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Il G20 di New Delhi ha fotografato il momento storico che stiamo vivendo. I protagonisti dell’incontro sono stati la Cina, assente però il suo presidente, la Russia che è rimasta alla finestra, l’India che ospitava l’evento e gli Stati Uniti, impegnati nel tentativo di sottrarre spazio politico alla Cina. E poi qualche comprimario, come il Brasile, che ora presiederà il gruppo. L’Europa, che come sempre si presentava divisa, non è pervenuta. La vera posta in gioco di questo G20 è stato il bisogno delle nuove potenze di segnare il campo, di farsi rispettare per ciò che rappresentano nell’economia e nella demografia del XXI secolo, superando la logica tradizionale dei “blocchi”. Le relazioni tra nuove e vecchie potenze sono infatti fluide. C’è un fronte dichiaratamente antioccidentale, ovviamente capeggiato dalla Russia e sostenuto nell’ombra dalla Cina. C’è un fronte che gioca su due sponde, con l’India in testa: un po’ terzomondista, un po’ amico degli Stati Uniti in chiave anticinese. E c’è anche un blocco che ricorda i “non allineati” di un tempo, guidato dal Brasile, che rivendica una politica di mani libere per scegliere con chi e come fare affari.

In queste diverse geometrie che hanno misurato le proprie forze a New Delhi, di occidentale restano solo gli Stati Uniti, punto di riferimento inevitabile sia come alleati sia come nemici. Per il resto, siamo già entrati nell’era post-globale, in cui vengono alla luce le geopolitiche dei Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”. Per Pechino, il mondo è ormai del tutto frammentato e rappresenta perciò un campo di gioco ideale nel quale far valere la propria potenza economica. Per l’India, invece, il mondo è ancora guidato da logiche post-coloniali e per governarlo è necessario associarsi alla potenza globale americana, pur restando indipendenti.

Il comunicato finale del G20 è stato un esempio di pragmatismo: a forza di mediare, alla fine si sono dette solo cose ovvie, che nessuno poteva rifiutare di sottoscrivere. E infatti il comunicato è stato firmato sia dagli Stati Uniti sia dalla Russia, con grande soddisfazione del vero vincitore del summit, il premier indiano Narendra Modi.

Al di là del braccio di ferro tra le nuove potenze asiatiche, questo vertice ha lasciato molto poco: forse l’unico dato positivo è stata l’inclusione dell’Unione Africana in quello che ormai è un G21. L’agenda del mondo sulla quale si doveva discutere è sfumata o è rimasta in sospeso. Cambiamenti climatici, disparità di genere, transizione energetica, finanza globale, multilateralismo. Temi centrali sui quali si aspettavano parole di indirizzo, se non veri piani di azione, e che invece sono stati rimandati al prossimo vertice. Perché in questa fase il punto è come garantirsi un posto di rilievo nella cabina di regia del nuovo mondo, come comportarsi da potenze globali senza avere una tradizione alle spalle. Che l’India, fino a 75 anni fa una colonia inglese, si candidi a guidare la globalizzazione insieme a Cina e Stati Uniti può apparire clamoroso. Ma questo perché gli analisti non hanno saputo registrare, e hanno sempre sottovalutato, ciò che stava succedendo nel mondo dalla fine della Guerra Fredda in poi.

Il G20 di New Delhi ha fotografato il momento storico che stiamo vivendo. I protagonisti dell’incontro sono stati la Cina, assente però il suo presidente, la Russia che è rimasta alla finestra, l’India che ospitava l’evento e gli Stati Uniti, impegnati nel tentativo di sottrarre spazio politico alla Cina. E poi qualche comprimario, come il Brasile, che ora presiederà il gruppo. L’Europa, che come sempre si presentava divisa, non è pervenuta. La vera posta in gioco di questo G20 è stato il bisogno delle nuove potenze di segnare il campo, di farsi rispettare per ciò che rappresentano nell’economia e nella demografia del XXI secolo, superando la logica tradizionale dei “blocchi”. Le relazioni tra nuove e vecchie potenze sono infatti fluide. C’è un fronte dichiaratamente antioccidentale, ovviamente capeggiato dalla Russia e sostenuto nell’ombra dalla Cina. C’è un fronte che gioca su due sponde, con l’India in testa: un po’ terzomondista, un po’ amico degli Stati Uniti in chiave anticinese. E c’è anche un blocco che ricorda i “non allineati” di un tempo, guidato dal Brasile, che rivendica una politica di mani libere per scegliere con chi e come fare affari.

