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Il settore economico destinato a risentire più a lungo della pandemia di coronavirus è probabilmente il turismo. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite, nel 2020 il comparto soffrirà una contrazione compresa tra il 60 e l’80%, destinata a mettere a rischio 120 milioni di posti di lavoro, con perdite per oltre mille miliardi di dollari. Un crollo senza precedenti, che conferma quanto questo settore economico, che a livello mondiale vale da solo un terzo del totale dei servizi, sia al tempo stesso importante e volatile. Ciò perché il turismo si svolge su tutto il territorio, a differenza delle attività commerciali o industriali che sono circoscritte in spazi predeterminati. Condivide la quotidianità dei cittadini, risente dei loro problemi, sfrutta i loro momenti felici.

Negli anni scorsi si era già pagato un prezzo pesante, tuttavia la crisi si era focalizzata in singoli Paesi o regioni, esposti al rischio di attentati terroristici, sequestri o fenomeni naturali estremi. Mai, invece, in un secolo di storia ci si era trovati a fare i conti con una pandemia che impone la separazione fisica tra le persone come regola non discutibile. Il cosiddetto “distanziamento sociale” è però difficile da praticare, e perfino da immaginare, nel modello di turismo che ha dominato gli ultimi decenni. Oggi quelle pratiche turistiche che garantiscono i grandi numeri sono tutte controindicate: basti pensare alle città d’arte con i loro spazi affollati, ai grandi parchi tematici, ai villaggi turistici, ai “divertimentifici” e soprattutto alle crociere. Chi si trovava in crociera all’inizio della pandemia ha vissuto l’incubo della reclusione su navi diventate focolai infettivi, al largo di Paesi che rifiutavano ogni accoglienza. Da spensierate isole del lusso e dei consumi senza freni a lazzaretti carichi di persone malate e respinte, il passaggio è stato breve. Questo settore del turismo, che negli ultimi dieci anni aveva conosciuto un vero boom, sconterà a lungo la sfiducia dei consumatori.

Ma la pandemia ha messo in luce anche altri problemi, come quello delle città consumate dall’overtourism. Barcellona, Amsterdam, Venezia prima morivano a causa dell’eccesso di turismo, ora per la sua mancanza. Città ipersfruttate, dove spesso i residenti, espulsi dai centri storici proprio dai turisti, si ribellavano all’esodo, ora sono diventate organismi in crisi d’astinenza dalla droga-turismo.

L’agenzia delle Nazioni Unite per il turismo ha lanciato come parola d’ordine lo slogan “la sostenibilità è la nuova normalità”, auspicando che il turismo riparta da principi più sani e, appunto, sostenibili. Per gli operatori che hanno sempre lavorato sui grandi numeri sarà molto difficile tradurre in fatti concreti questa visione. Nessuna impresa turistica potrebbe sopravvivere, visti i margini risicati del settore, al dimezzamento dei clienti necessario per garantire il distanziamento. E tutta la filiera corre lo stesso rischio, in primis i vettori aerei, fortemente sostenuti, negli ultimi mesi, dagli Stati di appartenenza. L’aspetto positivo potrebbe essere invece la valorizzazione di un altro turismo, fatto di piccoli numeri e di destinazioni di vicinanza, capace per la sua stessa natura di evitare l’affollamento. Il turismo responsabile, una piccola nicchia del mercato globale, ha oggi l’opportunità, finora mai nemmeno immaginata, di proporsi non soltanto come modello di equità sociale e di sostenibilità ambientale, ma anche di buona pratica per la ripartenza. In questa fase, il turismo possibile sarà per forza sperimentale: bisognerà scrivere nuove regole per la convivenza e per la convivialità. Piccoli numeri, si diceva, ma servono anche conoscenza e rispetto del territorio e delle persone, e sostegno ai soggetti colpiti dallo tsunami economico. Valori che oggi sono auspicati dalle Nazioni Unite, ma che nel mondo del turismo responsabile sono pratica corrente da molti anni.

Poi ovviamente ci vorrà anche la politica, per immaginare come spalmare i flussi turistici in modo da disintossicare le destinazioni del turismo di massa, come aumentare le ricadute economiche sulle comunità locali, come proteggere la salute dei turisti senza uccidere i valori alla base del turismo: incontrare, conoscere, condividere.

