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Da mesi la diplomazia europea e quella statunitense stanno lavorando con incontri riservati a un accordo quadro per gli scambi di capitali, merci e servizi tra gli Stati Uniti e l´Unione Europea. Il più grande accordo di tutti i tempi, secondo il Sole 24 Ore, finora praticamente l´unico tra i grandi media a seguire la trattativa.

Davanti all´impantanamento della trattativa globale in ambito WTO (il cosiddetto Doha Round), questo accordo stabilisce nuove regole ultraliberiste all´interno dell´area del pianeta in cui “girano” quasi due terzi dell’economia mondiale. Secondo i negoziatori (ma nessuno sa chi siano né quale mandato abbiano ricevuto), dovrebbe portare enormi vantaggi a entrambi i partner, e in particolare all´Europa, con un aumento degli scambi e incrementi del PIL e dell´occupazione.

Ma il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership, questo il nome dell’accordo – è qualcosa di più di un semplice negoziato di liberalizzazione commerciale. Rimette in discussione ancora una volta il primato della politica, e quindi della democrazia, nei confronti dei poteri forti dell´economia. Se venisse approvato dal Parlamento europeo e da quello statunitense, andrebbe infatti a incidere sui diritti del lavoro e dell’ambiente e anche su quelli di cittadinanza.

Il primo obiettivo infatti non saranno le barriere tariffarie, già abbastanza basse, bensì quelle “non tariffarie”, che riguardano gli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l´omologazione delle normative porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti in Europa, molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce.

Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l´acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l´acqua è una merce come un´altra. Il nocciolo dell´accordo, che si vorrebbe chiudere entro il 2014, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata, grazie alla costituzione di un organismo di risoluzione delle controversie al quale le aziende potranno appellarsi per rivalersi su governi colpevoli, a loro dire, di averle ostacolate. Da questo punto di vista, qualsiasi regolamentazione pubblica rischierà di essere messa in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati.

Non è la prima volta che si cerca di concludere un accordo di questo tipo. Già negli anni ’90 qualcosa di simile fu respinto (l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti); e anche nelle Americhe naufragò l´ALCA proposto da George W. Bush ai Paesi latinoamericani, basato sugli stessi principi.

Uno dei settori più delicati che potrebbero essere modificati dall´accordo TTIP è quello dell´alimentazione, con l´impossibilità – per esempio – di vietare la diffusione degli OGM, perfettamente legali negli Stati Uniti. Ma anche l´uso di ormoni nell’allevamento o di pesticidi in agricoltura. E potrebbe venir meno il principio della tutela della diversità e della territorialità del prodotto.

Acqua, trasporti ed energia sono invece i settori nei quali sarebbe più alto il rischio di privatizzazione, e le comunità che si opponessero sarebbero passibili di denuncia davanti al tribunale competente. Sull´energia si pone anche il problema dell’estrazione dello shale gas (il gas di scisto) attraverso il cosiddetto fracking, cioè la frantumazione in profondità, che tante sciagure ambientali sta creando negli Stati Uniti. Il divieto esistente in Francia per questo tipo di estrazione potrebbe essere contestato dalle imprese che si ritenessero danneggiate. Anche le regole di tutela della privacy potrebbero essere contestate dai giganti statunitensi della comunicazione.

La vittima più clamorosa di questi accordi, però, sarebbe la democrazia. I cittadini, dalla firma dei trattati in poi, non avrebbero più potere di scelta autonoma in materia ambientale, economica e sociale perché vincolati a monte. Addirittura il diritto al lavoro potrebbe essere messo in discussione, se dovesse prevalere il diritto di assumere secondo le condizioni contrattuali degli USA, Paese nel quale non esistono contratti nazionali, e che non ha sottoscritto le normative antidiscriminatorie per motivi di genere o etnia.

Con il TTIP l´Europa, già duramente provata dalle politiche di austerity che limitano seriamente il margine di manovra dei governi nazionali, si avvicinerebbe sempre più al modello sociale ed economico statunitense. Una situazione già sperimentata dal Messico che nel 1994, sottoscrivendo gli accordi NAFTA con USA e Canada, ipotecò seriamente la sua sovranità politica ed economica. Oggi, tra il Messico che voleva diventare “socio” degli Stati Uniti e il ricco vicino del Nord si alza un muro controllato a vista.

L´Europa per fortuna non è il Messico. Ma se le logiche sono le stesse, anche noi rischiamo che l´originale modello universalistico dei diritti, costruito in decenni di lotte sociali, ambientali e sindacali, diventi storia passata. L´Europa “socia” degli Stati Uniti, a queste condizioni, metterebbe fine al sogno della costruzione di un´area di civiltà, valori condivisi e diritti reciprocamente riconosciuti. Ora l´ultima parola passa a una delle istituzioni più ignorate dai poteri forti: il Parlamento europeo, l´assise che oggi rappresenta l´unica istituzione comunitaria con un mandato democratico. Mandato che sarà rinnovato il prossimo 25 maggio. Praticamente l’ultima chiamata per salvare e cambiare la situazione, e per rilanciare il percorso dell’Europa su nuove basi, dicendo no da subito al TTPI.