In queste diverse geometrie che hanno misurato le proprie forze a New Delhi, di occidentale restano solo gli Stati Uniti, punto di riferimento inevitabile sia come alleati sia come nemici. Per il resto, siamo già entrati nell’era post-globale, in cui vengono alla luce le geopolitiche dei Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”. Per Pechino, il mondo è ormai del tutto frammentato e rappresenta perciò un campo di gioco ideale nel quale far valere la propria potenza economica. Per l’India, invece, il mondo è ancora guidato da logiche post-coloniali e per governarlo è necessario associarsi alla potenza globale americana, pur restando indipendenti.

Il comunicato finale del G20 è stato un esempio di pragmatismo: a forza di mediare, alla fine si sono dette solo cose ovvie, che nessuno poteva rifiutare di sottoscrivere. E infatti il comunicato è stato firmato sia dagli Stati Uniti sia dalla Russia, con grande soddisfazione del vero vincitore del summit, il premier indiano Narendra Modi.

Al di là del braccio di ferro tra le nuove potenze asiatiche, questo vertice ha lasciato molto poco: forse l’unico dato positivo è stata l’inclusione dell’Unione Africana in quello che ormai è un G21. L’agenda del mondo sulla quale si doveva discutere è sfumata o è rimasta in sospeso. Cambiamenti climatici, disparità di genere, transizione energetica, finanza globale, multilateralismo. Temi centrali sui quali si aspettavano parole di indirizzo, se non veri piani di azione, e che invece sono stati rimandati al prossimo vertice. Perché in questa fase il punto è come garantirsi un posto di rilievo nella cabina di regia del nuovo mondo, come comportarsi da potenze globali senza avere una tradizione alle spalle. Che l’India, fino a 75 anni fa una colonia inglese, si candidi a guidare la globalizzazione insieme a Cina e Stati Uniti può apparire clamoroso. Ma questo perché gli analisti non hanno saputo registrare, e hanno sempre sottovalutato, ciò che stava succedendo nel mondo dalla fine della Guerra Fredda in poi.

Si tiene nell’ultimo weekend di novembre a Buenos Aires la tredicesima riunione del G20, il forum di presidenti, ministri dell’Economia e governatori delle Banche centrali delle prime 20 economie mondiali, nato nel 1999. Il G20 è l’evoluzione del G8 (gruppo ristretto alle sole potenze occidentali più Giappone e Russia), rispetto al quale fotografa meglio la geografia dello sviluppo delineatasi dopo l’emersione di nuove potenze regionali e, nel caso della Cina, globali: gli Stati membri producono l’86% del PIL mondiale. Il G20 ha anche allargato la rappresentanza politica del suo “predecessore”, in quanto nei Paesi che ne fanno parte vive il 65% della popolazione mondiale.

Come il G8, anche il G20 è “soltanto” un forum nel quale si concordano politiche economiche e finanziarie che non hanno valore di legge. Non si tratta dunque di un ente legittimato dal diritto internazionale: anzi, secondo i suoi critici si sovrappone agli organi previsti dal sistema delle Nazioni Unite, come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, che offrono rappresentanza a tutti gli Stati del mondo.

Il tema principale di questa edizione sarà la ricomparsa dei dazi, che stavano progressivamente scomparendo e invece sono tornati prepotentemente d’attualità, spinti dagli Stati Uniti. A partire dal 23 marzo 2018 Washington ha introdotto infatti pesanti dazi sulle importazioni di acciaio (25%) e alluminio (10%) colpendo molti suoi partner storici, ma anche “obbligando” alcuni Paesi danneggiati, la Cina in primis, a dare il via a ritorsioni altrettanto pesanti. Una spirale che a catena potrebbe contagiare l’intero sistema-mondo, portando all’irrigidimento del mercato globale.

L’altro tema nell’agenda del G20 riguarda le criptovalute, in questo caso per promuovere maggiore trasparenza ed efficienza nel sistema finanziario, preso alla sprovvista dal boom delle monete virtuali: nuove valute che, per la prima volta, non vengono emesse da uno Stato sovrano. I rischi maggiori riguardano l’uso di bitcoin e di altre monete simili per evadere il fisco o finanziare attività illecite. Si deciderà quindi di applicare alle criptovalute lo standard previsto per le risorse crittografiche dalla Financial Action Task Force, in attesa di una norma ad hoc.

Sull’andamento dell’economia globale i ministri del G20 registrano una ripresa di circa il 4% su base annua, ma ne segnalano la fragilità e sottolineano il bisogno di continuare a puntare sull’inclusività. Occorre cioè scongiurare il rischio che la crescita coinvolga solo grandi aziende e ceti medi e alti.

