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Gli “Obiettivi di Sviluppo del Millennio” delle Nazioni Unite sono otto traguardi che, nel 2000, tutti i 191 Stati membri dell’ONU si sono impegnati a raggiungere entro il 2015. In sostanza, un “libro dei sogni” che forniva le ricette per liberare milioni di essere umani dalla povertà estrema. Anzitutto impegnava i Paesi ricchi a spendere lo 0,7% del loro PIL in cooperazione allo sviluppo, un livello raggiunto solo dai 4 Stati scandinavi e in prospettiva anche dal Regno Unito. Quei fondi, insieme a quelli messi a disposizione dai governi nazionali e dai privati, avrebbero dovuto supportare lo sradicamento della miseria e della fame, portare al raggiungimento dell’istruzione primaria universale, promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute materna; combattere l’HIV/AIDS e garantire la sostenibilità ambientale.

Nella definizione degli Obiettivi, però, le istruzioni per strappare dalla fame e dalla malattia i più poveri non erano accompagnate da indicazioni precise sulle leve economiche da adoperare, né chiarivano su quali diritti bisognasse insistere (per esempio, sarebbe stato opportuno esplicitare il diritto alla terra, che determina le condizioni di vita delle popolazioni rurali).

Malgrado la vaghezza di contenuti e metodo, le Nazioni Unite si ritengono soddisfatte dei risultati raggiunti e rilanciano la sfida formulando una nuova tornata di obiettivi: gli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, in inglese Sustainable Development Goals (SDGs). Il settimanale britannico «The Economist» li ha ribattezzati Stupid Development Goals ritenendoli più che inutili, addirittura dannosi.

In pratica, si ipotizza ancora di migliorare la vita dei poveri stabilendo meccanismi per indirizzare gli aiuti internazionale verso i Paesi che potrebbero spenderli meglio, scelti in base a parametri di dubbia efficacia.

Mentre gli Obiettivi del millennio erano otto, e si articolavano in 21 sotto-obiettivi, gli SDGs consistono in 17 macro-obiettivi e contano ben 169 sotto-obiettivi, definiti “targets”. I loro sostenitori giustificano questa proliferazione spiegando che i traguardi sono più ambiziosi: si estendono a questioni che spaziano dall’urbanizzazione e dalle infrastrutture al cambiamento climatico. Si afferma, correttamente, che la riduzione della povertà è radicata in un intero sistema di disuguaglianza e di ingiustizia, quindi c’è bisogno di molti obiettivi diversi per migliorare la governance, favorire la trasparenza, ridurre le disparità e così via.

Ma l’insieme rimane un pasticcio, perché riflette in modo caotico e generalistico troppi interessi contrastanti. Tra gli obiettivi c’è, per esempio, la creazione di una “partnership globale per lo sviluppo sostenibile, integrato da partenariati multi-stakeholder”, qualunque cosa ciò significhi.

Secondo «The Economist», nel corso dei prossimi 15 anni il mondo avrà davvero la possibilità di strappare alla povertà estrema quasi un miliardo di persone che oggi vivono con non più di 1,25 dollari USA al giorno. Il raggiungimento di questo obiettivo, però, non sarà automatico; anzi, in molti luoghi il trend punta nella direzione sbagliata. Le cause della povertà estrema hanno a che fare soprattutto con l’ingiusta distribuzione della terra, con l’esclusione sociale e culturale, con la discriminazione di genere o di etnia, con le conseguenze del cambiamento climatico. Tutte questioni che non possono essere rimosse solo con la buona volontà e nemmeno con il trasferimento di risorse da Nord a Sud, fermo restando che questi flussi continuino nel tempo.

Ciò che non racconta l’ONU, che continua a volare alto per evitare di immischiarsi nelle miserie provocate dai suoi stessi membri, è che se gli obiettivi del 2000 sono stati parzialmente raggiunti il merito non è attribuibile alla cooperazione, bensì alla fantastica crescita economica dei Paesi emergenti, storici serbatoi di povertà estrema di massa. È vero che la salute materna e infantile, la lotta all’AIDS e la prevenzione della malaria hanno fatto passi avanti, ma i progressi registrati in questi ambiti grazie al trasferimento di risorse Nord-Sud non sono paragonabili all’impulso che la presenza cinese o brasiliana ha dato alle economie dell’Africa o dell’America meridionale.

