Posts contrassegnato dai tag ‘BRICS’

La complicata vicenda dei due marò del reggimento San Marco detenuti in India per l’uccisione di due pescatori scambiati per pirati ci parla dello stato dei rapporti tra i Paesi occidentali e le nuove potenze emergenti mondiali. Senza entrare nel merito del processo che si celebra nel Kerala, la situazione è di grande novità: per la prima volta in situazioni simili, è stato rispettato il diritto internazionale non a favore del Paese europeo, ma in base alla posizione assunta dalla nazione dei due pescatori uccisi.

Lo scenario è quello delle acque dell’Oceano Indiano infestate da pirati, uno dei tanti punti del pianeta dove la navigazione si fa solo sotto scorta, come nel Mar Rosso, lungo le coste del Corno d’Africa, del Golfo di Guinea o dell’Indonesia. I tempi della filibusta in realtà non sono mai finiti. I nuovi galeoni con l’oro della globalizzazione, e cioè petrolio e apparecchi elettronici, sono sotto tiro non solo per le merci trasportate, ma soprattutto per il riscatto che i pirati riescono a farsi pagare per liberare navi ed equipaggi. Questo grazie ai Paesi non-luogo, Stati che fanno comodo a tutti per i più diversi traffici, dalla Somalia alla Liberia: le basi ideali per i pirati con il satellitare.

Ma i nostri due marò, sui quali si pronuncerà appunto la giustizia indiana, sono rimasti coinvolti in una vicenda che, per la prima volta, si concluderà secondo tutti i crismi della legge. Una merce rara di questi tempi. Non solo si sono consegnati alla polizia indiana, ma hanno usufruito di un permesso per tornare in Italia dalle famiglie durante il Natale. E, cosa più incredibile, sono rientrati in India per sottoporsi al verdetto della giustizia locale. La spiegazione di tanto rispetto manifestato nei confronti delle procedure di un Paese lontano, considerato inaffidabile dal punto di vista della macchina statale e con alti livelli di corruzione, va cercata nella tabella degli scambi commerciali tra Italia e India. Dai discreti 2 miliardi di dollari USA del 2000 si è passati ai 9 miliardi del 2011 e si calcola che entro il 2015 si raggiungeranno i 15 miliardi.

Sono oltre 400 le imprese italiane che negli ultimi anni hanno investito in India. Ci sono tutti (o quasi) i nomi chiave del capitalismo italiano: Fiat, Pirelli, Piaggio, Ferrero, De Longhi, Saipem. L’India insomma è una delle due porte per l’ingresso ai grandi mercati asiatici, insieme alla Cina. L’Italia si gioca le sue carte forte anche del ruolo di facilitatrice svolto dal più importante politico indiano, l’italiana Sonia Gandhi. A questo punto il diritto internazionale va rispettato. I due marò si sottopongono alla giustizia locale e, dopo il permesso natalizio, mantengono la parola data. Parrebbe un mondo ideale se non ci fosse il dato economico a farla da padrone. Quello che si può concludere è che la crescita economica dei Paesi Brics (e associati) renderà sicuramente più rispettato il diritto internazionale: se non altro per non perdere buone opportunità di business.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

somali_pirates_negotiator

Il 2013 sarà il quinto anno segnato dalla crisi economica esplosa prima negli Stati Uniti e successivamente anche in Europa. Leggendo i pronostici dei più autorevoli studiosi di politica internazionale, si ha l’idea che ormai sia diventata cronica l’impotenza di chi dovrebbe prendere decisioni, giuste o sbagliate, per provare a riattivare un ciclo economico positivo.

Ogni mattina si attende il responso dei mercati incrociando le dita, con lo stesso atteggiamento con il quale gli antichi greci si rivolgevano all’oracolo di Delfi. La passività non si limita all’aspetto economico e finanziario: la politica boccheggia anche su altri fronti. Il massacro in Siria, la deriva nordafricana, l’infinito conflitto afgano e quello israelo-palestinese, i covi dei pirati offshore, le mafie che insanguinano interi Paesi sono tutti problemi da risolvere. Però si rimandano decisioni e azioni a un tempo sempre di là da venire.

