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La Cina è lo Stato più antico del mondo. 4000 anni di continuità territoriale, politica e linguistica spezzata nel ’900, ma solo dal punto di vista socio-politico, con il passaggio dal Celeste Impero alla Repubblica Popolare. Una rivoluzione, quella maoista, che abolì la nobiltà e distribuì la terra pubblica ai contadini, ma non cambiò l’essenza di un Paese nato attorno al nucleo statale modellato da Confucio e che rappresenta, in pieno terzo millennio, la versione aggiornata degli imperi dell’antichità, basati sul controllo delle risorse e sulla programmazione sociale.

La moderna Cina si è data come prossimo traguardo il più epocale cambiamento sociale mai tentato. Si tratta del piano per urbanizzare 400 milioni di contadini che abitano le aree rimaste arretrate dopo 30 anni di boom economico basato sullo sviluppo industriale e dei servizi.  Pechino prevede di investire una cifra da capogiro: ben 5 mila miliardi di euro da spendere nel prossimo decennio per garantire ancora alti livelli di crescita nei successivi 10 anni. Una programmazione che si spinge fino al 2035, un lasso temporale che mai nessuna potenza (vecchia o nuova) avrebbe potuto immaginare. La logica di questo piano, formulato dalla nuova dirigenza del Partito Comunista appena insediatasi, è che “recuperando” 400 milioni di cinesi al mercato della produzione industriale e dei consumi si porranno le basi per mantenere in attivo gli indici di crescita economica ancora per decenni.

Il piano servirebbe anche a “regolarizzare” i circa 200 milioni di cinesi che senza autorizzazione, ma anche senza espliciti divieti, si sono già spostati nelle città della costa. Cittadini che alimentano le catene di montaggio ma che non godono, non avendo avuto l’autorizzazione a cambiare residenza, dei servizi di base quali la sanità, l’educazione o l’abitazione. Il piano di urbanizzazione a tappe forzate, nelle intenzioni di Pechino, non dovrebbe appesantire ulteriormente le attuali metropoli, bensì sviluppare le città di “piccole” dimensioni (su scala cinese, quelle che oggi contano tra uno e due milioni di abitanti). Se il piano, finanziato con emissioni a catena di titoli di Stato, dovesse avere successo, la Cina del 2025 avrà una popolazione concentrata per il 70% nelle aree urbane.

Si tratta di un’impresa ciclopica, che presenta però grossi rischi se non sarà guidata con pugno di ferro. Da una parte si dovrà garantire una maggiore ridistribuzione del reddito per evitare i conflitti sociali, e dall’altra bisognerà evitare che lo svuotamento delle campagne incida pesantemente sulla sovranità alimentare di un Paese in bilico tra quanto è in grado di produrre e quanto ha bisogno di importare. Il riso, alimento di base dei cinesi e pilastro dell’agricoltura, è storicamente il prodotto che ha garantito l’autarchia alimentare. I dati dell’import di questo cereale dicono molto sui cambiamenti in corso: nel 2010 la Cina dovette importare 300mila tonnellate di riso, solo due anni più tardi si sono raggiunti i 2,5 milioni di tonnellate. Lo stesso vale per la carne, di cui la Cina è già il quarto consumatore mondiale, e alla cui produzione viene destinato un terzo della produzione cerealicola locale.

La bilancia agricola cinese nel 2012 ha raggiunto il passivo record di -54 miliardi di dollari. Pechino, come tutti gli imperi, al momento di programmare fa i conti con le riserve globali di alimenti: proprio per questo motivo c’è da essere molto preoccupati per il futuro dell’alimentazione di un mondo dal quale scompaiono progressivamente i contadini, coloro i quali hanno permesso la vita dell’umanità sulla terra dal Neolitico in poi, e sono sempre stati indispensabili per la nascita e lo sviluppo delle città.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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Il 2013 sarà il quinto anno segnato dalla crisi economica esplosa prima negli Stati Uniti e successivamente anche in Europa. Leggendo i pronostici dei più autorevoli studiosi di politica internazionale, si ha l’idea che ormai sia diventata cronica l’impotenza di chi dovrebbe prendere decisioni, giuste o sbagliate, per provare a riattivare un ciclo economico positivo.

Ogni mattina si attende il responso dei mercati incrociando le dita, con lo stesso atteggiamento con il quale gli antichi greci si rivolgevano all’oracolo di Delfi. La passività non si limita all’aspetto economico e finanziario: la politica boccheggia anche su altri fronti. Il massacro in Siria, la deriva nordafricana, l’infinito conflitto afgano e quello israelo-palestinese, i covi dei pirati offshore, le mafie che insanguinano interi Paesi sono tutti problemi da risolvere. Però si rimandano decisioni e azioni a un tempo sempre di là da venire.

Il mondo del 2013 paga le conseguenze di due giganteschi vuoti, l’uno conseguenza dell’altro. Il primo è la mancanza di leadership globale. Gli Stati Uniti rimangono una potenza globale ormai solo in virtù della loro forza militare, ma al loro interno sono dissanguati dal conflitto tra democratici e repubblicani sulla riforma del fisco e più in generale sul modello di società. L’Europa è invece zavorrata dalla crisi dei Paesi più deboli, non risolta in tempo, e dalle politiche imposte da quelli più forti, che dalle difficoltà degli altri Stati cercano di trarre guadagno. La Cina, l’India e il Brasile sono ancora potenze regionali, prive di peso reale negli equilibri “che contano”. Il resto del mondo è semplicemente ininfluente.

Il secondo vuoto, legato al primo, è quello delle idee. Il mondo ha bisogno di una rivoluzione culturale, politica ed economica che parta dal basso. La riflessione sul modello di sviluppo va tradotta in politiche possibili: occorre immaginare meccanismi istituzionali internazionali che stimolino azioni collettive così che si possano produrre beni pubblici globali. E occorre distinguere una volta per tutte ciò che è giusto sia affidato al mercato e ciò che invece deve rimanere di pertinenza della sfera pubblica, perché sia garantita l’universalità dell’accesso ai beni fondamentali.

La qualità dell’ambiente, la redistribuzione di redditi e ricchezze, la promozione di politiche fiscali giuste e sostenibili, il controllo dei mercati, la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione, la riconversione delle fonti energetiche, la lotta senza tregua alle mafie e alla corruzione: tutti questi temi dovrebbero far parte della nuova agenda del mondo.

Davanti alla crisi degli Stati, una simile rivoluzione può nascere soltanto dalla forza di cittadini organizzati e partecipi. Per questo, in testa all’agenda del 2013, va collocata la tutela del primo bene comune: la democrazia, quella vecchia modalità di convivenza civile senza la quale l’orizzonte diventa buio. È proprio lei, la democrazia, che rischia di pagare il prezzo più salato della crisi economica e di credibilità di una politica miope.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare network)

 

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