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L’aggettivo “umanitario”, secondo il vocabolario, è riferito a «persona o a cosa ricca di sentimenti filantropici, di amore per il prossimo e di sollecitudine per le sorti dell’uomo»: uno scienziato, una persona che si è contraddistinta per il suo agire contro un’ingiustizia o per l’affermazione dei diritti. L’umanitarismo, infatti, ha radici nelle lotte contro la schiavitù, contro il totalitarismo, per il miglioramento della condizione della donna, per i diritti dei bambini.

Nel ’900, a partire dall’esperienza delle grandi guerre, nasce un “diritto umanitario” che attua una prima mutazione del significato di questo aggettivo, menzionando esplicitamente la prevenzione e l’assistenza nei confronti delle popolazioni colpite da conflitti armati. I Trattati di Ginevra danno vita all’istituzione umanitaria per eccellenza, almeno secondo questa interpretazione: la Croce Rossa. In pratica, si è già passati dal progresso e dall’affermazione dei diritti alla tutela dei civili in situazioni di conflitto.

Nella seconda metà del ’900 assistiamo a un’ulteriore mutazione del significato di “umanitario”, quando questa parola entra nel vocabolario sia delle organizzazioni non governative sia della politica. Le Ong “umanitarie” seguono una linea di sviluppo che estende l’esperienza della Croce Rossa, portando aiuti disinteressati ai feriti di guerra, agli sfollati, ai profughi. Una grande e plurale Croce Rossa “dal basso”, sostenuta in tutto il mondo da milioni di cittadini attraverso il volontariato e le donazioni. Invece la politica bellica comincia a giocare con l’aggettivo umanitario per giustificare interventi armati che si collocano ai limiti del diritto internazionale, o addirittura oltre.

Tra gli interventi armati degli ultimi 30 anni, pochi sono avvenuti con il consenso preventivo delle Nazioni Unite. Privo di ombre è stato il caso della Prima Guerra del Golfo, nel 1990, combattuta da un’alleanza internazionale sotto il cappello dell’ONU in quanto l’Iraq di Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait, un Paese sovrano e membro della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma gli altri interventi etichettati come “umanitari” spesso sono stati portati avanti al di fuori di ogni cornice legale – come la Seconda Guerra del Golfo, giustificata dal falso delle “armi di distruzione di massa” in possesso  dell’Iraq – oppure su spinta dalla sola NATO, come nel caso dell’escalation militare in Libia, ufficialmente scatenata da Francia e Regno Unito per proteggere la popolazione del Paese.

L’aggettivo “umanitario”, ridotto alla difesa dei civili inermi, non solo è stato utilizzato come paravento per guerre combattute a difesa di variegati interessi nazionali o strategici, ma ha accompagnato anche interventi giustificati dalla necessità di agire contro l’oppressione delle donne (Afghanistan), contro il terrorismo (ancora Afghanistan), contro il narcotraffico (Panama), a tutela di un’etnia (Kossovo).

La stessa cooperazione internazionale, nata per favorire lo sviluppo economico e sociale, è diventata sempre più “cooperazione armata”, intesa come finanziamento di “interventi umanitari” in scenari di guerra non meglio definiti. Gli eserciti impegnati sul campo sono stati trasformati in operatori umanitari, con compiti da cooperanti anche se belligeranti. Nuova linfa per gli eserciti e per i fabbricanti di armi, che così hanno potuto usufruire dei fondi dirottati dalla cooperazione allo sviluppo, come nel caso italiano.

Il concetto di “umanitario”, figlio dell’Illuminismo, oggi è diventato la foglia di fico della politica armata. Sepolte le grandi lotte per il progresso dell’umanità, per debellare le malattie dei poveri, per affermare i diritti e la democrazia contro i totalitarismi, l’azione umanitaria oggi si propone solo l’obiettivo di ridurre i danni, senza nemmeno riuscirci.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Con grande fasto e tanti ministri in sala, l’Italia ha celebrato a Milano la cooperazione allo sviluppo. Una sfilata voluta dal primo ministro della cooperazione nella storia repubblicana, il cattolicissimo Andrea Riccardi, pochi mesi prima della fine del suo mandato. Per la cooperazione, il momento però  non è dei migliori. Per la terza volta si sta tentando, senza sapere se sarà quella buona, di cambiare la datata legge che regola gli aiuti pubblici allo sviluppo, risalente al 1987. Intanto, nel 2011 l’Italia è diventata il fanalino di coda tra i paesi OCSE per quanto ha erogato in cooperazione internazionale, meno dello 0,2% del PIL.

A questo si aggiungono la chiusura delle strutture tecniche presso le ambasciate, la riduzione del personale a Roma, il taglio del 90% ai fondi destinati alla cooperazione non governativa. Poco da festeggiare quindi, in un contesto globale che vede sempre più residuale uno degli strumenti nati dopo la Seconda guerra mondiale per sostenere e trasferire risorse e competenze tecniche dai Paesi più ricchi a quelli più poveri: una sorta di welfare globale che in realtà nascondeva coscienze sporche per il passato coloniale e loschi affari dell’economia multinazionale. Non è un segreto che in molti Paesi africani produttori di petrolio, con il finanziamento di qualche progetto sulla sanità o sull’educazione, si prova solo a mascherare i guasti ambientali, sociali e politici provocati dal saccheggio del greggio. Non a caso tra gli sponsor della due giorni milanese si segnalava in prima fila il gruppo ENI.

