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Dopo la spettacolare esposizione mediatica degli ultimi anni, l’unico Paese ufficialmente socialista dell’emisfero occidentale, Cuba, è tornato nell’oblio. Sono stati anni intensi, gli ultimi due, con L’Avana sempre in prima pagina: dalla mediazione riuscita di papa Francesco – che ha portato alla visita di Barack Obama e alla fine, per quanto non formalizzata, delle ostilità tra i due vicini del mare dei Caraibi – alla pace tra governo colombiano e guerriglia delle FARC firmata proprio nella capitale cubana. Sempre a Cuba si sono abbracciati papa Francesco e il patriarca della Chiesa russa Kirill, ponendo le basi per un riavvicinamento fra due delle tre grandi correnti del Cristianesimo europeo, divise da mille anni. Tra il novembre e il dicembre 2016 l’isola ha ottenuto visibilità globale ancora una volta, sia pure per un evento meno felice, la morte del comandante Fidel Castro, che ha generato un’ondata di commozione in tutto il mondo. E ha sollevato interrogativi sulla transizione guidata dal fratello Raúl, con la sua promessa di lasciare il potere nel 2018 e una successione ancora da definire.

Ecco, tutto questo sembra dimenticato da quando alla presidenza degli Stati Uniti è stato eletto Donald Trump, che è riuscito a ottenere parte del voto cubano della Florida promettendo di fare marcia indietro rispetto alle concessioni di Obama. In realtà, per ora il bersaglio latinoamericano di Trump è un altro, il Messico. Su Cuba, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha solo detto che non ci saranno nuove aperture finché non cambierà la situazione politica dell’isola. Che è molto ma anche poco.

Molto perché appare piuttosto improbabile che, nell’immediato, a Cuba possa cambiare qualcosa. Poco perché nel frattempo sull’isola stanno arrivando migliaia di turisti statunitensi portati dalle navi da crociera, oppure dai voli di linea dell’American Airlines. Si sta verificando cioè quanto auspicava il mondo degli affari di Wall Street, che aveva spinto Obama a rivedere la fallimentare politica statunitense nei confronti di Cuba. Non è che prima L’Avana fosse isolata dal mondo, o avesse difficoltà a trovare capitali internazionali. Francia, Canada, Italia, Spagna, Brasile, Cina sono da anni grandi investitori tramite le loro compagnie transnazionali, sempre ben accolte a Cuba: soprattutto nel settore turistico, diventato trainante per il resto dell’economia locale. Ora anche le imprese a stelle e strisce chiedono la loro parte, nei settori delle comunicazioni, dei trasporti e ovviamente del turismo. Difficilmente Trump potrà, o vorrà, fermare questo fiume in piena che considera strategico il piccolo Paese caraibico. Come secoli fa lo era per la Spagna imperiale, come lo è stato fino agli anni ’60 per gli stessi Stati Uniti e più recentemente per il Vaticano e per diversi Paesi europei.

Come stanno incidendo sulla vita dei cubani le riforme portate avanti ormai da anni da Raúl Castro? In modo molto diversificato, in una società che si sta lentamente polarizzando. Da una parte, la maggioranza dei cubani che lavora per lo Stato percepisce stipendi ridicoli, e deve arrangiarsi come può per arrotondare; dall’altra, una minoranza vive una fase di veloce crescita, ora che si può lavorare legalmente come affittacamere o ristoratori: in un giorno, queste attività consentono di guadagnare l’equivalente dello stipendio mensile di un medico. Questa dinamica, che si avverte soprattutto nelle località turistiche, non ha ancora intaccato la struttura di una società che vive serenamente, anche se spesso in povertà, grazie a una rete di welfare universale unica nel suo genere in America Latina. Nell’unico Paese dell’area dove esiste sì la povertà, ma non la miseria, cominciano però a vedersi differenze rilevanti nel potere d’acquisto tra le famiglie inserite nel business del turismo e quelle escluse.