Alfredo Luis Somoza (Candidato Circoscrizione Nord Ovest – Elezioni Europee 2014 – Lista Altra Europa con Tsipras)

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All’ombra del Partenone sta nascendo una forza politica e civile determinata a scardinare i modelli economici e sociali dell’Europa degli ultimi tempi. E’ la lista Tsipras, il soggetto politico che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras, leader del partito progressista greco Syriza, alla presidenza della Commissione UE. La lista, che sta ricevendo consensi crescenti anche in Italia, si propone di rivedere le politiche dell’Unione Europea seguendo i principi di uguaglianza, inclusione e sviluppo sostenibile. Parliamo del progetto Tsipras e del futuro dell’Europa con Alfredo Luis Somoza, giornalista, docente universitario, Presidente dell’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale di Milano.

Professor Somoza, vede un futuro politico concreto nella nascente lista Tsipras? Al di là della credibilità, crede che possa essere efficace sul piano politico?

«Credo che l’operazione della formazione della Lista Tsipras in Italia, diversa rispetto al resto dell’Europa, se manterrà le premesse di unitarietà e di superamento degli steccati ideologici, potrebbe avere successo. C’è una vasta area di sofferenza politica che nelle ultime elezioni si è riversato su diverse forze politiche, dal PD al M5S, da SEL all’astensione più che altro scegliendo il “male minore”. Il progetto di Tsipras potrebbe dare cittadinanza a un nocciolo di sinistra riformista e radicale che in qualche modo possa intercettare i delusi dell’evidente deriva centrista di quella che doveva essere la grande forza socialdemocratica italiana, il PD, ma che per ora ha deluso le aspettative.»

Vi sono in Italia, secondo lei, i presupposti per costruire una struttura politica seria intorno al progetto Tsipras? Se sì, di cosa c’è bisogno?

«Io preferirei fare un passo alla volta. Se si riesce a costruire una lista unitaria a sostegno di Tsipras sarà già un passo da giganti. Il resto andrà valutato dopo le elezioni europee, ma certamente aprirebbe nuovi orizzonti.»

Pur conservando profondi disuguaglianze, gli Stati Uniti sembrano riuscire, in qualche modo, a superare la crisi di questi anni. Questo recupero appare estremamente difficile in Europa. Quali sono, a suo parere, i motivi di questa differenza? Cos’è che blocca i Paesi europei?

Alfredo Luis Somoza

Alfredo Luis Somoza

«Gli Stati Uniti di America hanno concluso in pochi anni dalla nascita dell’Unione un percorso dal particolarismo al federalismo. Percorso che in Europa per ora è stato interrotto. Negli Stati Uniti esiste un Presidente della Federazione con vasti poteri, un Parlamento federale, una Suprema Corte e una banca Centrale alle quali sono state delegate dagli Stati poteri esclusivi. Da noi, il processo di unificazione europea ha subito un’accelerazione sul piano economico, con la nascita dell’euro e della BCE, e un rallentamento che rasenta la paralisi sul piano politico e sociale. Così come esistono politiche vincolanti per i paesi membri in materia ambientale e finanziaria, non esiste ancora una politica di difesa comune, una strategia sull’immigrazione, un welfare europeo, uno standard retributivo europeo. Il problema della costruzione europea è proprio questa sospensione, questo prevalere della visione dell’economia rispetto a quello della società.  La FED statunitense ha appena varato una politica di restringimento della base monetaria per favorire gli investimenti negli Stati Uniti. A differenza della BCE, ci si pone il problema dell’occupazione. Il governo Obama, in materia economica, sta applicando con successo politiche keynesiane di stimolo economico a partire dall’investimento pubblico su innovazione e ricerca, sulla fiscalità  e sul sostegno diretto al comparto industriale. Nell’Europa sospesa questi interventi sono utopistici. Questa è la sua debolezza principale.»

Cosa pensa della crescita di consensi che vede protagonisti movimenti estremisti e populisti in tanti Paesi d’Europa? Quali sono le cause di questo fenomeno, a suo avviso?

«I movimenti populisti si fanno forti di una cultura politica che si è man mano degradata negli anni. Il vituperio, l’insulto, la rissa, sono stati sdoganati dalla televisione come forme della politica e hanno portato all’equivoco che “parlare chiaro” sia “parlare giusto”. Le ricette semplici e brutali dei populismi sono comprensibili, e quindi diventano possibili per coloro che non capiscono il politichese, diffidano di una politica diventata classe e si sentono vicini a chi promette soluzioni semplici e radicali. I populismi europei, con poche eccezioni, non sono ideologizzati, ma potrebbero diventarlo presto. E’ un percorso che si è già verificato nella Germania di Weimar con tragici risultati.»

In che modo l’Italia può contribuire al cambiamento dell’Unione? Pensa, insomma, che un Paese “da solo” possa avere la forza tale da imporre una linea alternativa?

«L’Italia è uno dei soci di maggioranza dell’Europa. Togliendo la Gran Bretagna, che più che membro sembra un critico dell’UE, l’Italia condivide con Germania e Francia le principali responsabilità. Per questo è stata criminale la latitanza dell’Italia dai tavoli europei durante il ventennio berlusconiano. Una latitanza che ancora paghiamo con un calo del nostro prestigio e della nostra capacità di incidere. I deputati che eleggerà l’Italia il prossimo 25 maggio dovranno battere i pugni sul tavolo, ma non per esigere privilegi, ma perché il processo che dovrebbe portare agli Stati Uniti d’Europa riparta, e soprattutto perché le regole imposte con le politiche di cosiddette austerity tornino ad avere una logica anzitutto economica. Di sola austerità si muore, e questo lo sanno benissimo gli economisti e i politici che hanno ideato e approvato queste regole. Basta guardare i passi di USA e Giappone per uscire dalla crisi, ma anche della Cina, per capire che non esiste più, per fortuna,  un pensiero unico in materia economica, per quanto in Europa qualcuno ne sia ancora convinto.»