La cooperazione con gli Stati del Sud del mondo parte da un assunto che in realtà dopo decenni non si è mai dimostrato vero, e cioè che si possa indurre da “fuori” lo sviluppo economico di un Paese, spingendolo e finanziandolo per bruciare tappe che sono state invece necessarie nella storia economica dei Paesi donatori. Soprattutto, non si è mai dimostrato che le ricette che sono state efficaci per l’Europa o per il Nord America lo siano anche per l’Africa o per l’Asia. Dopo migliaia di miliardi spessi in cooperazione internazionale negli ultimi 30 anni, i più spettacolari fenomeni di crescita economica, diminuzione della povertà e ammodernamento produttivo non sono arrivati dagli aiuti a fondo perduto, ma dalla globalizzazione che ha delocalizzato risorse e competenze dal Nord al Sud. I successi di Brasile, India o Vietnam non si possono sicuramente attribuire ai lunghi anni di cooperazione economica, ma alle possibilità di accedere ai mercati internazionali non soltanto come produttori di materie prime.

Sarebbe ingiusto però concludere che il grande movimento di opinione sui temi dello sviluppo e le intuizioni dei soggetti della società civile che si sono impegnati su questo fronte siano stati vani. Il biologico, il commercio equo e solidale, l’attenzione per le condizioni di lavoro e per l’impatto ambientale oggi hanno diritto di cittadinanza nel dibattito generale. E sono numerosissime le grandi imprese che hanno dovuto adeguarsi, o che si sono addirittura interessate commercialmente, ad alcune di queste pratiche. Il fatto che i prodotti del commercio equo e solidale, che rispettano i diritti dei coltivatori, dell’ambiente e dei consumatori, siano in vendita da anni nella grande distribuzione è la dimostrazione di quello che forse è stato il più grande successo della cooperazione “dal basso”.

In questi decenni infatti è aumentata la consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca. Un gran numero di donne e uomini ha compreso che viviamo in un mondo interconnesso, nel quale le ingiustizie che si verificano in uno sperduto Paese dell’Africa hanno una ricaduta anche sulla vita dei cittadini degli Stati più ricchi, che se crescono i diritti degli altri è una garanzia per me. È una piccola-grande rivoluzione culturale che sta lentamente liberando le menti dalla visione egoistica e autoreferenziale del colonialismo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

La settimana prossima si aprirà ad Addis Abeba, Etiopia, il vertice dell’Unione Africana dedicato al commercio tra i vari Paesi del continente. In un’area che finora è stata risparmiata dalla crisi economica mondiale, e che anzi durante il 2011 è cresciuta, la grande novità è l’accelerazione degli accordi per la creazione di un’area di libero commercio di dimensioni continentali. Da dieci anni si sta tentando di armonizzare le tariffe che gravano sulle esportazioni tra i Paesi africani, ormai attestate in media all’8,7%. Ora si vorrebbe fare di più, eliminando ogni carico fiscale sulla movimentazione di merci e servizi tra Stati.

Anche l’Africa prova quindi ad affidarsi a quella che è stata la chiave di volta per i Paesi del Sudest asiatico e dell’America Latina: la creazione di un mercato regionale sempre più sganciato dai legami storici con le potenze occidentali. Per la prima volta l’Africa si immagina non soltanto come un serbatoio di materie prime da esportare, ma come un mercato produttore e consumatore. In questo cambiamento di rotta gioca un ruolo significativo la presenza massiccia dell’imprenditoria cinese in ogni angolo del Continente Nero.

Una presenza stigmatizzata, che desta inquietudine sul piano dei diritti umani e del rispetto dell’ambiente, e che viene vista con sospetto da parte delle ex potenze coloniali che hanno dettato legge negli ultimi due secoli in Africa. In realtà il modello seguito da Pechino per penetrare i mercati africani è molto originale. La Cina, infatti, ha ridefinito l’approccio allo sviluppo del continente mixando sapientemente i tradizionali aiuti a fondo perduto, il potenziamento del commercio e gli investimenti produttivi e infrastrutturali.

Si tratta di qualcosa che finora non si era mai visto, e che potrebbe essere definito come un nuovo modello di cooperazione basato sul partenariato economico e non sull’assistenzialismo. I nostri media si sono concentrati su uno solo degli aspetti del fenomeno, e forse nemmeno su quello più importante, per definire “predatoria” la presenza cinese in Africa: la costruzione di infrastrutture in cambio di risorse naturali. Un meccanismo che, per quanto possa apparire pericoloso, comincia a dare a molti Paesi la possibilità di contare su reti ferroviarie, strade, ospedali e centri di formazione indispensabili per sviluppare il commercio e garantire collegamenti alle regioni dimenticate.

Tuttavia la parte più consistente della presenza cinese in Africa è costituita dai crediti agevolati che le banche commerciali di Pechino erogano agli imprenditori, anche piccoli, e dagli investimenti diretti nel settore delle infrastrutture. La Cina indubbiamente è arrivata in Africa per restarci. Per questo motivo, tra i suoi interessi strategici, sono prioritari la crescita del commercio, lo sviluppo della produzione e l’aumento dei consumi nei mercati regionali.

Il modello di cooperazione cinese è riuscito a ottenere grandi risultati in pochissimo tempo, trainando la crescita economica dell’Africa subsahariana e dimostrandosi più vantaggioso per i Paesi africani rispetto all’obsoleta cooperazione allo sviluppo francese o britannica. Agli africani spetta ora il compito di accompagnare il buon andamento economico con un miglioramento della qualità della vita, con la democratizzazione della società e della politica, con la crescita di una capacità autonoma di mediazione che appare indispensabile per porre fine ai tanti conflitti ancora aperti.

Su questi punti dovranno fare da soli: difficilmente la Cina vorrà o potrà aiutarli, così come non li ha mai aiutati l’Europa. Ancora e sempre, con la Cina o senza, il destino dell’Africa rimane in mano agli africani. Somoza per

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)