Si tratta di temi importantissimi che però si limitano agli aspetti tecnici, senza affrontare (e senza riuscire a nascondere) le domande fondamentali: quale sarà il futuro della globalizzazione e, soprattutto, quali sono i margini per una sua governance?  Manca infatti uno slancio in questo senso, e i vari protagonisti della scena geopolitica hanno posizioni diversissime, come non capitava da molto tempo. Gli Stati Uniti di Donald Trump sono sempre più orientati verso politiche sovraniste a discapito di quell’ordine globale che essi stessi hanno contribuito a creare, dalla fine della Guerra Fredda in poi. L’Unione Europea si presenta in ordine sparso, ferita gravemente dalla Brexit e dalla crescita di forze ostili alla cooperazione. Le potenze emergenti sono nel pieno di profonde crisi politiche ed economiche, dal Brasile al Sudafrica. Sempre più solitaria, la Cina resta l’unica portavoce del bisogno – soprattutto suo – di preservare i flussi commerciali mondiali da dazi e chiusure. Nel complesso il G20 ci racconta di un mondo privo di leadership credibili e soprattutto senza un progetto comune. Da questo punto di vista, si sarebbe anche potuto sospendere il vertice di Buenos Aires per mancanza di volontà politica. Ma, come da copione, ci sarà comunque la foto ricordo da dare in pasto alla stampa: per continuare a fingere che la casa sia in ordine, anche se è vero il contrario.

 

Il Gruppo dei 7, formalizzato nel 1986, ha accompagnato la storia delle relazioni internazionali nella delicata fase di transizione dalla Guerra Fredda alla globalizzazione. Formato dai soli paesi occidentali, si trovò un modo di includere, anche se in modo puramente formale, la Russia potenza nucleare nel G8.  Il G7 è stato fondato ufficialmente per facilitare le iniziative macroeconomiche condivise dai suoi membri. Il suo obiettivo resta quello di mettere a punto politiche economiche a breve termine tra i paesi partecipanti e monitorare gli sviluppi nell’economia mondiale. In breve, il G7 nasce con l’intenzione dichiarata di dare vita a un Direttorio economico mondiale per bypassare qualsiasi altra istanza multilaterale ribadendo il vecchio principio che il potere lo esercita chi è più forte. Ed è proprio su questo punto che il G7, formato dalle prime 7 economie mondiali degli anni ’80, dopo 20 anni era già superato. Quando cioè Cina, India e addirittura Brasile avevano superato per PIL alcuni membri del club. Erano gli effetti della globalizzazione che, spostando lavoro e investimenti in giro per il mondo, aveva anche contribuito alla crescita economica di diversi paesi. La risposta a questi mutamenti è stata, nel 1999, la nascita del G20. Il vertice dei governatori delle banche centrali e dei ministri delle finanze dei 20 paesi più industrializzati al mondo. Il G7 a questo punto si poteva considerare superato, ma invece no. Le sue riunioni, piuttosto inutili dal punto di vista pratico, servivano soprattutto a mandare un messaggio di unità di intenti al resto del mondo da parte del nocciolo duro dell’Occidente. Una recita più rivolta ai nemici che agli amici, ma soprattutto una periodica dichiarazione di fede nei dogmi e nei paradigmi della globalizzazione, del libero mercato, del mondo aperto al business. Dopo avere superato le contestazioni di massa a Seattle e a Genova, il G7 che si apre in Quebec rischia di implodere. Per la prima volta da quando c’è stata la svolta sovranista di Donald Trump negli Stati Uniti siederanno allo stesso tavolo gli attuali rivali commerciali. Il G7, da pulpito dal quale si condannavano i protezionismi degli altri, potrebbe diventare il ring dove si consumi lo strappo della famiglia occidentale. Cosa tiene insieme oggi gli Stati Uniti di Trump, la Gran Bretagna della Brexit, la Germania potenza isolata, e l’Italia gialloverde? Poco o niente, se non la paura del rompete le righe, del futuro incerto. Il G7, il Wto, il G20 sono stati tutti tentativi, per lo più falliti, di dare un ordine alle cose, di creare un sistema di regole, di tutele e di punizioni. Oggi i principali fautori di queste istanze non ci credono più, si defilano. E ognuno comincia a fare i conti sulle proprie risorse e sui propri numeri per essere considerato potenza.

