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C’è un filo conduttore che collega la sottrazione di terre all’Africa all’appassionato dibattito sul riutilizzo degli avanzi alimentari in Europa. In questi primi mesi di Expo2015 al land grabbing non si è nemmeno accennato: e infatti l’argomento risulta assente dalla Carta di Milano, insieme alla speculazione finanziaria sulle materie prime. Un tema che scotta, del quale nessuno vuole parlare… Eppure molti espositori lo conoscono benissimo, visto che diversi Stati presenti a Rho sono grandi accaparratori di terre africane.

In base a una lettura volutamente parziale delle dichiarazioni di papa Francesco, molto si è invece dibattuto sul come distribuire ai poveri l’invenduto dei supermercati. Non che non sia vergognoso il fatto che circa il 30% degli alimenti pronti per il consumo vada sprecato, ma il problema vero, anche in questo caso, è un altro. Un terzo degli alimenti finisce in pattumiera, infatti, solo nei Paesi nei quali si è spinto l’acceleratore del moderno agribusiness, dove spesso si produce non solo di più, ma anche male: perché la produzione non serve per soddisfare il bisogno dei consumatori ma per incassare sovvenzioni, fare guerre commerciali, imporre mode alimentari. Difficilmente in Africa, Asia meridionale o America centrale si produce più di quanto si consuma. Anzi, lì spesso si produce molto di meno, dato che una parte crescente delle loro terre agricole viene utilizzata per produrre alimenti e biocombustibili destinati al mondo ricco: che poi non riesce nemmeno a consumarli tutti.

Distogliendo l’attenzione dalle cause per concentrarsi solo sugli effetti si arriva a soluzioni “umanitarie”, di buon senso, che però non risolveranno mai il problema a monte. Non porteranno, cioè, a una politica mondiale che stabilisca le priorità nella produzione di cibo, che imponga regole precise sul suo costo e sui suoi impatti. Non è sostenibile, per esempio, il mercato delle primizie che viaggiano in aereo da un angolo del mondo all’altro per garantire ai consumatori ricchi pere, ciliegie o mirtilli dodici mesi all’anno. Non è possibile che, quando un Paese dà in concessione terreni agricoli a soggetti esteri, la FAO non intervenga a certificare che la sicurezza alimentare di quel Paese sia comunque garantita, e che le concessioni non la mettano a rischio. Non è sensato che il consumatore, quando compra prodotti provenienti da migliaia di chilometri di distanza, non sia chiamato a pagare il costo ambientale di quella merce.

Sono tanti i nodi irrisolti e i problemi in via di peggioramento, quando si pensa al tema del cibo… Ma ci raccontano che basta il riciclo degli sprechi per porvi rimedio. Una versione di comodo per le multinazionali del cibo e dell’agricoltura, quelle che occupano gli spazi più in vista a Expo. Imprese che si accaparrano licenze sulle sementi, sono grandi gestori dell’acqua, impongono modelli di consumo basati sulla carne rossa, la più dannosa per la salute e la più “costosa” per l’ambiente, anche se italiana. Questi gruppi oggi tengono in pugno l’agenda del cibo e buona parte della politica accetta la loro narrazione. È questo il segreto (di Pulcinella) da non far sapere al contadino…

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Alla fine dell’estate è diventata una triste consuetudine occuparsi della fiammata dei prezzi degli alimenti di base. Quest’anno è complice la siccità straordinaria che ha colpito il Midwest statunitense, distruggendo oltre metà del seminato a mais. E pure in Europa le scarsissime precipitazioni di agosto hanno portato a un calo del 30-40% dei raccolti di soia e mais. Il cambiamento climatico anno dopo anno si conferma un fenomeno con il quale dobbiamo fare i conti, sia per le conseguenze sulle persone e sulla natura sia per gli effetti sull’economia.

Ma anche lasciando da parte la contingenza climatica, l’emergenza sui prezzi delle commodities agricole costituisce ormai più la regola che l’eccezione. E questo per una serie di questioni che hanno a che fare con la cultura dei consumi, con l’energia e con la speculazione finanziaria. Andando in ordine, l’aumento del reddito di centinaia di milioni di persone, soprattutto nei Paesi BRIC, ha portato a una maggiore domanda di carne, che in Brasile, Indonesia o Cina, da lusso per pochi è diventata un cibo di normale consumo. La domanda di mangime per gli allevamenti di manzi, suini e volatili è cresciuta vertiginosamente nell’ultimo decennio e questo è il primo motivo per il quale la disponibilità di mais e soia per uso umano è calata.

Il secondo grande tema riguarda i cosiddetti biocombustibili, che sulla carta dovrebbero abbassare i livelli di emissioni di CO2. Entro il 2020 il combustibile in vendita nei Paesi europei dovrebbe contenere almeno il 10% di biofuel, ma già si parla di ridurre la quota al 5%: autorevoli studi scientifici hanno dimostrato un legame tra la diffusione di questi carburanti e le sempre più frequenti impennate dei prezzi degli alimenti. È stato calcolato inoltre che il loro impiego genera più CO2 di quella prodotta da pari quantità di benzina e gasolio “tradizionali”. Facile comprendere le ragioni di entrambi i fenomeni, se si tiene conto della deforestazione compiuta in Africa, Asia e America Latina per espandere le coltivazioni di canna da zucchero, mais e olio di palma, che sono le regine dei biocombustibili. Tutte produzioni, oltretutto, sottratte all’alimentazione umana, per quanto vi siano fonti vegetali non concorrenziali con la produzione di cibo, come gli scarti agricoli e la jatropha. Un recente rapporto della ONG britannica Oxfam, infatti, ha calcolato che, nel 2008, i terreni utilizzati per produrre biocombustibili avrebbero potuto nutrire 127 milioni di persone in un anno.

Il 16 ottobre a Roma vedremo al lavoro per la prima volta il Forum di risposta rapida per l’emergenza alimentare, istituito in seno al G20 un anno fa e presieduto dalla Francia. L’annuncio del dimezzamento dell’obiettivo del 10% di biocombustibili nell’Unione Europea potrebbe preludere a misure che forse, per la prima volta, incideranno realmente su questo delicato argomento.

La terza indiziata per l’attuale aumento d
ei prezzi è la speculazione finanziaria sulle commodities alimentari compiuta attraverso lo strumento dei futures. Tre importanti banche tedesche, sotto la pressione dei propri clienti e delle ONG, hanno pubblicamente annunciato di avere rinunciato all’utilizzo di questo tipo di investimento, nato per proteggere produttori e venditori e diventato elemento di destabilizzazione del settore, complice un mercato finanziario globale senza regole e senza freni. La Francia, il Paese che da sempre, con la destra o con la sinistra al governo, ha spinto per l’adozione della Tobin Tax, potrebbe spendersi perché, oltre a mettere sotto controllo il mercato del biocombustibile, si tolgano dal paniere finanziario i derivati sugli alimenti di base.

Sarebbero piccoli grandi passi verso il tanto agognato, ma sempre sabotato, governo mondiale dell’economia: almeno per quanto riguarda le regole e la salvaguarda dei settori vitali, come sono l’acqua, la terra e il cibo. Il G8 non ci aveva mai nemmeno provato. Ora è il turno del G20, nel quale siedono sì i più grandi produttori mondiali di alimenti, ma anche Paesi a rischio carestia qualora i prezzi della farina impazzissero. Sarà interessante capire se su alcuni punti basilari, come il diritto all’alimentazione dell’umanità, stia o meno prendendo forma un nuovo equilibrio, un nuovo assetto che preannunci la fine di questa lunga transizione economica dovuta alla crisi delle potenze dell’800.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)