La globalizzazione dell’economia ha un andamento storico simile a quello delle onde del mare: è fatta di flussi e riflussi. La prima interconnessione delle economie a livello mondiale, e non solo regionale, si può far risalire al XV secolo, cioè al periodo in cui i navigatori portoghesi e spagnoli allargarono gli orizzonti commerciali di un’Europa che, con fatica, usciva dall’isolamento economico e culturale del Medioevo spingendosi fino in Africa, Asia e poi nelle Americhe.
Ciò che ne seguì cambiò la storia del mondo e pose le basi per quelle differenze sostanziali tra popoli dominatori e popoli dominati che, secoli più tardi, sarebbero stati collocati idealmente in un “Nord” ricco e in un “Sud” povero. Ma la storia della costruzione di un mercato mondiale non ha avuto uno sviluppo lineare: piuttosto, è avanzata e arretrata in seguito a sconvolgimenti politici o naturali. L’ultima onda della globalizzazione è iniziata verso la fine degli anni ’80 del Novecento ed è proseguita fino al 2001. Per la prima volta in 500 anni, le storiche potenze industrializzate non trasferivano verso sud soltanto merci da vendere, risucchiando contemporaneamente materie prime e braccia per lavorare, ma trasferivano risorse e conoscenze per produrre altrove a prezzi più vantaggiosi.
Ciò è accaduto anche perché, dopo secoli, ci si è accorti che i Paesi del Sud del mondo potevano anche essere mercati interessanti nei quali lavorare. L’effetto delle delocalizzazioni produttive, dei flussi di capitali, dell’emergere di nuovi mercati “consumatori” in base alle accresciute disponibilità economiche sono stati i motori della veloce crescita dei cosiddetti Paesi emergenti, diventati prima concorrenti sul piano commerciale e subito dopo soggetti di tutto rispetto nel mondo della finanza e dell’industria.
L’odierna crisi economica dei Paesi occidentali ha poco di ciclico e molto di strutturale, se analizzata nel contesto del mondo che cambia. Non sono la crisi del debito, i subprime o la finanza speculativa il nocciolo del problema. Il problema è la crisi, forse definitiva, di un ruolo storico costruito nei secoli precedenti in base a un equilibrio mondiale distorto. Paesi che hanno vissuto al di sopra delle proprie capacità economiche, perché avevano il monopolio industriale e finanziario a livello globale, oggi si interrogano sul loro futuro produttivo senza trovare soluzioni praticabili.
La risposta immediata, anche se poco pubblicizzata, è il progressivo innalzamento delle barriere protettive dei mercati nazionali. Gli stessi Paesi che, negli anni ’90 del secolo scorso, spinsero per la deregolamentazione del mercato mondiale ora che sono in difficoltà si chiudono e promuovono centinaia di ricorsi presso il WTO. E quest’ultimo, da arbitro della globalizzazione, sta diventando una litigiosa assemblea di condominio nella quale tutti urlano e nessuno capisce chi abbia ragione, e soprattutto quale sia il senso dello stare insieme.
L’Occidente ferito si chiude alla concorrenza, i Paesi emergenti chiedono invece maggiori aperture: si delinea un mondo a parti rovesciate, è l’inizio di un riflusso della globalizzazione. Perché chi oggi spezza ancora una lancia a favore della globalizzazione non abita più a Londra, New York o Parigi, ma a San Paolo, Shangai e Kolkata: o, come si diceva una volta, Calcutta.
Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)