Al G7 di Quebec si scatterà la foto ricordo di un mondo che non c’è quasi più. Dietro i sorrisi dei partecipanti si leggerà la preoccupazione per il futuro. Ogni qualvolta nel mondo è saltato il dialogo sono seguiti conflitti bellici. E il clima mondiale purtroppo fa presagire che questo esito potrebbe tornare realistico. Dai G7 si tentava sempre di trasmettere fiducia nel futuro, di fare sentire sicuri i cittadini perché i Grandi collaboravano. Per quanto fosse solo retorica il messaggio aveva la sua forza. Dal Quebec invece arriverà il segnale contrario, i Grandi non dialogano più e non credono più a una collaborazione, anzi, sono in piena guerra commerciale, che di solito anticipa quelle vere.

 

 

I ragni al lavoro

Pubblicato: 17 gennaio 2015 in America Latina, Europa, Mondo
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Quando nel 1995 nacque l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO, la strada pareva segnata: la deregolamentazione dell’economia, all’epoca già in corso, sarebbe proseguita, ci sarebbe stata la fine dei protezionismi di mercato e i capitali avrebbero potuto spostarsi in sicurezza per il mondo. Il tutto sotto la guida appunto del WTO, che avrebbe stabilito le nuove “non-regole”, dettato i tempi, punito i renitenti e i disobbedienti. Addirittura, la fiducia in questo destino ineluttabile – cioè il sogno della cultura economica liberale – aveva partorito per il nuovo organismo uno statuto nel quale le decisioni si sarebbero prese all’unanimità. Infatti, chi mai avrebbe potuto essere in disaccordo?

Pochi anni dopo, nel 2003, i nodi vennero al pettine durante la quinta Conferenza Ministeriale del WTO a Cancún, in Messico: una conferenza che puntava a raggiungere un accordo sul delicato tema dell’agricoltura. Qui un’alleanza di 22 Paesi dell’ex Terzo Mondo, capitanati da India, Cina e Brasile, riuscì a bloccare i negoziati chiedendo l’abolizione dei sussidi all’agricoltura europea e statunitense come precondizione per l’apertura dei mercati agricoli locali. Da quel momento per il WTO è iniziato un lento declino. Parallelamente sono nati il G20, il gruppo di 20 Stati che ha di fatto preso il posto del G8, e il gruppo dei BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, il club delle potenze emergenti.

Il fallimento del tentativo di arrivare a un trattato globale attraverso il WTO non ha però raffreddato gli spiriti dei Paesi promotori della globalizzazione: in particolare gli Stati Uniti. In particolar modo sono stati gli USA, davanti alla paralisi europea, a prendere l’iniziativa per aggirare l’ostacolo. La strategia per arrivare allo stesso risultato attraverso altre strade è stata individuata nella stipulazione di accordi bilaterali: alcuni già esistenti, come il NAFTA (fra Stati Uniti, Canada e Messico), sono stati allargati; altri tentativi sono falliti, come nel caso dell’ALCA, l’area di libero commercio delle Americhe che avrebbe dovuto creare un unico mercato per merci e servizi dall’Alaska alla Terra del Fuoco, che si arenò nel 2005 per volontà di tre presidenti sudamericani: Chávez, Lula e Kirchner.

Ma i negoziati sono continuati con la firma di decine di accordi di libero scambio tra gli Stati Uniti e singoli Paesi asiatici, latinoamericani e africani. Insomma, Washington sta applicando la strategia del ragno, lavora per tessere una trama di accordi commerciali che, sommati tra loro, equivarranno a quegli accordi che non si è riusciti a firmare a livello di WTO. Al momento gli USA sono impegnati in due negoziati decisivi: il TTIP, cioè l’accordo di partenariato transatlantico con l’Unione Europea; e il TPP, un’alleanza con i Paesi emergenti del Pacifico che esclude però la Cina. Questi accordi rappresentano la priorità assoluta della diplomazia economica a stelle e strisce, in quanto dovrebbero consolidare i rapporti commerciali e finanziari con due aree tradizionalmente alleate e, soprattutto, con due ricchissimi mercati.

Ma a Pechino c’è un altro ragno al lavoro per tessere una rete simile: già oggi gli accordi tra la Cina e i Paesi africani e latinoamericani non si contano. Il grande obiettivo del gigante asiatico, che per ora ha un accesso limitato all’Europa, è assicurarsi un ottimo rapporto di forze con gli altri Paesi del suo continente. La zona di libero commercio CAFTA (cioè Cina-ASEAN Free Trade Agreement) è dunque prioritaria per la Cina, per la quale costitiuisce l’unico modo di neutralizzare la crescente influenza degli Stati Uniti nel suo cortile di casa: attualmente coinvolge 11 Stati per un bacino economico di oltre 400 miliardi di dollari (cresciuto di quattro volte rispetto a 10 anni fa, quando il CAFTA è nato).