Il numero di giovani d’Europa costretti a trasferirsi in un altro continente aumenta. Come immagina l’Europa tra 10 anni? C’è una speranza per i giovani europei?

«Nell’ambito del mio lavoro mi capita spesso di trovare giovani italiani alla ricerca di lavoro in mondi  lontani (Brasile, Argentina, Mozambico). E’ un ritorno al passato per l’Italia, ma a differenza dei tempi dei nostri nonni e dell’emigrazione di massa, oggi c’è l’Europa. Un progetto che solo i giovani di oggi potranno realizzare o fare fallire. L’Europa unita sarebbe un interlocutore di primissimo ordine a livello globale, l’unica area al mondo che si caratterizza per avere non solo interessi comuni ma anche valori comuni. Un’Europa portatrice di valori sui diritti umani, sulla parità di genere, sul welfare. Di questa Europa si ha bisogno nel mondo. Per questo, il principale successo per la generazione dei giovani di oggi è quella di realizzare finalmente i sogni dei padri fondatori.»

Il lobbismo è un’azione esercitata da gruppi economici o da corporazioni su pubblici funzionari, su uomini politici e sulle istituzioni pubbliche per orientarne a proprio vantaggio le decisioni. È un’attività regolamentata da leggi negli Stati Uniti e a livello di Commissione Europea, ma non in Italia. Nel passato le lobby hanno influenzato la grande storia e la geografia. Lo fece, per esempio, la lobby britannica dell’oppio nell’800, quando la Cina non volle autorizzare sul proprio territorio lo smercio della droga proveniente dalle coltivazioni indiane. Il rifiuto fu superato con le due Guerre dell’Oppio: le truppe di Sua Maestà piegarono il Celeste Impero e diedero il via all’espansione dell’alcaloide in Cina e poi nel resto del mondo. Hong Kong, un souvenir di guerra, divenne la base dalla quale i gruppi commerciali inglesi controllarono a lungo l’economia del gigante asiatico.

Altre lobby – decisamente a noi più vicine – sono quelle del tabacco, del gioco d’azzardo, dell’alcol e delle armi. Tutti prodotti che hanno gravi conseguenze sulla salute umana e, nel caso delle armi, anche sul mantenimento della pace nel mondo. Oggi in Europa una delle lobby più attive è però un’altra: quella delle grandi imprese dell’agrobusiness transgenico. Portano avanti una battaglia perché anche il mercato agricolo europeo si apra agli OGM, affrontando le resistenze della normativa comunitaria in materia di sicurezza alimentare: l’UE, applicando il principio di cautela, finora è riuscita ad arginare la produzione e la commercializzazione di prodotti transgenici. Un divieto in realtà più volte aggirato e che, tra l’altro, non riguarda l’alimentazione animale: con il risultato che buona parte del bestiame nostrano è alimentato con i 41 milioni di tonnellate di soia transgenica ogni anno importata in Europa.

Oggi la diga sta cedendo. Pur tra mille polemiche, la variante OGM Mon810 di mais, prodotta dal colosso statunitense Monsanto, è già legalmente coltivata in Europa. La lotta degli ambientalisti e dei consumatori anti-OGM contro le multinazionali ha però ottenuto un risultato notevole. Infatti la stessa Monsanto, numero uno del settore, ha ritirato la domanda con cui chiedeva alle autorità comunitarie di poter commercializzare altri tipi di sementi OGM nell’UE. Ufficialmente per le resistenze dei consumatori europei a questi prodotti, ma molto probabilmente perché il settore ha cambiato strategia e si prepara a una battaglia di lunga durata.

E qui tornano le lobby. I principali lobbisti del transgenico sono oggi gli scienziati che in nome della ricerca affermano, forse a ragione, che finora non sono stati rilevati problemi alla salute dovuti al consumo degli OGM. Altro argomento “forte” è che, attraverso la manipolazione genetica, si possono aumentare le proprietà vitaminiche di alcune specie per combattere la malnutrizione in Africa. Si tratta di argomenti sicuramente interessanti, ma che eludono il problema centrale.

Il problema fondamentale, infatti, non è la qualità intrinseca del prodotto OGM, bensì la natura del complesso industrial-agricolo che pratica le coltivazioni transgeniche. Là dove si è diffusa (Stati Uniti, Brasile, Argentina), l’agricoltura OGM ha eliminato la piccola proprietà, ridotto al minimo l’impiego di manodopera, ammazzato la biodiversità, costretto i coltivatori a una dipendenza mai esistita nei confronti dell’azienda produttrice. Un’agricoltura senza agricoltori insomma.