Il mondo del 2013 paga le conseguenze di due giganteschi vuoti, l’uno conseguenza dell’altro. Il primo è la mancanza di leadership globale. Gli Stati Uniti rimangono una potenza globale ormai solo in virtù della loro forza militare, ma al loro interno sono dissanguati dal conflitto tra democratici e repubblicani sulla riforma del fisco e più in generale sul modello di società. L’Europa è invece zavorrata dalla crisi dei Paesi più deboli, non risolta in tempo, e dalle politiche imposte da quelli più forti, che dalle difficoltà degli altri Stati cercano di trarre guadagno. La Cina, l’India e il Brasile sono ancora potenze regionali, prive di peso reale negli equilibri “che contano”. Il resto del mondo è semplicemente ininfluente.

Il secondo vuoto, legato al primo, è quello delle idee. Il mondo ha bisogno di una rivoluzione culturale, politica ed economica che parta dal basso. La riflessione sul modello di sviluppo va tradotta in politiche possibili: occorre immaginare meccanismi istituzionali internazionali che stimolino azioni collettive così che si possano produrre beni pubblici globali. E occorre distinguere una volta per tutte ciò che è giusto sia affidato al mercato e ciò che invece deve rimanere di pertinenza della sfera pubblica, perché sia garantita l’universalità dell’accesso ai beni fondamentali.

La qualità dell’ambiente, la redistribuzione di redditi e ricchezze, la promozione di politiche fiscali giuste e sostenibili, il controllo dei mercati, la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione, la riconversione delle fonti energetiche, la lotta senza tregua alle mafie e alla corruzione: tutti questi temi dovrebbero far parte della nuova agenda del mondo.

Davanti alla crisi degli Stati, una simile rivoluzione può nascere soltanto dalla forza di cittadini organizzati e partecipi. Per questo, in testa all’agenda del 2013, va collocata la tutela del primo bene comune: la democrazia, quella vecchia modalità di convivenza civile senza la quale l’orizzonte diventa buio. È proprio lei, la democrazia, che rischia di pagare il prezzo più salato della crisi economica e di credibilità di una politica miope.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare network)

 

img_606X341_The-numbers-2013-are-illuminated-atop-1-Times-Square-revelers-celebrate-New-Year-New-York-RTR3C0PY (1)

Come le foglie in autunno, stanno cadendo uno a uno i dogmi economici degli ultimi 30 anni. I capisaldi della scuola di pensiero liberale dei professori dell’Università di Chicago – Friedman, Harberger e Stigler – stanno andando progressivamente in soffitta. Dopo avere ispirato i governi di Ronald Reagan e della signora Thatcher, oltre a una nutrita schiera di presidenti latinoamericani degli anni ’90, il neoliberismo non è più criticato soltanto dai movimenti antagonisti. Oggi a volerlo dimenticare sono anche le istituzioni che in passato si sono abbeverate alle sue idee.

In questi giorni si sono aperti simultaneamente due fronti. Il Fondo Monetario Internazionale, sotto la pressione dei Paesi BRICS, ha riconosciuto che alcune misure di controllo sui flussi di capitali possono rivelarsi giustificate e utili per evitare che interi Stati soccombano a terremoti finanziari. Ne sanno qualcosa l’Indonesia, il Messico, l’Italia della liretta, l’Argentina pre-default che hanno dovuto subire la forza d’urto dei capitali volanti, quelli che si spostano senza limitazioni da un Paese all’altro determinando impennate alternate a crolli di valute e borse locali. Già da due anni il Brasile chiedeva ad alta voce questo intervento, visto che è diventato destinazione di capitali speculativi internazionali in cerca di alti rendimenti: un flusso di denaro che finisce con il provocare la sopravvalutazione del real, penalizzando le esportazioni.

Sempre in questi giorni, a Londra il ministro dell’Economia (appartenente al partito conservatore che fu di Mrs. Thatcher) apre la lotta alle multinazionali che vendono merci e servizi nel Regno Unito, come i giganti Amazon e Google, ma pagano solo un ridicolo 3% di tasse in Lussemburgo. Da noi una sentenza del Tribunale del Lavoro ha stabilito che la compagnia aerea Ryanair dovrà applicare la legislazione del lavoro italiana ai suoi dipendenti italiani, e non più quella irlandese, più permissiva. Va chiarito che queste imprese non hanno commesso alcun reato. Finora si sono mosse all’interno delle non-regole degli anni ’90, quando FMI e Commissione Europea avevano adottato i dogmi appunto dei Chicago boys, deregolamentando il mercato dei capitali e permettendo alle multinazionali di scegliersi liberamente il Paese più conveniente per pagare tasse e stabilire contratti di lavoro.