L’economia a ragnatela, in mancanza di un accordo-quadro globale che forse non conveniva a nessuno, è la continuazione con altri mezzi della guerra tra le potenze di oggi e quelle del futuro. Sullo scenario mondiale del XXI secolo, infatti, i missili contano tanto quanto le facilitazioni per l’export delle proprie merci. Mentre a Pechino e a Washington i ragni continuano a tessere, a Bruxelles si rischia invece di rimanere intrappolati in una di queste ragnatele senza neanche avere capito come e perché ciò sia accaduto.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

A spider weaves its web on a tree during the early morning in Odisha

Come le foglie in autunno, stanno cadendo uno a uno i dogmi economici degli ultimi 30 anni. I capisaldi della scuola di pensiero liberale dei professori dell’Università di Chicago – Friedman, Harberger e Stigler – stanno andando progressivamente in soffitta. Dopo avere ispirato i governi di Ronald Reagan e della signora Thatcher, oltre a una nutrita schiera di presidenti latinoamericani degli anni ’90, il neoliberismo non è più criticato soltanto dai movimenti antagonisti. Oggi a volerlo dimenticare sono anche le istituzioni che in passato si sono abbeverate alle sue idee.

In questi giorni si sono aperti simultaneamente due fronti. Il Fondo Monetario Internazionale, sotto la pressione dei Paesi BRICS, ha riconosciuto che alcune misure di controllo sui flussi di capitali possono rivelarsi giustificate e utili per evitare che interi Stati soccombano a terremoti finanziari. Ne sanno qualcosa l’Indonesia, il Messico, l’Italia della liretta, l’Argentina pre-default che hanno dovuto subire la forza d’urto dei capitali volanti, quelli che si spostano senza limitazioni da un Paese all’altro determinando impennate alternate a crolli di valute e borse locali. Già da due anni il Brasile chiedeva ad alta voce questo intervento, visto che è diventato destinazione di capitali speculativi internazionali in cerca di alti rendimenti: un flusso di denaro che finisce con il provocare la sopravvalutazione del real, penalizzando le esportazioni.

Sempre in questi giorni, a Londra il ministro dell’Economia (appartenente al partito conservatore che fu di Mrs. Thatcher) apre la lotta alle multinazionali che vendono merci e servizi nel Regno Unito, come i giganti Amazon e Google, ma pagano solo un ridicolo 3% di tasse in Lussemburgo. Da noi una sentenza del Tribunale del Lavoro ha stabilito che la compagnia aerea Ryanair dovrà applicare la legislazione del lavoro italiana ai suoi dipendenti italiani, e non più quella irlandese, più permissiva. Va chiarito che queste imprese non hanno commesso alcun reato. Finora si sono mosse all’interno delle non-regole degli anni ’90, quando FMI e Commissione Europea avevano adottato i dogmi appunto dei Chicago boys, deregolamentando il mercato dei capitali e permettendo alle multinazionali di scegliersi liberamente il Paese più conveniente per pagare tasse e stabilire contratti di lavoro.

Ora la crisi sta spingendo la politica a riprendere il suo ruolo regolatore e, soprattutto, a ridare un senso logico all’economia globale, che non può più basarsi solo sull’interesse dell’imprenditore, ma deve considerare anche quello dei lavoratori e delle comunità locali e nazionali. Queste prime avvisaglie, che rivelano come la politica stia tornando a occuparsi di economia, compongono un confuso puzzle in un momento di smarrimento. Appaiono più come il frutto del bisogno di cassa che come conseguenza di un ragionamento serio, e senza coordinamento non potranno avere un seguito: se non si traducono in misure condivise saranno facilmente aggirabili.

Ciò che per ora ci limitiamo a registrare è che stanno crollando diversi paradigmi che fino a ieri sembravano inamovibili. È una conseguenza della crisi e anche del maggiore protagonismo dei Paesi che in passato hanno subito senza potersi difendere. Solo il tempo ci farà capire se da queste macerie nascerà un New Deal globale oppure torneremo ai tempi delle chiusure e delle autarchie, a quando il peso di uno Stato dipendeva solo dal numero delle cannoniere in suo possesso.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Margaret-Thatcher-and-Ronald-Reagan-lead-a-merry-dance

Alla fine dell’estate è diventata una triste consuetudine occuparsi della fiammata dei prezzi degli alimenti di base. Quest’anno è complice la siccità straordinaria che ha colpito il Midwest statunitense, distruggendo oltre metà del seminato a mais. E pure in Europa le scarsissime precipitazioni di agosto hanno portato a un calo del 30-40% dei raccolti di soia e mais. Il cambiamento climatico anno dopo anno si conferma un fenomeno con il quale dobbiamo fare i conti, sia per le conseguenze sulle persone e sulla natura sia per gli effetti sull’economia.