Ed è proprio questo il punto che la lobby pro-OGM non vuole che si discuta: perché in questo caso le prove da contrapporre ai benefici portati dalle coltivazioni biotech sarebbero schiaccianti. In Europa, unico continente al mondo, per ora queste lobby hanno trovato un ostacolo insormontabile nei movimenti ambientalisti e contadini, ma soprattutto nell’opinione pubblica. Sarà quindi proprio sui cittadini che esse si concentreranno nei prossimi anni, con un paziente lavoro finalizzato a convincerli che un mondo con una decina di specie alimentari coltivabili – registrate e commercializzate da 4 aziende – sia un mondo migliore e più sicuro.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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A seguito delle denunce di questo blog e di Unimondo.org, è stata presentata un’interrogazione parlamentare da parte di 5 deputati di SEL (Sinistra, Ecologia e Libertà) al Ministro degli Esteri Emma Bonino.

Questi gli articoli usciti sul tema e il testo dell’interrogazione:

Repubblica

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/11/news/sel_portaerei_cavour-70777486/?ref=HREC1-4

Info Cooperazione

http://www.info-cooperazione.it/2013/11/il-sistema-italia-decolla-dalla-portaerei-cavour/

Huffington Post

http://www.huffingtonpost.it/2013/11/11/marina-militare-sel-denuncia-eccellenze-africa-armi_n_4254723.html?utm_hp_ref=tw

Comunicato Stampa di SEL

http://www.sinistraecologialiberta.it/notizie/sel-denuncia-la-marina-militare-porta-le-eccellenze-italiane-in-africa-ma-sono-armi/

Testo dell’interrogazione

http://www.sinistraecologialiberta.it/wp-content/uploads/2013/11/int.-Bonino.pdf

Grazie ai lettori del blog per la mobilitazione che ha portato all’attenzione pubblica quest’azione di marketing degli strumenti di guerra in Africa con mezzi dello Stato che rischiava di passare inosservata.

cavour

Le vie del made in Italy sono infinite. La rotta del Gruppo Navale Cavour, che per 5 mesi circumnavigherà l’Africa e il Golfo Persico portando in giro le “eccellenze italiane”, è l’ultima trovata delle Forze Armate per dimostrare all’opinione pubblica l’utilità di continuare a mantenere costosi sistemi d’arma e personale ben pagato e garantito in nome dell’”umanitario” e, novità assoluta, del sostegno al “made in Italy”. La missione “Sistema Paese in movimento” della portaerei Cavour, nave ammiraglia della flotta militare italiana, ha un costo stimato di 20 milioni di euro. Soldi spesi per fare vedere la bandiera che in tempi di austerità diventano però tanti. Scatta quindi l’idea geniale: trovare sponsor privati per finanziare parte dello sforzo economico. E quali sono le aziende che sponsorizzano il tour  nei Paesi del Golfo e Africa della portaerei? Alcune multinazionali (come Ferrero e Pirelli) più interessate probabilmente a sostenere operazioni di marketing dello Stato che ai potenziali mercati, e tante imprese, anzi la quasi totalità del comparto bellico, che indubbiamente hanno interessi primari in quei paesi nei quali instabilità, conflitti e guerre sono il pane per chi vende armi. Oto Melara, Finmeccanica, Fincantieri, Beretta, Telespazio, Agusta Westland e altri potranno allestire sulla Cavour una fiera campionaria del bellico “porta a porta” a buon mercato. L’ultimo tassello dell’operazione è la partecipazione di 3 onlus “umanitarie” che nelle tappe si occuperanno di visitare bambini affetti da problemi oculistici e altro. La fondazione Francesca Rava si spinge a qualificare questa missione militar-commerciale come “missione umanitaria della Marina Militare italiana”, offrendo quella copertina, sempre più corta, che permette di addolcire  gli interessi del settore bellico e delle forze armate.

La contaminazione avvenuta negli ultimi anni tra militare e umanitario è stata utile a giustificare l’enorme spesa che l’Italia continua a destinare alla Difesa perché “serve al mantenimento della pace”. Uno sforzo economico che ad esempio continua a garantire una presenza in Afganistan al di fuori da qualsiasi logica politica o militare, la partecipazione al traino di Gran Bretagna e Francia allo smantellamento della Libia e soprattutto la sopravvivenza di una delle vere caste dell’Italia, i militari di carriera. Nel mondo delle ong il dibattito su come e quanto collaborare con le forze armate è all’ordine del giorno, ma il problema riguarda il paese tutto in quanto la Difesa è una competenza “forte” che risucchia ingenti risorse. La domanda da porsi è quanto sia lecito fare diventare i militari ambasciatori del made in Italy e quanto sia lecito, utilizzando mezzi dello Stato, promuovere la produzione bellica nazionale in quei paesi segnati da conflitti in corso o potenziali. Tutto ciò di fronte al costante e progressivo svuotamento della cooperazione allo sviluppo, vero strumento di costruzione di partenariato economico e di pratiche di pace, ormai praticamente senza finanziamento né strutture. Il governo Berlusconi aveva tentato di fare diventare gli ambasciatori italiani “venditori del made in Italy”, posizione discutibile ma non estranea ai compiti affidati alla diplomazia. Ora gli ambasciatori avranno le stellette e la merce che venderanno sarà sicuramente quella che conoscono meglio.

