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Con grande fasto e tanti ministri in sala, l’Italia ha celebrato a Milano la cooperazione allo sviluppo. Una sfilata voluta dal primo ministro della cooperazione nella storia repubblicana, il cattolicissimo Andrea Riccardi, pochi mesi prima della fine del suo mandato. Per la cooperazione, il momento però  non è dei migliori. Per la terza volta si sta tentando, senza sapere se sarà quella buona, di cambiare la datata legge che regola gli aiuti pubblici allo sviluppo, risalente al 1987. Intanto, nel 2011 l’Italia è diventata il fanalino di coda tra i paesi OCSE per quanto ha erogato in cooperazione internazionale, meno dello 0,2% del PIL.

A questo si aggiungono la chiusura delle strutture tecniche presso le ambasciate, la riduzione del personale a Roma, il taglio del 90% ai fondi destinati alla cooperazione non governativa. Poco da festeggiare quindi, in un contesto globale che vede sempre più residuale uno degli strumenti nati dopo la Seconda guerra mondiale per sostenere e trasferire risorse e competenze tecniche dai Paesi più ricchi a quelli più poveri: una sorta di welfare globale che in realtà nascondeva coscienze sporche per il passato coloniale e loschi affari dell’economia multinazionale. Non è un segreto che in molti Paesi africani produttori di petrolio, con il finanziamento di qualche progetto sulla sanità o sull’educazione, si prova solo a mascherare i guasti ambientali, sociali e politici provocati dal saccheggio del greggio. Non a caso tra gli sponsor della due giorni milanese si segnalava in prima fila il gruppo ENI.

La cooperazione con gli Stati del Sud del mondo parte da un assunto che in realtà dopo decenni non si è mai dimostrato vero, e cioè che si possa indurre da “fuori” lo sviluppo economico di un Paese, spingendolo e finanziandolo per bruciare tappe che sono state invece necessarie nella storia economica dei Paesi donatori. Soprattutto, non si è mai dimostrato che le ricette che sono state efficaci per l’Europa o per il Nord America lo siano anche per l’Africa o per l’Asia. Dopo migliaia di miliardi spessi in cooperazione internazionale negli ultimi 30 anni, i più spettacolari fenomeni di crescita economica, diminuzione della povertà e ammodernamento produttivo non sono arrivati dagli aiuti a fondo perduto, ma dalla globalizzazione che ha delocalizzato risorse e competenze dal Nord al Sud. I successi di Brasile, India o Vietnam non si possono sicuramente attribuire ai lunghi anni di cooperazione economica, ma alle possibilità di accedere ai mercati internazionali non soltanto come produttori di materie prime.

Sarebbe ingiusto però concludere che il grande movimento di opinione sui temi dello sviluppo e le intuizioni dei soggetti della società civile che si sono impegnati su questo fronte siano stati vani. Il biologico, il commercio equo e solidale, l’attenzione per le condizioni di lavoro e per l’impatto ambientale oggi hanno diritto di cittadinanza nel dibattito generale. E sono numerosissime le grandi imprese che hanno dovuto adeguarsi, o che si sono addirittura interessate commercialmente, ad alcune di queste pratiche. Il fatto che i prodotti del commercio equo e solidale, che rispettano i diritti dei coltivatori, dell’ambiente e dei consumatori, siano in vendita da anni nella grande distribuzione è la dimostrazione di quello che forse è stato il più grande successo della cooperazione “dal basso”.

In questi decenni infatti è aumentata la consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca. Un gran numero di donne e uomini ha compreso che viviamo in un mondo interconnesso, nel quale le ingiustizie che si verificano in uno sperduto Paese dell’Africa hanno una ricaduta anche sulla vita dei cittadini degli Stati più ricchi, che se crescono i diritti degli altri è una garanzia per me. È una piccola-grande rivoluzione culturale che sta lentamente liberando le menti dalla visione egoistica e autoreferenziale del colonialismo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

In questi mesi stiamo vivendo una situazione che rasenta la fantapolitica. Il debito degli Stati Uniti declassato, la Grecia tecnicamente fallita che cede la propria sovranità politica all’UE, i cinesi che diramano comunicati stampa di fuoco dando lezioni di economia di mercato e fanno pesare, per la prima volta pubblicamente, la loro posizione privilegiata in quanto “fabbrica del mondo” e principali creditori dell’Occidente. Paesi di calibro medio-grande, come la Spagna e l’Italia, “commissariati” di fatto dal nuovo-vecchio asse europeo formato da Francia e Germania.