Ma anche lasciando da parte la contingenza climatica, l’emergenza sui prezzi delle commodities agricole costituisce ormai più la regola che l’eccezione. E questo per una serie di questioni che hanno a che fare con la cultura dei consumi, con l’energia e con la speculazione finanziaria. Andando in ordine, l’aumento del reddito di centinaia di milioni di persone, soprattutto nei Paesi BRIC, ha portato a una maggiore domanda di carne, che in Brasile, Indonesia o Cina, da lusso per pochi è diventata un cibo di normale consumo. La domanda di mangime per gli allevamenti di manzi, suini e volatili è cresciuta vertiginosamente nell’ultimo decennio e questo è il primo motivo per il quale la disponibilità di mais e soia per uso umano è calata.

Il secondo grande tema riguarda i cosiddetti biocombustibili, che sulla carta dovrebbero abbassare i livelli di emissioni di CO2. Entro il 2020 il combustibile in vendita nei Paesi europei dovrebbe contenere almeno il 10% di biofuel, ma già si parla di ridurre la quota al 5%: autorevoli studi scientifici hanno dimostrato un legame tra la diffusione di questi carburanti e le sempre più frequenti impennate dei prezzi degli alimenti. È stato calcolato inoltre che il loro impiego genera più CO2 di quella prodotta da pari quantità di benzina e gasolio “tradizionali”. Facile comprendere le ragioni di entrambi i fenomeni, se si tiene conto della deforestazione compiuta in Africa, Asia e America Latina per espandere le coltivazioni di canna da zucchero, mais e olio di palma, che sono le regine dei biocombustibili. Tutte produzioni, oltretutto, sottratte all’alimentazione umana, per quanto vi siano fonti vegetali non concorrenziali con la produzione di cibo, come gli scarti agricoli e la jatropha. Un recente rapporto della ONG britannica Oxfam, infatti, ha calcolato che, nel 2008, i terreni utilizzati per produrre biocombustibili avrebbero potuto nutrire 127 milioni di persone in un anno.

Il 16 ottobre a Roma vedremo al lavoro per la prima volta il Forum di risposta rapida per l’emergenza alimentare, istituito in seno al G20 un anno fa e presieduto dalla Francia. L’annuncio del dimezzamento dell’obiettivo del 10% di biocombustibili nell’Unione Europea potrebbe preludere a misure che forse, per la prima volta, incideranno realmente su questo delicato argomento.

La terza indiziata per l’attuale aumento d
ei prezzi è la speculazione finanziaria sulle commodities alimentari compiuta attraverso lo strumento dei futures. Tre importanti banche tedesche, sotto la pressione dei propri clienti e delle ONG, hanno pubblicamente annunciato di avere rinunciato all’utilizzo di questo tipo di investimento, nato per proteggere produttori e venditori e diventato elemento di destabilizzazione del settore, complice un mercato finanziario globale senza regole e senza freni. La Francia, il Paese che da sempre, con la destra o con la sinistra al governo, ha spinto per l’adozione della Tobin Tax, potrebbe spendersi perché, oltre a mettere sotto controllo il mercato del biocombustibile, si tolgano dal paniere finanziario i derivati sugli alimenti di base.

Sarebbero piccoli grandi passi verso il tanto agognato, ma sempre sabotato, governo mondiale dell’economia: almeno per quanto riguarda le regole e la salvaguarda dei settori vitali, come sono l’acqua, la terra e il cibo. Il G8 non ci aveva mai nemmeno provato. Ora è il turno del G20, nel quale siedono sì i più grandi produttori mondiali di alimenti, ma anche Paesi a rischio carestia qualora i prezzi della farina impazzissero. Sarà interessante capire se su alcuni punti basilari, come il diritto all’alimentazione dell’umanità, stia o meno prendendo forma un nuovo equilibrio, un nuovo assetto che preannunci la fine di questa lunga transizione economica dovuta alla crisi delle potenze dell’800.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)