 

sistema paese

Correva l’anno 1888 e il Brasile aboliva la schiavitù. Era l’ultimo Paese americano a farlo: chiudeva così un capitolo vergognoso della sua storia, lungo più di quattro secoli. Improvvisamente le campagne si svuotarono, gli impianti per la spremitura della canna da zucchero rimasero senza braccia, le piante di caffé senza cure. Gli ex schiavi fuggirono dai luoghi dove avevano conosciuto solo fame e frustate per accalcarsi nelle città, alla ricerca di un lavoro salariato e di nuove possibilità. Speranze che, purtroppo, erano spesso destinate a svanire nel nulla.

Il Brasile di fine Ottocento doveva dunque risolvere il problema della manodopera rurale. La soluzione abitava in Italia, più precisamente in Veneto, dove gli agenti del governo carioca trovarono un popolo cattolico e mansueto disposto a tutto per fuggire dalla fame. Furono un milione e mezzo gli italiani che nei successivi 40 anni si recarono in Brasile, e altri tre milioni navigarono fino alla vicina Argentina. Un esodo biblico si direbbe oggi, da far impallidire qualsiasi sbarco mai avvenuto a Lampedusa. Il resto della storia lo conosciamo: gli oriundi italiani nel mondo sono stati capaci di conquistarsi ruoli di tutto rispetto nelle diverse società che li hanno accolti.

Solo a partire dal 1970 il saldo migratorio italiano è diventato positivo. Fino a quel momento, a partire dall’inizio del secolo, l’Italia era stata terra di emigranti; nel 1970 invece, il numero degli immigrati ha cominciato a superare quello di chi lasciava il Paese per cercare fortuna altrove. L’Italia si era trasformata in una potenza economica, mentre molti degli Stati che un secolo prima avevano ospitato europei in fuga erano diventati a loro volta luoghi dai quali si scappava, per motivi politici o economici.

Altro giro di ruota, e negli anni 2000 i Paesi emergenti cominciano a conquistare un ruolo da protagonisti sulla scena globale. Nel 2011, dopo la Cina, il Brasile entra nel gruppo delle prime potenze mondiali superando il PIL di Italia e Regno Unito. Com’è noto, per capire la situazione economica di uno Stato non bastano i macroindicatori che fotografano il momento, come appunto il dato del prodotto interno lordo. Bisogna osservare anche le tendenze e i fenomeni a lungo termine. Da questo punto di vista il Brasile è un Paese in piena crescita: ha da poco ottenuto un upgrade da Standard & Poor’s e ha un bisogno urgente di figure professionali specializzate.

Per questa ragione il governo di Dilma Roussef sta mettendo a punto una legge che faciliterà l’immigrazione e che dovrebbe consentire a 400mila professionisti stranieri altamente qualificati, preferibilmente europei disoccupati, di lavorare nelle imprese brasiliane. In Italia per ora ne hanno parlato soltanto Esteri e Il Sole 24 ore, ma la notizia è carica di significati. Nel primo semestre 2012 il numero di immigrati approdati nel gigante sudamericano è cresciuto del 52,4%; il motore di ricerca lavoro Monster conta 80mila curricula di professionisti europei che si rivolgono al mercato brasiliano.

Per quanto riguarda l’Italia, a spingere molti a guardare nuovamente verso l’America Latina non sono soltanto i legami migratori storici con il Brasile, ma anche la crisi economica e le scarse prospettive di impiego. Certo oggi non è facile pensare di tornare a navigare le vecchie rotte dell’emigrazione; eppure la veloce industrializzazione di zone fino a ieri poverissime (come il Pernambuco, dove la Fiat sta aprendo la sua quarta fabbrica brasiliana) genera una domanda di manodopera qualificata e di tecnici di alto livello che in quelle terre non è disponibile, mentre in Italia la stessa manodopera viene lasciata per strada dalle aziende in crisi.

Se gli italiani torneranno davvero a emigrare in Brasile si ripeterà un ciclo storico che sembrava chiuso per sempre. La crisi economica che sta riscrivendo il nostro futuro si prepara a regalarci un’altra grande sorpresa.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Claudio, Fava, Laura Boldrini, Alfredo Somoza alla presentazione di Mar del Plata, 16 luglio 2013 Teatro Franco Parenti

Claudio, Fava, Laura Boldrini, Alfredo Somoza alla presentazione di Mar del Plata, 16 luglio 2013 Teatro Franco Parenti

 

 

Armando Spataro e Enrico Calamai alla presentazione di Mar del Plata, 15 luglio 2013. teatro Franco Parenti

Armando Spataro e Enrico Calamai alla presentazione di Mar del Plata, 15 luglio 2013. teatro Franco Parenti

Presentazione Mar del Plata. Teatro Franco Parenti, Milano 15 luglio 2013

Estratto del Verbale della seduta del Consiglio Comunale di Arcore del 17 aprile 2013-06-19.

 Intervento a favore della proposta di Delibera di Iniziativa Popolare “Cittadinanza onoraria ai bambini nati in Italia figli di stranieri e residenti ad Arcore”.

PROFESSOR SOMOZA ALFREDO LUIS

 

Grazie Presidente. Voglio ringraziare tutti voi, i cittadini di Arcore che hanno firmato queste proposte, il Consiglio Comunale, la Giunta, perché da due ore in quest’Aula stiamo parlando di temi “alti”, temi dimenticati dalla politca nazionale, ma che  riguardano tutti noi.

La cittadinanza e il cittadino sono gli atti fondanti di una Repubblica, non c’è cittadino senza Repubblica, non c’è Repubblica senza cittadino.