Ora la crisi sta spingendo la politica a riprendere il suo ruolo regolatore e, soprattutto, a ridare un senso logico all’economia globale, che non può più basarsi solo sull’interesse dell’imprenditore, ma deve considerare anche quello dei lavoratori e delle comunità locali e nazionali. Queste prime avvisaglie, che rivelano come la politica stia tornando a occuparsi di economia, compongono un confuso puzzle in un momento di smarrimento. Appaiono più come il frutto del bisogno di cassa che come conseguenza di un ragionamento serio, e senza coordinamento non potranno avere un seguito: se non si traducono in misure condivise saranno facilmente aggirabili.

Ciò che per ora ci limitiamo a registrare è che stanno crollando diversi paradigmi che fino a ieri sembravano inamovibili. È una conseguenza della crisi e anche del maggiore protagonismo dei Paesi che in passato hanno subito senza potersi difendere. Solo il tempo ci farà capire se da queste macerie nascerà un New Deal globale oppure torneremo ai tempi delle chiusure e delle autarchie, a quando il peso di uno Stato dipendeva solo dal numero delle cannoniere in suo possesso.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Margaret-Thatcher-and-Ronald-Reagan-lead-a-merry-dance

La globalizzazione dell’economia ha un andamento storico simile a quello delle onde del mare: è fatta di flussi e riflussi. La prima interconnessione delle economie a livello mondiale, e non solo regionale, si può far risalire al XV secolo, cioè al periodo in cui i navigatori portoghesi e spagnoli allargarono gli orizzonti commerciali di un’Europa che, con fatica, usciva dall’isolamento economico e culturale del Medioevo spingendosi fino in Africa, Asia e poi nelle Americhe.

Ciò che ne seguì cambiò la storia del mondo e pose le basi per quelle differenze sostanziali tra popoli dominatori e popoli dominati che, secoli più tardi, sarebbero stati collocati idealmente in un “Nord” ricco e in un “Sud” povero. Ma la storia della costruzione di un mercato mondiale non ha avuto uno sviluppo lineare: piuttosto, è avanzata e arretrata in seguito a sconvolgimenti politici o naturali. L’ultima onda della globalizzazione è iniziata verso la fine degli anni ’80 del Novecento ed è proseguita fino al 2001. Per la prima volta in 500 anni, le storiche potenze industrializzate non trasferivano verso sud soltanto merci da vendere, risucchiando contemporaneamente materie prime e braccia per lavorare, ma trasferivano risorse e conoscenze per produrre altrove a prezzi più vantaggiosi.

Ciò è accaduto anche perché, dopo secoli, ci si è accorti che i Paesi del Sud del mondo potevano anche essere mercati interessanti nei quali lavorare. L’effetto delle delocalizzazioni produttive, dei flussi di capitali, dell’emergere di nuovi mercati “consumatori” in base alle accresciute disponibilità economiche sono stati i motori della veloce crescita dei cosiddetti Paesi emergenti, diventati prima concorrenti sul piano commerciale e subito dopo soggetti di tutto rispetto nel mondo della finanza e dell’industria.

L’odierna crisi economica dei Paesi occidentali ha poco di ciclico e molto di strutturale, se analizzata nel contesto del mondo che cambia. Non sono la crisi del debito, i subprime o la finanza speculativa il nocciolo del problema. Il problema è la crisi, forse definitiva, di un ruolo storico costruito nei secoli precedenti in base a un equilibrio mondiale distorto. Paesi che hanno vissuto al di sopra delle proprie capacità economiche, perché avevano il monopolio industriale e finanziario a livello globale, oggi si interrogano sul loro futuro produttivo senza trovare soluzioni praticabili.

La risposta immediata, anche se poco pubblicizzata, è il progressivo innalzamento delle barriere protettive dei mercati nazionali. Gli stessi Paesi che, negli anni ’90 del secolo scorso, spinsero per la deregolamentazione del mercato mondiale ora che sono in difficoltà si chiudono e promuovono  centinaia di ricorsi presso il WTO. E quest’ultimo, da arbitro della globalizzazione, sta diventando una litigiosa assemblea di condominio nella quale tutti urlano e nessuno capisce chi abbia ragione, e soprattutto quale sia il senso dello stare insieme.

L’Occidente ferito si chiude alla concorrenza, i Paesi emergenti chiedono invece maggiori aperture: si delinea un mondo a parti rovesciate, è l’inizio di un riflusso della globalizzazione. Perché chi oggi spezza ancora una lancia a favore della globalizzazione non abita più a Londra, New York o Parigi, ma a San Paolo, Shangai e Kolkata: o, come si diceva una volta, Calcutta.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Nel 1988 l’economista egiziano Samir Amin formulava la “teoria dello sganciamento”, ipotizzando la creazione di flussi commerciali e politici sud-sud come unica via per il superamento dei rapporti iniqui tra il Nord e il Sud del mondo. In sostanza, Amin considerava questa come l’arma risolutiva in mano ai Paesi del “Terzo Mondo” per porre fine alla loro dipendenza dagli storici rapporti coloniali e neocoloniali con l’Occidente.