Nei suoi scarsi 12 anni di vita, Il G20 è ormai diventato il vertice mondiale che rappresenta i nuovi equilibri del potere economico mondiale.  Un gruppo di 19 nazioni più l’Unione Europea che ospitano due terzi dell’umanità e l’80% del PIL mondiale, nato per coordinare le politiche macroeconomiche e che ha mandato in soffitta il vecchio club euro-americano del G8. Tra l’altro, se il G8 dovesse tornare in vita, ci sarebbero delle sorprese, con l’esclusione di Italia e Canadasuperati da Cina e Brasile. In questo nuovo scenario, l’ONU si dimostra sempre di più un contenitori svuotato, o mai riempito, di ogni potere decisionale da utilizzare per le cause perdute e per dare diritto di tribuna ai piccoli paesi. Ma tanto vale, anche se il G20, come ancor di più prima il G8, provoca una forzatura delle regole democratiche che vorrebbero che ogni stato abbia voce nel concerto internazionale, i suoi membri rappresentano una platea vastissima e sono infatti i protagonisti dell’economia mondiale. Finita la pessima presidenza francese del gruppo, il ruolo di coordinamento passa al Messico, ed è la prima volta che una responsabilità di questo genere passa a un paese dell’ex Terzo Mondo. Il Messico però non è in grado di incidere sui grandi cambiamenti in corso. E’ un paese che ha deciso negli anni ’90 di consegnare la sua sovranità economica e politica agli Stati Uniti e che vive da 10 anni in uno stato di guerra civile strisciante aggredito dai potenti cartelli della droga. Chi comanderà quindi il G20 nei prossimi messi e quali interessi rappresenterà? Con grandissima probabilità vedremo un G20 sempre più influenzato dall’asse USA-Cina e con il Brasile in posizione preminente.  L’Europa è prevedibile che sarà sempre di più, almeno nell’immediato, ripiegata sui propri problemi  economici e finanziari diventati ormai un macigno che rischia di affondare l’euroe di conseguenza lo stesso disegno europeista. Il G20 sotto la guida messicana diventerà sempre più “liberista” in diverse materie, ma tutelando, almeno per ora, gli interessi commerciali e le barriere protezionistiche statunitensi. Fino a pochi anni fa le liberalizzazioni erano il cavallo di battaglia dell’Europa e degli USA, che volevano tutelare le loro politiche protezionistiche, ma spingevano il resto del mondo a spalancare i propri mercati. Ora il gioco si è rovesciato e sono Cina, India, Brasile a spingere perché le loro merci possano entrare liberamente sui ricchi mercati del nord. Dal punto di vista politico, i pesi interni saranno determinati dal ruolo che potrà giocare l’Europa nel suo insieme. Senza un’Europa unita, i paesi del vecchio continente rischiano di diventare ininfluenti, mentre per gli Stati Uniti si porrà molto presto il dilemma di allentare gli storici legami con la Vecchia Europa per stringere accordi con la Cina, il suo principale creditore. Il peso specifico economico e demografico della Cina, e prestissimo anche dell’India, sarà determinante negli equilibri futuri e, come afferma il Prof Chanda della Yale University, la globalizzazione che ci aspetta sarà molto diversa di quella che abbiamo finora conosciuto. A partire dal nome, non più globalizzazione ma bensì “asiatizzazione”. Alfredo Somoza per Esteri – Popolare Network

Sarà per la crisi, sarà che la crisi colpisce per la prima volta l’Europa, ma quanto sta succedendo a Cannes rimarrà nella storia delle relazioni internazionali. Per la prima volta è chiaro e lampante che il G8 è morto e che il G20 è diventato il nuovo governo del mondo, almeno nelle intenzioni dei partecipanti. Il vecchio G8 aveva un copione fisso: si discuteva delle tensioni monetarie tra i Grandi, si sancivano le politiche che l’FMI avrebbe applicato ai paesi del terzo mondo e poi, all’ora di cena, si faceva sfilare qualche presidente latinoamericano o africano tanto per dare un po’ di colore al cocktail. Un direttorio a tutti gli effetti, un club ristretto dei paesi che detenevano contemporaneamente il potere militare, quello economico e quello finanziario.

Il G20 è quindi un primo e importante superamento di questa logica post coloniale. In esso sono rappresentate tutte le potenze emergenti e alcune che in futuro lo saranno. Sono rappresentati i vari continenti e non c’è da pagare il prezzo dell’adesione al pensiero unico in materia economica per avere il biglietto d’ingresso. Il G20 è soprattutto un gruppo di paesi che rappresenta ben oltre metà dell’umanità e quindi infinitamente più democratico del G8, un forum plurale nel quale non esiste l’unanimismo neoliberale.