Quindi stiamo parlando di qualcosa di molto importante, per quanto, chiarisco subito, credo che tutti lo sappiate perfettamente, stiamo parlando di una proposta di delibera soltanto simbolica e quindi politica.

Io credo che la politica non deva essere patrimonio degli Stati centrali. Credo che gli Stati sempre di più siano lontani dal capire come cambia la società e che per questo motivo siano importanti le sollecitazioni che arrivano dai territori.

Noi questa sera stiamo scrivendo un pezzo di storia italiana, quando si ricorderà che la rivoluzione della cittadinanza, l’essere diventati Europei finalmente anche in Italia, non è partito da Roma, ma è partita dai territori.

Per questo motivo sono profondamente convinto dell’importanza delle autonomie locali e per questo motivo sono un convinto federalista.

La cittadinanza è fondamentalmente un rapporto tra lo Stato e una persona, costituito dalla concessione di uno status e da un rapporto giuridico.

“Io ti riconosco come cittadino”, quindi hai un tuo status giuridico e questo riconoscimento ha dietro di sé o ha dentro di sé tutta una serie di diritti specifici che ti riguardano. Diversi sono invece i diritti che qualsiasi Stato riconosce a chi è straniero o a chi è apolide, cioè a chi non ha cittadinanza.

Nella tradizione giuridica internazionale, esistono fondamentalmente due modelli su questo tema. Quello più diffuso a livello mondiale è il cosiddetto ius soli, cioè il diritto alla cittadinanza per il fatto di essere nato dentro il territorio di uno Stato.

È stato il diritto del cosiddetto modello francese, cioè il modello che nasce in Francia attorno al 1500 e che verrà rilanciato con forza dalla Rivoluzione Francese, la Francia è il primo paese in Europa e quasi l’unico che ha nella sua Costituzione questo tipo di diritto.

Ma è anche il modello di diritto delle grandi democrazie che sono state aperte all’arrivo degli immigrati, quindi il diritto tipico di un paese che ha accolto stranieri perché aveva bisogno in un determinato momento della sua storia nuovi cittadini e quindi considerava che il principale fattore d’integrazione partisse proprio dalla cittadinanza, non tanto per l’immigrato, che in ogni paese deve scontare dei periodi di tempo per acquisire la cittadinanza, ma per chi fosse nato in quel territorio.

Questo è stato il diritto che ha accompagnato la stragrande maggioranza dei 29 milioni d’Italiani che emigrarono tra il 1860 e il 1985.

Ricordiamo: il 43% dal nord Italia, Friuli, Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria. È il diritto degli stati Uniti, del Canada, dell’Australia, dell’Argentina, del Brasile oltre che della Francia in Europa.

Sono pochi i paesi che non hanno riconosciuto questo diritto. Uno è tristemente noto da questo punto di vista: la Svizzera. Un paese nel quale le persone sono considerate semplice strumento, pezzi di un ingranaggio per il lavoro, da buttare via appena non servono più.

Seconda tradizione di diritto di cittadinanza è lo ius sanguinis, il cosiddetto modello tedesco. Si è cittadini perché uno o entrambi dei genitori sono cittadini di un determinato Stato.

Pensate che in Italia fino al 1984 la cittadinanza italiana veniva trasmessa solo per via paterna. È stato il Presidente Pertini che fece un atto di riconoscimento della cittadinanza motivandolo per il fatto che un cittadino congolese er figlio “di madre italiana” e quindi fece scattare il meccanismo che portò alla parità tra uomo e donna su questo tema.

Lo ius sanguinis è quello strano diritto, visto con gli occhi dell’oggi, perché riguarda i paesi che contrariamente ai paesi americani, hanno avuto dei grandi flussi in uscita, cioè dei grandi flussi di emigrazione, come appunto l’Italia. In questo modo, si manteneva un legame con i figli degli emigrati che erano andati a vivere da qualche altra parte.

È quel diritto ad esempio che permette che in Italia ci siano, quando si vota alle Politiche, 12 deputati e 6 senatori che arrivano dai collegi esteri, votati da persone che per la maggior parte non hanno nemmeno mai messo piede in Italia perché sono seconde, terze generazioni, che non pagano nemmeno tasse in Italia.

Mentre abbiamo il paradosso dei circa 4 milioni di immigrati che qui risiedono, lavorano e pagano le tasse allo Stato, ma non hanno diritto di voto nemmeno a livello amministrativo.

Oggi questa situazione sta cambiando velocemente, perché il Consiglio d’Europa del 6 novembre 1997 (non ratificato dall’Italia) ha dato l’indicazione di facilitare lo ius soli, cosa che sta facendo tutta l’Europa.

La Germania ad esempio che aveva appunto il modello tedesco, quindi lo ius sanguinis, ha introdotto questa modifica: basta un genitore residente da otto anni perché il figlio sia tedesco.

L’Irlanda: bastano tre anni di residenza del genitore. Il Belgio: bastano dieci anni di residenza del genitore. Sostanzialmente senza introdurre lo ius soli, di fatto stanno introducendo delle condizioni che riguardano i genitori e i tempi di residenza nel paese rispetto ai figli.

Quando parliamo di cittadinanza, parliamo di integrazione, ma il termine integrazione potrebbe risultare offensivo per chi nasce nel territorio di un paese, frequenta l’asilo nido, le scuole, si laurea e quindi non ha da “integrarsi” in un paese nel quale ovviamente è nato.