Gli obiettivi del millennio dovrebbero affrontare proprio i nodi della globalizzazione per essere efficaci: opportunità, inclusione, regole, redistribuzione, diritti. Perché quando la crescita è accompagnata dai diritti e da politiche ridistributive, non c’è bisogno dell’elemosina interessata della potenza di turno per superare la povertà, né di complessi e contraddittori manuali di istruzione.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

mdg2015

Con grande fasto e tanti ministri in sala, l’Italia ha celebrato a Milano la cooperazione allo sviluppo. Una sfilata voluta dal primo ministro della cooperazione nella storia repubblicana, il cattolicissimo Andrea Riccardi, pochi mesi prima della fine del suo mandato. Per la cooperazione, il momento però  non è dei migliori. Per la terza volta si sta tentando, senza sapere se sarà quella buona, di cambiare la datata legge che regola gli aiuti pubblici allo sviluppo, risalente al 1987. Intanto, nel 2011 l’Italia è diventata il fanalino di coda tra i paesi OCSE per quanto ha erogato in cooperazione internazionale, meno dello 0,2% del PIL.

A questo si aggiungono la chiusura delle strutture tecniche presso le ambasciate, la riduzione del personale a Roma, il taglio del 90% ai fondi destinati alla cooperazione non governativa. Poco da festeggiare quindi, in un contesto globale che vede sempre più residuale uno degli strumenti nati dopo la Seconda guerra mondiale per sostenere e trasferire risorse e competenze tecniche dai Paesi più ricchi a quelli più poveri: una sorta di welfare globale che in realtà nascondeva coscienze sporche per il passato coloniale e loschi affari dell’economia multinazionale. Non è un segreto che in molti Paesi africani produttori di petrolio, con il finanziamento di qualche progetto sulla sanità o sull’educazione, si prova solo a mascherare i guasti ambientali, sociali e politici provocati dal saccheggio del greggio. Non a caso tra gli sponsor della due giorni milanese si segnalava in prima fila il gruppo ENI.

La cooperazione con gli Stati del Sud del mondo parte da un assunto che in realtà dopo decenni non si è mai dimostrato vero, e cioè che si possa indurre da “fuori” lo sviluppo economico di un Paese, spingendolo e finanziandolo per bruciare tappe che sono state invece necessarie nella storia economica dei Paesi donatori. Soprattutto, non si è mai dimostrato che le ricette che sono state efficaci per l’Europa o per il Nord America lo siano anche per l’Africa o per l’Asia. Dopo migliaia di miliardi spessi in cooperazione internazionale negli ultimi 30 anni, i più spettacolari fenomeni di crescita economica, diminuzione della povertà e ammodernamento produttivo non sono arrivati dagli aiuti a fondo perduto, ma dalla globalizzazione che ha delocalizzato risorse e competenze dal Nord al Sud. I successi di Brasile, India o Vietnam non si possono sicuramente attribuire ai lunghi anni di cooperazione economica, ma alle possibilità di accedere ai mercati internazionali non soltanto come produttori di materie prime.

Sarebbe ingiusto però concludere che il grande movimento di opinione sui temi dello sviluppo e le intuizioni dei soggetti della società civile che si sono impegnati su questo fronte siano stati vani. Il biologico, il commercio equo e solidale, l’attenzione per le condizioni di lavoro e per l’impatto ambientale oggi hanno diritto di cittadinanza nel dibattito generale. E sono numerosissime le grandi imprese che hanno dovuto adeguarsi, o che si sono addirittura interessate commercialmente, ad alcune di queste pratiche. Il fatto che i prodotti del commercio equo e solidale, che rispettano i diritti dei coltivatori, dell’ambiente e dei consumatori, siano in vendita da anni nella grande distribuzione è la dimostrazione di quello che forse è stato il più grande successo della cooperazione “dal basso”.

In questi decenni infatti è aumentata la consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca. Un gran numero di donne e uomini ha compreso che viviamo in un mondo interconnesso, nel quale le ingiustizie che si verificano in uno sperduto Paese dell’Africa hanno una ricaduta anche sulla vita dei cittadini degli Stati più ricchi, che se crescono i diritti degli altri è una garanzia per me. È una piccola-grande rivoluzione culturale che sta lentamente liberando le menti dalla visione egoistica e autoreferenziale del colonialismo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)