Per Cuba le sfide non sono state mai semplici. E proprio quando pareva che si potesse avvicinare un lieto fine nel tormentato rapporto con il potente vicino del Nord, ecco di nuovo l’incertezza. La differenza rispetto al passato è che oggi, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla fine dell’URSS e con il Venezuela in pieno caos economico e politico, Cuba riesce comunque a trovare le risorse necessarie per mantenere orgogliosamente in vita quel suo “socialismo tropicale” con fortissime venature nazionalistiche. Tuttavia i miti di Martí, del Che e di Fidel non bastano più: Cuba deve reinventarsi ogni giorno. La grande sfida che l’attende ora, da quando Internet si è diffusa sul territorio nazionale, è quella del pluralismo politico, senza il quale tutto ciò che è stato il lascito positivo della rivoluzione rischia di essere vanificato.

 

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La situazione internazionale è caotica, e su questo tutti concordano. Instabilità, mancanza di leadership, crisi ambientali, conflitti bellici. Tra le pieghe delle notizie si scopre, in realtà, che c’è un mondo che, dopo essere stato accusato di essere il responsabile della grande crisi economica mondiale iniziata nel 2007, gode di buona salute. È la finanza globale. Nelle elezioni degli Stati Uniti, Wall Street ha sostenuto massicciamente la candidata sconfitta Hillary Clinton. Ma poi, con grande sorpresa, il candidato vincente –  che, secondo la leggenda, rappresenterebbe i ceti deboli della società americana colpiti dalla globalizzazione – ha annunciato la sua intenzione di abolire la legge Dodd-Frank firmata da Barack Obama nel 2010. Quella legge federale, cioè, che ha modificato i meccanismi di regolazione dei mercati finanziari aumentando le tutele dei consumatori. Soprattutto, la Dodd-Frank pone dei limiti alle operazioni puramente speculative effettuate dalle banche.

Secondo Donald Trump, con queste regole le banche statunitensi perdono soldi: tradotto, le banche statunitensi hanno meno strumenti per speculare sui mercati internazionali rispetto ai competitor europei o cinesi. I titoli bancari quotati alla Borsa di New York hanno risposto a questa, che per ora rimane una promessa, con un balzo di 29 punti nei primi tre mesi del 2017 e sono vicini a ripetere il rally del 2007, quello registrato pochi mesi prima dello scoppio della bolla speculativa che portò alla versione 2.0 della grande depressione. Poco pare sia cambiato, insomma, da quella crisi dei subprime che svelò in modo palese quanto la finanza avesse potuto lavorare con le mani libere, senza praticamente controlli su operazioni via via più speculative e a rischio. Solo Obama provò a porre alcune regole, ma probabilmente in modo effimero.

L’altra faccia della speculazione finanziaria rispetto alle operazioni sui mutui sono state le scorribande internazionali. Lo spostamento cioè dei capitali miliardari dei fondi di investimento o dei fondi pensionistici con il solo scopo di ottenere rendimenti sostanziosi. Negli anni 2000 una di queste grandi operazioni fu indirizzata sul Brasile, dove sbarcarono capitali speculativi a un ritmo di circa 40 miliardi di dollari annui. Secondo il FMI, la moneta brasiliana, il real, era all’epoca tra le prime quattro valute al mondo per movimentazione sui mercati di cambio, ma solo il 5% di queste transazioni erano dovute al commercio estero: il 95% erano scommesse della finanza internazionale sulla rivalutazione della moneta locale. E il meccanismo funzionava, perché con la Cina assetata di materie prime e il continuo afflusso di capitali, il real si rivalutava, dimezzando il suo valore rispetto al dollaro. Così, chi aveva comprato moneta locale, oltre agli interessi sui bond, incassava la differenza di cambio una volta riconvertita la valuta. Un gioco molto redditizio durato anni che ha penalizzato fortemente il Brasile, che a un certo punto si è trovato con una moneta troppo forte per esportare in modo vantaggioso le sue materie prime e con un tasso di crescita distorto dai capitali speculativi. La ritirata dei capitali internazionali, insieme a questioni locali, ha segnato l’inizio di una crisi profonda nel Paese sudamericano ancora non finita.

La notizia quasi segreta di questi mesi è che è ripartita la corsa ai Paesi emergenti, con l’aumento di 800 miliardi di dollari della capitalizzazione dei listini di questi Stati e con due principali beneficiari, la Russia e il Brasile. E già si vedono i risultati, con la Borsa di São Paolo che torna in positivo e gli interessi pagati per i bond governativi che calano. In poche parole, la giostra è ripartita seguendo il solito percorso circolare. Poche regole, massa d’urto miliardaria, mercati emergenti dove speculare fino alla prossima crisi e al prossimo giro. Come se nulla fosse successo, come se questa situazione non avesse ricadute sui cittadini, come se non fosse in gioco lo stesso futuro della globalizzazione.

