Le vie del made in Italy sono infinite. La rotta del Gruppo Navale Cavour, che per 5 mesi circumnavigherà l’Africa e il Golfo Persico portando in giro le “eccellenze italiane”, è l’ultima trovata delle Forze Armate per dimostrare all’opinione pubblica l’utilità di continuare a mantenere costosi sistemi d’arma e personale ben pagato e garantito in nome dell’”umanitario” e, novità assoluta, del sostegno al “made in Italy”. La missione “Sistema Paese in movimento” della portaerei Cavour, nave ammiraglia della flotta militare italiana, ha un costo stimato di 20 milioni di euro. Soldi spesi per fare vedere la bandiera che in tempi di austerità diventano però tanti. Scatta quindi l’idea geniale: trovare sponsor privati per finanziare parte dello sforzo economico. E quali sono le aziende che sponsorizzano il tour nei Paesi del Golfo e Africa della portaerei? Alcune multinazionali (come Ferrero e Pirelli) più interessate probabilmente a sostenere operazioni di marketing dello Stato che ai potenziali mercati, e tante imprese, anzi la quasi totalità del comparto bellico, che indubbiamente hanno interessi primari in quei paesi nei quali instabilità, conflitti e guerre sono il pane per chi vende armi. Oto Melara, Finmeccanica, Fincantieri, Beretta, Telespazio, Agusta Westland e altri potranno allestire sulla Cavour una fiera campionaria del bellico “porta a porta” a buon mercato. L’ultimo tassello dell’operazione è la partecipazione di 3 onlus “umanitarie” che nelle tappe si occuperanno di visitare bambini affetti da problemi oculistici e altro. La fondazione Francesca Rava si spinge a qualificare questa missione militar-commerciale come “missione umanitaria della Marina Militare italiana”, offrendo quella copertina, sempre più corta, che permette di addolcire gli interessi del settore bellico e delle forze armate.
La contaminazione avvenuta negli ultimi anni tra militare e umanitario è stata utile a giustificare l’enorme spesa che l’Italia continua a destinare alla Difesa perché “serve al mantenimento della pace”. Uno sforzo economico che ad esempio continua a garantire una presenza in Afganistan al di fuori da qualsiasi logica politica o militare, la partecipazione al traino di Gran Bretagna e Francia allo smantellamento della Libia e soprattutto la sopravvivenza di una delle vere caste dell’Italia, i militari di carriera. Nel mondo delle ong il dibattito su come e quanto collaborare con le forze armate è all’ordine del giorno, ma il problema riguarda il paese tutto in quanto la Difesa è una competenza “forte” che risucchia ingenti risorse. La domanda da porsi è quanto sia lecito fare diventare i militari ambasciatori del made in Italy e quanto sia lecito, utilizzando mezzi dello Stato, promuovere la produzione bellica nazionale in quei paesi segnati da conflitti in corso o potenziali. Tutto ciò di fronte al costante e progressivo svuotamento della cooperazione allo sviluppo, vero strumento di costruzione di partenariato economico e di pratiche di pace, ormai praticamente senza finanziamento né strutture. Il governo Berlusconi aveva tentato di fare diventare gli ambasciatori italiani “venditori del made in Italy”, posizione discutibile ma non estranea ai compiti affidati alla diplomazia. Ora gli ambasciatori avranno le stellette e la merce che venderanno sarà sicuramente quella che conoscono meglio.
