A livello mondiale, il pacchetto di riforme fiscali e incentivi al settore manifatturiero elaborato da Barak Obama si presenta come il più importante tentativo degli ultimi decenni di dare vita a una politica industriale. Un concetto, quello delle politiche industriali, utilizzato a sproposito dai politici di mezzo mondo per abbellire discorsi elettorali, ma che si sta davvero materializzando negli USA, la patria degli estremi opposti in materia economica: dal dirigismo al liberismo più assoluto.
In questa fase storica lo Stato non aspira certo a diventare “imprenditore”, ma punta a stimolare la ripresa industriale attraverso la leva fiscale e gli investimenti in ricerca, infrastrutture e formazione. Questi, infatti, sono i tre punti centrali della “manovra Obama”. La prima e più importante iniziativa è l’abbattimento delle aliquote fiscali massime applicate alle imprese, che dal 35% (tra le più alte al mondo) scenderanno al 25% per il settore manifatturiero e al 28% per tutti gli altri. Verranno però eliminate le scappatoie legali che finora le aziende hanno utilizzato, pagando i migliori studi di avvocati, per aggirare il fisco. Un Grand Bargain, insomma, un “grande compromesso” tra chi sarà chiamato a versare meno tasse e lo Stato: uno Stato che si impegna a “chiedere” di meno, però pretende che paghino tutti.
A queste misure si accompagnano l’introduzione di particolari detrazioni destinate alle piccole e medie aziende e l’eliminazione dei paradossali incentivi alla delocalizzazione produttiva, finora premiata da una fiscalità di favore risalente agli anni ruggenti di Ronald Reagan. Nella visione dei democratici americani, il manifatturiero è fondamentale per la stabilità del Paese perché crea posti di lavori “buoni”, cioè stabili e garantiti, e non precari e a basso costo come accade nel settore dei servizi; in questo senso è un settore che favorisce i ceti medi.
Il secondo fronte è quello degli investimenti indiretti a sostegno delle imprese, attraverso un megapiano pubblico-privato che ammodernerà le infrastrutture necessarie al decollo dell’industria: dalle strade alle autostrade informatiche.
Il terzo fronte è l’investimento nella formazione e nella ricerca. In dieci anni verranno creati 45 nuovi istituti per l’innovazione, centri di eccellenza tecnologica dedicati allo sviluppo industriale; inoltre saranno incentivati i college nelle aree industriali perché moltiplichino l’offerta dei percorsi formativi pensati per l’industria.
Questo ritorno dello Stato al centro delle scelte economiche e produttive, voluto da Obama dopo un’assenza che negli USA durava dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, si basa su una visione strategica di lungo termine. Se gli USA, proiettati verso l’autonomia energetica, riusciranno a rimettere in sesto anche il sistema manifatturiero, potrebbero spezzare entrambe le loro dipendenze: quella dai fornitori di greggio mediorientali e quella dalla Cina, il loro grande fornitore e creditore.
La riforma dovrebbe a breve toccare anche il punto dolente dell’erosione della base imponibile, proponendo un rimpatrio dei capitali che le grandi corporation hanno guadagnato in questi anni di globalizzazione, ma che sono rimasti all’estero per evitare la fiscalità a stelle e strisce. Si calcola infatti che il 60% delle riserve in contanti di colossi come Disney, General Electric e Microsoft sia oltre confine: ben 840 miliardi di dollari. Uno scudo fiscale per il loro rientro potrebbe generare un gettito miliardario per le casse federali.
Dopo la sbornia della finanza creativa, della terziarizzazione dell’economia, della delocalizzazione dell’industria, gli Stati Uniti stanno quindi tornando alla loro storia. Una sfida per l’Europa, ma anche e soprattutto per i Paesi che, in questi ultimi anni, sono emersi a potenza mondiale assumendo il ruolo di “fabbriche del mondo”.
Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)