Siamo di fronte a un capovolgimento delle certezze che si erano consolidate nei decenni precedenti, e in qualche caso, nei secoli: i paesi “centrali” non possono fallire a differenza dei paesi “periferici”; gli organismi finanziari (FMI, Banca Mondiale, BCE) possono elaborare (e imporre) ricette per i paesi periferici indebitati ma mai azzardarsi a dare consigli ai “Grandi”; le agenzie di rating non mordono la mano del padrone. Il contrario di tutto questo è successo in queste settimane di follie finanziarie e ancora di più. Negli USA, il leghismo dei tea party è quasi riuscito a fare andare il paese in default, mentre il leghismo di casa nostra, dimenticando per un momento i “grandi temi” della lotta alle donne velate e ai chioschi di kebab, ora diventa forza dell’antipolitica che a differenza del grilliamo, è ben rappresentata nelle istituzioni. I media continuano nella loro incessante campagna per fare passare il concetto che i veri guai dell’Italia sono gli stipendi dei deputati e i possessori di SUV di lusso.

Ma si poteva prevedere questa tempesta perfetta? Nei dettagli forse no, soprattutto perché molte di queste cose erano inimmaginabili, ma se allarghiamo lo sguardo sì. La radice più profonda della crisi odierna va cercata nella progressiva ritirata della politica a favore dell’economia. L’ubriacatura post Muro di Berlino che, secondo tanti, confermava l’inutilità dello Stato incapace, predone, antieconomico. Il paradosso è che oggi l’unico Stato in grado di fare la voce grossa e richiamare all’ordine gli occidentali è la Cina, paese nel quale il partito unico ha sì liberalizzato l’economia, ma tenendo saldamente le redini del controllo sul mercato e agendo su disegni decennali senza mai contraddirsi. In secondo piano, altri paesi emergenti oggi si sentono più forti. Il Brasile che durante gli otto anni di Governo Lula ha dato una nuova centralità allo Stato, rendendolo protagonista del rilancio industriale e strategico del paese. Oppure l’India, che malgrado i suoi mille problemi e complessità, non ha mai licenziato lo Stato quale regolatore del mercato.

Noi paghiamo invece lo stop sulla via della costruzione europea. Abbiamo una moneta senza Stato, caso unico nella storia, e 27 Stati senza potere di controllo effettivo sulla propria moneta. Un’entità monetaria, l’euro, che non ha dietro di sé un governo che possa decidere, ma una miriade di stati con le proprie politiche, logiche e situazioni debitorie. Una moneta senza un Ministero delle Finanze e una politica fiscale unica dietro è un rischio gigantesco, che in questa ore si sta materializzando con caratteristiche esplosive: il “commissariamento” di interi paesi. Ma chi sono i “commissari”? Anzitutto sono politici che hanno una legittimità  nei paesi (Francia, Germania) in cui sono stati eletti, ergo, non hanno nessuna legittimità democratica nei paesi “commissariati”. Sono commissari autoproclamati in base alla consistenza delle loro economie, ma soprattutto alla consistenza dell’esposizione del proprio sistema bancario nei confronti dei paesi commissariati. Sono quindi interessati soltanto al rientro dei capitali esposti senza fare distinguo sulle modalità che verranno utilizzate dai commissariati per trovare i soldi. In sostanza, così come il FMI per decenni ha imposto le sue “ricette” ai paesi indebitati del Sud del Mondo, per tutelare i capitali dei creditori e senza fare caso a come si raggiungeva la stabilità, lo stesso fa oggi la BCE, l’arma dei commissari nei confronti dei paesi dell’Europa mediterranea. In questo caso però vengono intaccati alcuni principi sacrosanti del processo europeo, come la creazione di uno spazio sociale e la parità dei diritti tra i cittadini della comunità. Tutto ciò viene a cadere davanti agli interessi dei commissari e delle banche dei loro paesi.

Questa situazione rende il ben servito definitivo alla politica tremontiana delle piccole furbizie, dei condoni, degli scudi fiscali e infrange il mito del bravo Ministro che “sa tenere i conti in ordini”. All’Italia non serve un ragioniere, non serve semplicemente tenere i conti in ordine. L’Italia deve ripensare il proprio profilo produttivo, capire cosa tagliare e in cosa investire, immaginare come ricollocarsi nella globalizzazione e come avvicinare all’Europa, per quanto riguarda opportunità e diritti. Tutto questo manca da anni e oggi viene presentato il salato conto. Il Governo “tecnico” si presenta come grande fustigatore di evasori e caste mediovali, peccato che sulla crescita ancora nulla si ipotizza, che i giovani laureati emigrino, che le imprese scappino mentre le multinazionali di altr paesi europei continuino a fare shopping in Italia, che l’evasione fiscale continua a togliere risorse, che la criminalità continui a occupare vaste fette di territorio.

Ora siamo “in sicurezza” ci dicono, ma di vera patrimoniale non si vuole parlare, almeno a “Palazzo Merkel”, e si cominciano a scontare i “inevitabili” all’assistenza, alle pensioni, al mondo del lavoro. La cosa più preoccupante è che in questo si salvi chi può, non c’è nemmeno l’ombra di idee per andare oltre lo tsunami. Il mondo, che non è mai fermo, non aspetta.

Alfredo Somoza

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