Ma fondamentalmente per quello che riguarda l’aspetto simbolico, visto che noi in questo momento stiamo riflettendo di quello, è fondamentalmente il riconoscimento di quello che hanno già fatto tanti Comuni, il riconoscimento dell’appartenenza ad una comunità.

Comincio a concludere velocemente con tre citazioni per capire quanto forse sia più trasversale rispetto agli altri due che abbiamo toccato sinora.

Per quale motivo sia leggermente incomprensibile il fatto che siamo qui stasera a discutere di un atto simbolico di un Comune perché non c’è la legislazione nazionale.

“È opportuno rendere così l’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori figli di immigrati già di fatto integrati nella nostra comunità nazionale. È un’autentica follia, un’assurdità che dei bambini nati in Italia non diventino italiani”. Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica.

“La chiesa è favorevole al riconoscimento del diritto di cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia e conseguentemente al diritto al voto amministrativo, allo svolgimento del servizio civile per i giovani tra i 18 e i 28 anni”. Conferenza Episcopale Italiana 9 gennaio 2013.

“Io non sono un migrante, sono nato e vissuto in Italia. Perché tutti si rivolgono a me come a un immigrato, uno straniero? Io non sono altro che un nuovo Italiano che fatica a essere riconosciuto come tale. Sono il frutto dei sacrifici dei miei genitori emigrati che non viene coronato”. Un ragazzo di seconda generazione di Milano.

Concludo con un brano di una poesia di uno scrittore ligure molto importante che diceva questo alla fine dell’ottocento: “Ecco il Naviglio maestoso e lento, salpa, Genova gira, alita il vento, sul vago lido si distende un velo e il drappello sgomento solleva un grido desolato al cielo. Addio fratelli, addio turba dolente”. Edmondo De Amicis. Gli emigranti. Inizi del 900.

Su quella nave viaggiavano simbolicamente due giovani astigiani, che avrebbero avuto quattro figli a Buenos Aires, diventati Argentini per nascita e Italiani per discendenza, quindi con doppia cittadinanza.

Uno di questi figli qualche giorno fa è stato eletto Papa ed è il primo Papa emigrante della nostra storia, cioè figlio di emigrati di Asti, quindi cittadino Italiano secondo lo ius sanguinis e anche cittadino argentino in quanto nato sul territorio argentino.

Papa Francesco è un figlio dell’emigrazione italiana che grazie all’accoglienza ricevuta nella lontana Argentina oggi può rappresentare le aspettative di oltre un miliardo di cattolici nel mondo.

Come Papa Francesco il Presidente degli Stati Uniti d’America che è il simbolo di superamento di una storia di violenza, di schiavitù e anche in quel paese di lotta per la cittadinanza, quella degli Afroamericani, ci ricorda come tutto stia cambiando velocemente.

Le estensioni dei diritti non sono stati mai nella storia un problema, ma anzi, hanno liberato potenzialità, favorito il progresso e non volerli riconoscere equivale negare la nostra storia di popolo migrante.

Per il Comune di Arcore questa delibera si tratta di un atto simbolico, ma per i piccoli Arcoresi figli di immigrati che riceveranno la cittadinanza onoraria sarà un riconoscimento della loro appartenenza a questa comunità, una comunità locale che vede lontano e che nella sua autonomia politica vuole recapitare stasera un segnale forte alla politica nazionale.

Grazie per la vostra attenzione.

 

(La delibera è stata approvata con il voto favorevole di PD, SEL,Rifondazione, Lista Civica, PDL. Contrari: Lega Nord)

 

emigrati

La complicata vicenda dei due marò del reggimento San Marco detenuti in India per l’uccisione di due pescatori scambiati per pirati ci parla dello stato dei rapporti tra i Paesi occidentali e le nuove potenze emergenti mondiali. Senza entrare nel merito del processo che si celebra nel Kerala, la situazione è di grande novità: per la prima volta in situazioni simili, è stato rispettato il diritto internazionale non a favore del Paese europeo, ma in base alla posizione assunta dalla nazione dei due pescatori uccisi.

Lo scenario è quello delle acque dell’Oceano Indiano infestate da pirati, uno dei tanti punti del pianeta dove la navigazione si fa solo sotto scorta, come nel Mar Rosso, lungo le coste del Corno d’Africa, del Golfo di Guinea o dell’Indonesia. I tempi della filibusta in realtà non sono mai finiti. I nuovi galeoni con l’oro della globalizzazione, e cioè petrolio e apparecchi elettronici, sono sotto tiro non solo per le merci trasportate, ma soprattutto per il riscatto che i pirati riescono a farsi pagare per liberare navi ed equipaggi. Questo grazie ai Paesi non-luogo, Stati che fanno comodo a tutti per i più diversi traffici, dalla Somalia alla Liberia: le basi ideali per i pirati con il satellitare.