Molto tempo è passato e alcuni timidi tentativi sono stati fatti, a partire dalla creazione del Mercosur, primo blocco economico interamente formato da Paesi sudamericani. Ma la svolta, e la materializzazione delle teorie di Amin, si è avuta solo in questi ultimi anni. Anzi, sta ancora avvenendo in questa seconda fase della globalizzazione, nella quale non ci sono padroni indiscussi della scena internazionale (come gli appartenenti al G8), ma si sono affermati anche nuovi protagonisti. È il caso dei Paesi BRICS. India, Cina, Brasile, Russia stanno infatti consolidando nuove geometrie economiche e politiche in un mondo nel quale nessuna potenza riesce più a esercitare una leadership globale, ma anzi, molte potenze del passato tentano disperatamente di non essere espulse dal nuovo ordine multipolare.

I dati appena pubblicati dall’ufficio statistico cinese confermano che sono in corso cambiamenti molto profondi. Nell’ultimo anno, l’export di Pechino verso i Paesi fuori dall’area euro, dollaro e yen è cresciuto del 17%, mentre verso l’Europa si è registrato un calo dell’1%. Ciò che era già successo con gli Stati Uniti, cioè il calo drastico delle esportazioni cinesi, comincia a verificarsi dunque anche con l’Europa. I cinesi guardano altrove. Solo in Russia il boom degli elettrodomestici ha fatto lievitare l’export di Pechino del 50%. Guardando i dati nel loro complesso, si comprende che oggi per la Cina il mercato in maggiore espansione è l’America Latina, che nel 2017 dovrebbe equivalere all’Europa o addirittura superarla. Ma anche l’Africa, dimenticata da tutti gli altri, per i cinesi è un mercato a tutti gli effetti. La sua quota nell’export di Pechino aumenta con un ritmo da capogiro: entro 10 anni il Continente Nero potrebbe diventare il secondo mercato estero per la Cina.

Il peso che gli scambi commerciali con il gigante asiatico hanno assunto nelle diverse aree del pianeta determina anche differenti valutazioni e reazioni nei confronti della crisi. Non c’è dubbio che la buona risposta alle difficoltà planetarie offerta dall’America Latina e dall’Africa sia fondamentalmente legata all’aggancio tra questi mercati e la Cina (e, più in generale, ai rapporti sempre più stretti con l’area del Pacifico). Per il 2012, mentre tutti i numeri che riguardano la crescita del PIL sono in negativo in Europa, con la sola eccezione della Germania, i cinesi si aspettano ancora un +7,5% e i brasiliani un +3%.

Si tratta di incrementi minori di quelli del passato, ma pur sempre rilevanti. Per ora la crisi sta solo rallentando la crescita dei BRICS. La domanda è quanto resisteranno questi Paesi se la crisi andrà avanti. Oppure, se la crisi peggiorerà, quanto potranno resistere al contagio. C’è chi dice che in questo caso potrebbero addirittura guadagnarci: teoria tutta da dimostrare, ma ciò che è indubbio è che USA e Europa, quando usciranno dalla crisi, non troveranno più lo stesso mondo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

L’attuale crisi finanziaria ci tiene compagnia, si fa per dire, da ormai quattro lunghi anni. Nel 2008 si pensava che sarebbe stata relativamente passeggera, e focalizzata in gran parte sui problemi dell’economia statunitense. La realtà ha purtroppo smentito quest’analisi. Erano stati sottovalutati due aspetti fondamentali del momento economico. Il primo era la profondità della crisi, che andava a intaccare la struttura portante del capitalismo finanziario in quanto “sistema”; un indizio che lasciava intuire come, dopo gli USA, l’uragano avrebbe colpito in pieno l’Europa. Il secondo era il fatto che la crisi si stava ponendo come spartiacque tra due periodi della geopolitica e dell’economia mondiale. Non a caso, in questi anni, i cinque Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) hanno praticamente raggiunto il 20% del PIL mondiale, accumulando nelle loro casse un terzo delle riserve valutarie globali. L’economia cinese e quella brasiliana sono diventate rispettivamente la terza e la sesta del pianeta.