A Cannes si sta consumando da una parte una sorta di riparazione storica e dall’altra, per la prima volta in un vertice di questo tipo, risuonano idee progressiste non lontane dalle parole d’ordine dei movimenti. Riparazione storica perché, ora che tocca all’Europa, tornano in campo ipotesi di riforma delle politiche del FMI, di solito recessive e punitive, e dei pesi politici all’interno dell’organismo multilaterale. E’ anche un momento di protagonismo per i latinoamericani, forti dell’esperienza di passati default e crisi economiche. Dilma Roussef, presidente del Brasile, ha affermato che se si pensa di uscire dalla crisi licenziando lavoratori e massacrando la spesa sociale non si è capito nulla. L’argentina Cristina Kirchner, che per prima cosa ha voluto incontrare i sindacati europei, fa oggi appello a “un capitalismo serio” per cambiare questo “anarcocapitalismo finanziario dove nessuno controlla nulla”, mentre il presidente messicano sostiene l’idea di introdurre la tobin tax, ma solo se insieme alla chiusura dei paradisi fiscali che per la maggior parte battono bandiera britannica.

Basta guardare in video il volto di Sarkozy ieri sera mentre aspettava infastidito il premier cinese in ritardo, forse voluto, per capire che il club non è quello di prima. Chi era ricco ora chiede aiuto e chi era povero non solo lo offre, ma ha anche delle ricette da proporre e dei consigli da dare. Una volta si sarebbe detto “il mondo alla rovescia”, ma invece dovremo abituarci in Europa al fatto che questo è già ormai il mondo in cui viviamo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

 

 

Negli anni Ottanta era la bestia nera dei movimenti che in tutto il mondo si battevano per una soluzione al problema del debito estero dei Paesi in via di sviluppo e veniva dipinto come un direttorio, nato all’indomani degli accordi di Bretton Woods del 1944, a tutela del ruolo del dollaro USA quale moneta di riferimento per gli scambi mondiali: stiamo ovviamente parlando del Fondo Monetario Internazionale, che da statuto doveva occuparsi di garantire la stabilità monetaria mondiale e favorire gli scambi commerciali. In realtà esso era diventato il guardiano degli interessi degli Stati più industrializzati, imponendo ricette recessive ai Paesi indebitati e classificando i governi in buoni e cattivi, sempre a senso unico.

Questo perché il suo meccanismo di governo, che non prevede la formula “una testa-un voto”, assegna la maggioranza a un gruppo di Stati europei, al Giappone e agli USA, in base al capitale versato.

Da organismo di regolamentazione delle valute a club dei creditori e superministero dell’economia mondiale il passaggio è stato breve.

I Paesi indebitati, a esclusione di quelli che detenevano la maggioranza dei voti del FMI come gli Stati Uniti stessi, si sono visti imporre le famigerate “ricette” del FMI, cioè piani di aggiustamento strutturale perfettamente allineati con i dettami della dottrina neoliberalista in economia, che hanno portato al ridimensionamento della spesa sociale e previdenziale e alle privatizzazioni dei beni pubblici. Ne sono state vittime in questi decenni realtà come Indonesia, Ecuador, Messico, Egitto, Thailandia e decine di altri Paesi che hanno dovuto cedere la propria autonomia in materia economica ai tecnocrati designati dal FMI.

C’è una data simbolica a partire dalla quale le cose hanno iniziato a cambiare, seppur lentamente: dicembre 2001, quando l’Argentina dichiarò il default malgrado le attenzioni decennali che le erano state riservate da parte del Fondo Monetario. In quei mesi si cominciò a parlare di “uscita dal FMI” come unica possibilità per cambiare le cose. Negli anni successivi si è fatta avanti anche un’altra linea, sostenuta dal Mercosur: provare a estinguere i debiti verso il FMI e puntare a contare di più all’interno della sua assemblea, aumentando il capitale versato.

Questa politica ha portato qualche giorno fa all’annuncio in seno al G20 di un’imminente riforma dell’istituzione monetaria. Una riforma che sottrarrà due posti all’Europa per assegnarli ai Paesi del BRIC (Brasile, Russia, Cina e India) e al riequilibrio dei meccanismi di voto in base a una ricapitalizzazione (la quale porterà, per esempio, India e Cina ad accrescere del 6% le proprie quote).

Questo cedimento dei “Grandi” non è dovuto a un tardivo rigurgito democratico, ma alla consapevolezza che o si allarga il tavolo delle decisioni oppure non esistono possibilità di trovare una soluzione ai problemi globali.

Un equilibrio nuovo, che ora tutti cominciano a voler raggiungere e che potrebbe far voltare definitivamente pagina rispetto all’eredità del colonialismo e delle navi cannoniere.