Ma i nostri due marò, sui quali si pronuncerà appunto la giustizia indiana, sono rimasti coinvolti in una vicenda che, per la prima volta, si concluderà secondo tutti i crismi della legge. Una merce rara di questi tempi. Non solo si sono consegnati alla polizia indiana, ma hanno usufruito di un permesso per tornare in Italia dalle famiglie durante il Natale. E, cosa più incredibile, sono rientrati in India per sottoporsi al verdetto della giustizia locale. La spiegazione di tanto rispetto manifestato nei confronti delle procedure di un Paese lontano, considerato inaffidabile dal punto di vista della macchina statale e con alti livelli di corruzione, va cercata nella tabella degli scambi commerciali tra Italia e India. Dai discreti 2 miliardi di dollari USA del 2000 si è passati ai 9 miliardi del 2011 e si calcola che entro il 2015 si raggiungeranno i 15 miliardi.

Sono oltre 400 le imprese italiane che negli ultimi anni hanno investito in India. Ci sono tutti (o quasi) i nomi chiave del capitalismo italiano: Fiat, Pirelli, Piaggio, Ferrero, De Longhi, Saipem. L’India insomma è una delle due porte per l’ingresso ai grandi mercati asiatici, insieme alla Cina. L’Italia si gioca le sue carte forte anche del ruolo di facilitatrice svolto dal più importante politico indiano, l’italiana Sonia Gandhi. A questo punto il diritto internazionale va rispettato. I due marò si sottopongono alla giustizia locale e, dopo il permesso natalizio, mantengono la parola data. Parrebbe un mondo ideale se non ci fosse il dato economico a farla da padrone. Quello che si può concludere è che la crescita economica dei Paesi Brics (e associati) renderà sicuramente più rispettato il diritto internazionale: se non altro per non perdere buone opportunità di business.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Con grande fasto e tanti ministri in sala, l’Italia ha celebrato a Milano la cooperazione allo sviluppo. Una sfilata voluta dal primo ministro della cooperazione nella storia repubblicana, il cattolicissimo Andrea Riccardi, pochi mesi prima della fine del suo mandato. Per la cooperazione, il momento però  non è dei migliori. Per la terza volta si sta tentando, senza sapere se sarà quella buona, di cambiare la datata legge che regola gli aiuti pubblici allo sviluppo, risalente al 1987. Intanto, nel 2011 l’Italia è diventata il fanalino di coda tra i paesi OCSE per quanto ha erogato in cooperazione internazionale, meno dello 0,2% del PIL.

A questo si aggiungono la chiusura delle strutture tecniche presso le ambasciate, la riduzione del personale a Roma, il taglio del 90% ai fondi destinati alla cooperazione non governativa. Poco da festeggiare quindi, in un contesto globale che vede sempre più residuale uno degli strumenti nati dopo la Seconda guerra mondiale per sostenere e trasferire risorse e competenze tecniche dai Paesi più ricchi a quelli più poveri: una sorta di welfare globale che in realtà nascondeva coscienze sporche per il passato coloniale e loschi affari dell’economia multinazionale. Non è un segreto che in molti Paesi africani produttori di petrolio, con il finanziamento di qualche progetto sulla sanità o sull’educazione, si prova solo a mascherare i guasti ambientali, sociali e politici provocati dal saccheggio del greggio. Non a caso tra gli sponsor della due giorni milanese si segnalava in prima fila il gruppo ENI.

La cooperazione con gli Stati del Sud del mondo parte da un assunto che in realtà dopo decenni non si è mai dimostrato vero, e cioè che si possa indurre da “fuori” lo sviluppo economico di un Paese, spingendolo e finanziandolo per bruciare tappe che sono state invece necessarie nella storia economica dei Paesi donatori. Soprattutto, non si è mai dimostrato che le ricette che sono state efficaci per l’Europa o per il Nord America lo siano anche per l’Africa o per l’Asia. Dopo migliaia di miliardi spessi in cooperazione internazionale negli ultimi 30 anni, i più spettacolari fenomeni di crescita economica, diminuzione della povertà e ammodernamento produttivo non sono arrivati dagli aiuti a fondo perduto, ma dalla globalizzazione che ha delocalizzato risorse e competenze dal Nord al Sud. I successi di Brasile, India o Vietnam non si possono sicuramente attribuire ai lunghi anni di cooperazione economica, ma alle possibilità di accedere ai mercati internazionali non soltanto come produttori di materie prime.

Sarebbe ingiusto però concludere che il grande movimento di opinione sui temi dello sviluppo e le intuizioni dei soggetti della società civile che si sono impegnati su questo fronte siano stati vani. Il biologico, il commercio equo e solidale, l’attenzione per le condizioni di lavoro e per l’impatto ambientale oggi hanno diritto di cittadinanza nel dibattito generale. E sono numerosissime le grandi imprese che hanno dovuto adeguarsi, o che si sono addirittura interessate commercialmente, ad alcune di queste pratiche. Il fatto che i prodotti del commercio equo e solidale, che rispettano i diritti dei coltivatori, dell’ambiente e dei consumatori, siano in vendita da anni nella grande distribuzione è la dimostrazione di quello che forse è stato il più grande successo della cooperazione “dal basso”.

In questi decenni infatti è aumentata la consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca. Un gran numero di donne e uomini ha compreso che viviamo in un mondo interconnesso, nel quale le ingiustizie che si verificano in uno sperduto Paese dell’Africa hanno una ricaduta anche sulla vita dei cittadini degli Stati più ricchi, che se crescono i diritti degli altri è una garanzia per me. È una piccola-grande rivoluzione culturale che sta lentamente liberando le menti dalla visione egoistica e autoreferenziale del colonialismo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)