Un altro dato che rende l’idea dei mutamenti in corso è il fatto che oggi i 26 Stati più industrializzati realizzano il 48% del PIL mondiale: per la prima volta in due secoli, meno della metà del totale. E mentre l’Europa taglia diritti e welfare in modo ragionato (Francia, Germania) o in modo selvaggio (Grecia, Portogallo), nei Paesi emergenti i diritti aumentano e migliorano anche le condizioni di vita. In Brasile, in pochi anni sono usciti dalla povertà 40 milioni di cittadini; la Cina ormai delocalizza alcune produzioni in Vietnam per via dell’aumento del costo della manodopera locale.

La crisi ci sta lasciando un mondo nel quale le distanze tra gli Stati, fino a ieri abissali, si sono accorciate. Un pianeta che va re-interpretato, perché la chiave di lettura “Nord-Sud” non è più sufficiente. Dal club ristretto dei G8 si è passati in modo indolore ai G20. Senza dubbio è stato un passo avanti verso la democratizzazione della politica internazionale, ma fuori dalla porta del salotto buono continuano a esserci decine e decine di Paesi. Siamo visibilmente tornati ai tempi delle potenze, con la differenza che rispetto al passato le potenze si sono moltiplicate.

Insomma, viviamo in un mondo in confusione, che non ha ancora trovato un nuovo equilibrio e nel quale non ci sono uno o due baricentri in grado di reggere l’ordine internazionale, come nello schema della Guerra Fredda. Il rischio è il ritorno di fiamma della microconflittualità, come in effetti sta avvenendo; guerre che magari non creano grandi sconvolgimenti geopolitici, ma rendono comunque un inferno la vita delle persone coinvolte.

C’è però anche un aspetto positivo, ed è che oggi tanti soggetti nuovi trovano spazio per “fare politica” e per incidere davvero sulla vita comune. Le realtà con voce in capitolo sugli equilibri politici ed economici si sono infatti moltiplicate: i movimenti, le ONG, le “piazze”, il popolo di Internet, la cittadinanza attiva, tutte modalità di una nuova politica che in questo quadro di incertezze trova maggiori margini d’azione. Forse un cambiamento in positivo è possibile, se non sprecheremo questa opportunità per ripensare noi stessi.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Quando, nella notte fra il 9 e il 10 novembre del 1989, cadde il muro di Berlino, finì simbolicamente l’ordine internazionale che aveva preso il nome di bipolarismo. Si apriva una nuova era nella quale la dimensione geografica delle relazioni tra Stati passava dall’asse Est-Ovest a quello Nord-Sud, per un breve periodo in modo unipolare, cioè sotto la guida esclusiva degli Stati Uniti, per approdare poi all’attuale multipolarismo, nel quale una serie di potenze fino a ieri regionali, come il Brasile, la Cina e l’India, hanno acquistato un ruolo di attori globali di primo piano.

Gli Stati Uniti rimangono al centro del grande gioco, ma in una posizione intermedia rispetto al passato, che viene definita di “egemonia selettiva”. Gli USA, senza più una potenza altrettanto forte dal punto di vista militare quale fu l’URSS, scelgono liberamente dove e quando intervenire in base a una “selezione” dei loro interessi nazionali o commerciali. L’odierna mappa geopolitica del mondo è sempre meno omogenea, sempre più a macchia di leopardo: si alternano aree di pace e aree di conflitti, potenze regionali e Stati rimasti tali soltanto sulla carta, alleanze nuove e fortissime tra Paesi asiatici, Cina in primis, e Paesi africani e latinoamericani.

Un solo dato resta fermo: nel mondo si contano oggi 26 conflitti armati, tutti con antiche radici, che comportano un costo economico e di vite umane altissimo. Più guerre di quelle che affliggevano il pianeta durante il precedente ordine bipolare. C’è chi parla di una situazione di guerra civile internazionale, conteggiando non soltanto gli scontri militari veri e propri, ma anche le crescenti tensioni tra popolazioni autoctone e immigrati, le potenziali guerre dell’acqua e le conseguenze del cambiamento climatico.