 

A distanza di una trentina di anni dalla sua nascita, il turismo responsabile come dimensione sostenibile della principale “industria” del terziario a livello mondiale, continua ad avere numeri molto piccoli. I viaggi fatti secondo principi di equità economica, sostenibilità ambientale e rispetto delle culture locali è diventato una nicchia di un gigantesco mercato nel quale continuano a farla da padroni villaggi turistici e crociere. La crociera turistica che negli anni ’70 veniva scelta da circa 500.000 persone, oggi trasportano oltre 25 milioni. I beach resort, strutture nelle quali si celebra l’abbondanza spesso in contesti di degrado e miseria, continua a tenere anche se deve scontare l’accusa di avere un impatto negativo sul territorio, anziché essere un’opportunità di sviluppo. Il fenomeno che sta travolgendo le città europee è invece legato all’abbattimento dei costi del trasporto. Masse di turisti indipendenti, per poche ore o giorni, si riversano sulle città d’arte che rischiano di collassare. La progressiva turisticizzazione dei centri storici, dove i residenti vengono man mano espulsi dal vertiginoso aumento del costo della vita e dalla riconversione delle abitazioni in camere d’albero grazie alle multinazionali del web come Airbnb, è ormai considerata un’emergenza. A Venezia, Miami, o Lisbona si rischia la città-cartolina, dove si recitano a vantaggio del turista tradizioni che nella pratica sono state cancellate dallo stesso turismo. A Barcellona e nelle Baleari sono nati addirittura movimenti di protesta. L’overtourism è un tema di riflessione scomodo, perché gli interessi dei bottegai e delle compagnie aeree e marittime, prevalgono su quelli dei cittadini, rischiando di rendere invivibili città che invece di ricevere benefici dal turismo raccolgono solo i guasti che provoca quando viene lasciato a briglia sciolta. Il turismo responsabile è sulla carta l’antitesi di tutto ciò, perché prevedendo l’incontro tra turista e comunità locale ha bisogno appunto di quest’ultima. Ma anche perché offrendo destinazioni alternative contribuisce, in piccolo, a decongestionare i grandi centri turistici. Il punto resta però quello del governo del fenomeno. La posizione di chiusura preventiva al turismo ha molto di elitario. Non si può rimpiangere i bei tempi andati quando solo i ricchi si potevano permettere di conoscere il mondo. Per la Francia ad esempio il turismo è un diritto, ma bisognerebbe aggiungere, è anche un diritto per i residenti porre dei limiti e stabilirne le modalità. Il turismo a differenza di altre attività economiche non si svolge in luogo chiuso, come le fabbriche o i centri commerciali, ma ovunque. Il turismo consuma beni comuni senza spesso contribuire alla loro gestione. E in questo caso il cliente non ha sempre ragione, la sostenibilità deve essere trovata nella mediazione tra gli interessi di residenti e visitatori. Per questo i promotori del turismo responsabile non parlano mai di turista responsabile, ma di turismo responsabile. Intendendo cioè il dialogo virtuoso tra comunità ospitante, operatore commerciale, e turista. Se si vorrà dare la possibilità al turismo di continuare a produrre reddito e lavoro bisognerà per forza arrivare a questa concertazione. La sostenibilità e la responsabilità non sono un optional, sono l’unica chiave di volta per il futuro del settore. Il turismo che prospera mettendo in vetrina la bellezza e la diversità di questo mondo non può permettersi di essere considerato uno dei fattori che contribuiscono al suo degrado.

 

La geografia del turismo, cioè la mappa delle destinazioni in cui si reca il miliardo e 200 milioni circa di turisti che scelgono di trascorrere il tempo libero fuori dai propri confini nazionali, è cresciuta e si è arricchita negli ultimi 30 anni. Prima degli anni ’80, l’Europa attirava quasi il 75% dei flussi, mentre nel 2015 ne richiama “solo” il 51%. Questo perché la rivoluzione del traffico aereo, la fine della Guerra Fredda, la globalizzazione, l’aumento della speranza di vita e del reddito in Occidente hanno triplicato i flussi turistici, ai quali cominciano a dare un importante contributo anche i paesi emergenti come Cina, Russia e Brasile.

