesi sudamericani. Ma la svolta, e la materializzazione delle teorie di Amin, si è avuta solo in questi ultimi anni. Anzi, sta ancora avvenendo in questa seconda fase della globalizzazione, nella quale non ci sono padroni indiscussi della scena internazionale (come gli appartenenti al G8), ma si sono affermati anche nuovi protagonisti. È il caso dei Paesi BRICS. India, Cina, Brasile, Russia stanno infatti consolidando nuove geometrie economiche e politiche in un mondo nel quale nessuna potenza riesce più a esercitare una leadership globale, ma anzi, molte potenze del passato tentano disperatamente di non essere espulse dal nuovo ordine multipolare.

I dati appena pubblicati dall’ufficio statistico cinese confermano che sono in corso cambiamenti molto profondi. Nell’ultimo anno, l’export di Pechino verso i Paesi fuori dall’area euro, dollaro e yen è cresciuto del 17%, mentre verso l’Europa si è registrato un calo dell’1%. Ciò che era già successo con gli Stati Uniti, cioè il calo drastico delle esportazioni cinesi, comincia a verificarsi dunque anche con l’Europa. I cinesi guardano altrove. Solo in Russia il boom degli elettrodomestici ha fatto lievitare l’export di Pechino del 50%. Guardando i dati nel loro complesso, si comprende che oggi per la Cina il mercato in maggiore espansione è l’America Latina, che nel 2017 dovrebbe equivalere all’Europa o addirittura superarla. Ma anche l’Africa, dimenticata da tutti gli altri, per i cinesi è un mercato a tutti gli effetti. La sua quota nell’export di Pechino aumenta con un ritmo da capogiro: entro 10 anni il Continente Nero potrebbe diventare il secondo mercato estero per la Cina.

Il peso che gli scambi commerciali con il gigante asiatico hanno assunto nelle diverse aree del pianeta determina anche differenti valutazioni e reazioni nei confronti della crisi. Non c’è dubbio che la buona risposta alle difficoltà planetarie offerta dall’America Latina e dall’Africa sia fondamentalmente legata all’aggancio tra questi mercati e la Cina (e, più in generale, ai rapporti sempre più stretti con l’area del Pacifico). Per il 2012, mentre tutti i numeri che riguardano la crescita del PIL sono in negativo in Europa, con la sola eccezione della Germania, i cinesi si aspettano ancora un +7,5% e i brasiliani un +3%.

Si tratta di incrementi minori di quelli del passato, ma pur sempre rilevanti. Per ora la crisi sta solo rallentando la crescita dei BRICS. La domanda è quanto resisteranno questi Paesi se la crisi andrà avanti. Oppure, se la crisi peggiorerà, quanto potranno resistere al contagio. C’è chi dice che in questo caso potrebbero addirittura guadagnarci: teoria tutta da dimostrare, ma ciò che è indubbio è che USA e Europa, quando usciranno dalla crisi, non troveranno più lo stesso mondo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)