 

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Barack Obama vuole concludere il suo mandato rilanciando i rapporti con i “vicini” latinoamericani. Così, dopo decenni di incomprensioni, disinteresse e ridimensionamento anche dal punto di vista della presenza economica, gli Stati Uniti tornano prepotentemente ad affacciarsi sul continente che si estende a sud del Rio Bravo. Durante la lunga assenza del “fratello del Nord”, però, nel vicinato sono accadute molte cose. Un grande Paese, il Messico, è precipitato in una guerra civile sanguinosa tra Stato e narcotraffico. Un altro grande Paese, il Brasile, è diventato potenza globale. In diversi piccoli Paesi, come Ecuador, Uruguay e Bolivia, sono avvenuti profondi cambiamenti nell’ambito della sovranità economica e dei diritti sociali e individuali. Altri Stati ancora, come Cile e Perú, conoscono alti tassi di crescita economica, mentre Argentina e Venezuela si trascinano in una crisi politica quasi endemica.

Situazioni molto diverse ma con elementi comuni: la crescita delle società latinoamericane degli ultimi vent’anni è stata proporzionale al ridimensionamento delle relazioni economiche e politiche con gli Stati Uniti e alla diversificazione dei partner internazionali. Per diversi Paesi dell’America centro-meridionale, la potenza economica di riferimento è oggi la Cina. E proprio questo ha fatto scattare l’allarme, in ritardo, a Washington. La strategia del ritorno degli Stati Uniti in America Latina prevede la guarigione delle due ferite che in passato hanno compromesso i rapporti tra le due aree: cioè i “casi” Cuba e Colombia. Le trattative che si stanno svolgendo a L’Avana tra le FARC e lo Stato colombiano per porre fine alla guerra civile più lunga del continente americano, 50 anni e 200.000 morti, è strettamente legata ai round negoziali tra USA e Cuba, in svolgimento sempre a L’Avana, per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e commerciali dopo decenni di inutile embargo. In entrambi i casi gli Stati Uniti sono stati sconfitti, non essendo riusciti a rovesciare Castro né a liquidare la guerriglia delle FARC. Ma il danno è stato ancora maggiore se si considera che l’ostinata difesa di questa fallimentare politica di ingerenza ha alienato, con pochissime eccezioni, qualsiasi simpatia nei confronti degli USA da parte di governi di destra come di sinistra. E già nel 2005 gli errori hanno pesato nella decisione degli Stati latinoamericani di rifiutare l’accordo ALCA, il disegno – ormai sepolto – di costruzione di un unico mercato dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco.

Obama ora sta dimostrando coraggio. Nel discorso in cui annunciava l’apertura del dialogo con Cuba ha fatto giustizia storica citando il patriota cubano José Martí e restituendo a 400 milioni di persone la denominazione di “americani”, a segnalare un destino comune. Tuttavia lo slogan “siamo tutti americani” ha per ora provocato solo sorrisi in America Latina. E questo perché da quelle parti sono abituati all’uso alternato del bastone e della carota da parte dei vicini del Nord. Gli Stati Uniti, dopo le aperture di Obama, dovranno così riguadagnarsi sul campo ciò che la globalizzazione ha loro tolto. In primo luogo, prendendo atto del fatto che l’America Latina della Guerra Fredda, quella schiacciata nell’alleanza obbligatoria con gli Stati Uniti, che non risparmiarono mezzi né tragedie per perpetuarla, non esiste più.

Ora il rapporto deve essere alla pari, perché i latinoamericani per la prima volta possono scegliere con chi stare e con chi fare affari. È uno scenario al quale a Washington faticano ad abituarsi, ma con il quale devono fare i conti. Per la prima volta, nelle relazioni diplomatiche tra i mondi separati del Nuovo Continente sono gli americani del Nord ad avanzare proposte di cooperazione e a proporsi come forza di pace: le parti si stanno rovesciando, e questo non può che essere un bene.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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