La settimana prossima si aprirà ad Addis Abeba, Etiopia, il vertice dell’Unione Africana dedicato al commercio tra i vari Paesi del continente. In un’area che finora è stata risparmiata dalla crisi economica mondiale, e che anzi durante il 2011 è cresciuta, la grande novità è l’accelerazione degli accordi per la creazione di un’area di libero commercio di dimensioni continentali. Da dieci anni si sta tentando di armonizzare le tariffe che gravano sulle esportazioni tra i Paesi africani, ormai attestate in media all’8,7%. Ora si vorrebbe fare di più, eliminando ogni carico fiscale sulla movimentazione di merci e servizi tra Stati.
Anche l’Africa prova quindi ad affidarsi a quella che è stata la chiave di volta per i Paesi del Sudest asiatico e dell’America Latina: la creazione di un mercato regionale sempre più sganciato dai legami storici con le potenze occidentali. Per la prima volta l’Africa si immagina non soltanto come un serbatoio di materie prime da esportare, ma come un mercato produttore e consumatore. In questo cambiamento di rotta gioca un ruolo significativo la presenza massiccia dell’imprenditoria cinese in ogni angolo del Continente Nero.
Una presenza stigmatizzata, che desta inquietudine sul piano dei diritti umani e del rispetto dell’ambiente, e che viene vista con sospetto da parte delle ex potenze coloniali che hanno dettato legge negli ultimi due secoli in Africa. In realtà il modello seguito da Pechino per penetrare i mercati africani è molto originale. La Cina, infatti, ha ridefinito l’approccio allo sviluppo del continente mixando sapientemente i tradizionali aiuti a fondo perduto, il potenziamento del commercio e gli investimenti produttivi e infrastrutturali.
Si tratta di qualcosa che finora non si era mai visto, e che potrebbe essere definito come un nuovo modello di cooperazione basato sul partenariato economico e non sull’assistenzialismo. I nostri media si sono concentrati su uno solo degli aspetti del fenomeno, e forse nemmeno su quello più importante, per definire “predatoria” la presenza cinese in Africa: la costruzione di infrastrutture in cambio di risorse naturali. Un meccanismo che, per quanto possa apparire pericoloso, comincia a dare a molti Paesi la possibilità di contare su reti ferroviarie, strade, ospedali e centri di formazione indispensabili per sviluppare il commercio e garantire collegamenti alle regioni dimenticate.
Tuttavia la parte più consistente della presenza cinese in Africa è costituita dai crediti agevolati che le banche commerciali di Pechino erogano agli imprenditori, anche piccoli, e dagli investimenti diretti nel settore delle infrastrutture. La Cina indubbiamente è arrivata in Africa per restarci. Per questo motivo, tra i suoi interessi strategici, sono prioritari la crescita del commercio, lo sviluppo della produzione e l’aumento dei consumi nei mercati regionali.
Il modello di cooperazione cinese è riuscito a ottenere grandi risultati in pochissimo tempo, trainando la crescita economica dell’Africa subsahariana e dimostrandosi più vantaggioso per i Paesi africani rispetto all’obsoleta cooperazione allo sviluppo francese o britannica. Agli africani spetta ora il compito di accompagnare il buon andamento economico con un miglioramento della qualità della vita, con la democratizzazione della società e della politica, con la crescita di una capacità autonoma di mediazione che appare indispensabile per porre fine ai tanti conflitti ancora aperti.
Su questi punti dovranno fare da soli: difficilmente la Cina vorrà o potrà aiutarli, così come non li ha mai aiutati l’Europa. Ancora e sempre, con la Cina o senza, il destino dell’Africa rimane in mano agli africani. Somoza per
Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)