Questo mondo multipolare è anche frutto della globalizzazione, fenomeno secolare, ma che negli anni Novanta del Novecento ha ripreso velocità e consistenza. La globalizzazione tende a frammentare il mondo, per ricompattarlo sotto il segno dell’economia transnazionale. Ora stiamo invece registrando l’arroccamento di antichi aggregati di Stati: è il caso dell’Unione Europea, ma anche del moltiplicarsi di nuove associazioni regionali (Mercosur, Unione Africana, Asean). Il dato di novità più vistoso rimane però il superamento dell’esercizio della governance mondiale da parte del club delle vecchie potenze. Il G8 è ormai un ricordo. Oggi la politica globale si decide nel G20 e nel BRICS, il club delle nuove potenze (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che annovera tra i suoi membri il più grande creditore degli Stati Uniti, il Paese che da solo avrebbe la possibilità di mandare in default il gigante americano: la Cina.

La transizione che si è aperta nel 1989, da un vecchio a un nuovo ordine, non si è ancora conclusa. Ma alcune linee guida sono evidenti: l’esplosione di conflitti latenti in mancanza di governance, il riequilibrio tra vecchie e nuove potenze, la tentazione del ritorno al protezionismo, il ripensamento di norme per governare la globalizzazione e l’agonia delle istituzioni finanziarie (FMI e Banca Mondiale) quali regolatori mondiali dell’economia. È difficile ipotizzare come sarà il mondo tra 10 anni, ma la grande notizia è che il pianeta è di nuovo in movimento, dopo che l’equilibrio del terrore nucleare lo aveva paralizzato per 50 anni.

Alfredo Somoza

per http://www.dialoghi.info

Negli anni Ottanta era la bestia nera dei movimenti che in tutto il mondo si battevano per una soluzione al problema del debito estero dei Paesi in via di sviluppo e veniva dipinto come un direttorio, nato all’indomani degli accordi di Bretton Woods del 1944, a tutela del ruolo del dollaro USA quale moneta di riferimento per gli scambi mondiali: stiamo ovviamente parlando del Fondo Monetario Internazionale, che da statuto doveva occuparsi di garantire la stabilità monetaria mondiale e favorire gli scambi commerciali. In realtà esso era diventato il guardiano degli interessi degli Stati più industrializzati, imponendo ricette recessive ai Paesi indebitati e classificando i governi in buoni e cattivi, sempre a senso unico. Questo perché il suo meccanismo di governo, che non prevede la formula “una testa-un voto”, assegna la maggioranza a un gruppo di Stati europei, al Giappone e agli USA, in base al capitale versato. Da organismo di regolamentazione delle valute a club dei creditori e superministero dell’economia mondiale il passaggio è stato breve. I Paesi indebitati, a esclusione di quelli che detenevano la maggioranza dei voti del FMI come gli Stati Uniti stessi, si sono visti imporre le famigerate “ricette” del FMI, cioè piani di aggiustamento strutturale perfettamente allineati con i dettami della dottrina neoliberalista in economia, che hanno portato al ridimensionamento della spesa sociale e previdenziale e alle privatizzazioni dei beni pubblici. Ne sono state vittime in questi decenni realtà come Indonesia, Ecuador, Messico, Egitto, Thailandia e decine di altri Paesi che hanno dovuto cedere la propria autonomia in materia economica ai tecnocrati designati dal FMI. C’è una data simbolica a partire dalla quale le cose hanno iniziato a cambiare, seppur lentamente: dicembre 2001, quando l’Argentina dichiarò il default malgrado le attenzioni decennali che le erano state riservate da parte del Fondo Monetario. In quei mesi si cominciò a parlare di “uscita dal FMI” come unica possibilità per cambiare le cose. Negli anni successivi si è fatta avanti anche un’altra linea, sostenuta dal Mercosur: provare a estinguere i debiti verso il FMI e puntare a contare di più all’interno della sua assemblea, aumentando il capitale versato. Questa politica ha portato all’annuncio in seno al G20 di un’imminente riforma dell’istituzione monetaria. Una riforma che sottrarrà due posti all’Europa per assegnarli ai Paesi del BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) e al riequilibrio dei meccanismi di voto in base a una ricapitalizzazione (la quale porterà, per esempio, India e Cina ad accrescere del 6% le proprie quote). Questo cedimento dei “Grandi” non è dovuto a un tardivo rigurgito democratico, ma alla consapevolezza che o si allarga il tavolo delle decisioni oppure non esistono possibilità di trovare una soluzione ai problemi globali. Un equilibrio nuovo, che ora tutti cominciano a voler raggiungere e che potrebbe far voltare definitivamente pagina rispetto all’eredità del colonialismo e delle navi cannoniere. L’elezione del nuovo Direttore Generale ci darà un’indicazione di quanto vogliano resistere ancora le vecchie potenze prima di prendere atto dei mutati equilibri mondiali

Alfredo Somoza