Negli ultimissimi anni, però, questa crescita si è arrestata e anzi, la mappa delle destinazioni si sta restringendo. Interi Paesi sono diventati off-limits per via di conflitti, come la Siria, l’Afghanistan o la Libia. Altri vengono evitati a causa della violenza nelle città, come il Venezuela o la Nigeria. Altri, infine, perché ritenuti poco sicuri dopo episodi terroristici che hanno colpito i turisti. La Tunisia è stata più volte colpita e ora anche l’Egitto, dove sul Sinai è stato fatto esplodere un charter russo con il tragico bilancio di 224 persone morte. Ma non solo. Anche i villaggi sul Mar Rosso sono stati attaccati più volte da gruppi terroristici che sanno bene dove puntare: per l’Egitto, il turismo e i diritti di passaggio dal Canale di Suez sono la prima voce del bilancio dello Stato.

Il paese sul Nilo, che è una delle più antiche destinazioni di turismo culturale del Mediterraneo, a partire dagli anni ’80 aveva aperto anche al turismo da spiaggia sulle coste del Mar Rosso. Raggiungendo numeri di tutto rispetto, come erano i 14 milioni di visitatori registrati nel 2010. Poi è cominciato il declino, dovuto all’instabilità politica e al terrorismo. Oggi i turisti internazionali si possono stimare in non più di 7 milioni all’anno, la metà rispetto a 6 anni fa. Tra i grandi Paesi di provenienza per il turismo egiziano c’è l’Italia, con circa un milione di presenze annue ai tempi d’oro. Ora si aggiunge un’ulteriore  variabile negativa per il Cairo: il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso dopo sevizie inenarrabili, ha innescato in Italia un movimento d’opinione che chiede di utilizzare la leva turistica per ottenere risposte veritiere dal governo egiziano.

È dai tempi della dittatura in Birmania e della carcerazione del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi che non si ipotizzava di utilizzare il turismo come arma di ritorsione contro una dittatura. Il turismo non è soltanto una voce importante dell’economia globale, ma è anche un veicolo per la conoscenza e lo scambio pacifico tra i popoli. Il turismo si è dotato in questi anni di strumenti etici per condannare, ad esempio, lo sfruttamento sessuale o lo scempio ambientale. La domanda che si è posta l’Associazione Italiana Turismo Responsabile, il network italiano degli operatori del turismo sostenibile, al momento di annunciare la sospensione della programmazione di viaggi verso l’Egitto, è stata: è lecito portare turisti italiani a conoscere un Paese nel quale un nostro connazionale è stato torturato e ucciso senza che ci siano date spiegazioni? È corretto sostenere indirettamente, con i soldi dei viaggiatori, un regime responsabile della sparizione di centinaia di oppositori dei quali non si sono più avute notizie?

La risposta, per AITR, è stata no. E ciò ha aperto un dibattito con il settore turistico convenzionale, che in Egitto ha investimenti miliardari. Ma a prescindere dalle polemiche sull’opportunità di chiedere ai turisti di evitare di andare in Egitto, i consumatori stanno scegliendo da soli, mettendo sul piatto della bilancia aspetti che riguardano sia la sicurezza personale sia l’irritazione per le manovre di depistaggio attuate dal regime egiziano. Il turismo torna così alla ribalta come qualcosa di più di una semplice attività economica, per diventare anche strumento di pressione e di politica internazionale. Gli stessi turisti che sempre più spesso sono nel mirino dei terroristi possono a loro volta, da consumatori responsabili, mettere nel mirino i regimi con una semplice azione. Decidere di cambiare destinazione, verso Paesi più aperti, più tolleranti, più democratici.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

 

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Alla fine degli anni ’80, quando cadevano i vincoli per gli investimenti internazionali e si aprivano al mondo Stati fino a quel momento ermeticamente chiusi, il turismo era uno dei settori più promettenti: beneficiava infatti direttamente di entrambe queste novità. Nacquero allora i beach resort in Africa, Asia e America Latina dove, con la formula tutto compreso, anche chi non era mai uscito dal suo Paese poteva provare il brivido dell’esotico. I voli charter scaricavano ogni mese a Malindi, Sharm el-Sheikh, nello Yucatán milioni di nuovi turisti che davano vita al primo fenomeno di turismo di massa globale.

La geografia del turismo, quella nella quale sono evidenziati i Paesi e le località con attrattive naturali, culturali e un buon livello organizzativo e di sicurezza, si estendeva praticamente a tutti i continenti. Alle mete storiche, in Europa e Stati Uniti, si erano aggiunte centinaia di destinazioni emergenti in Paesi senza tradizione turistica. Era il mondo che si avviava verso la globalizzazione, il mondo senza frontiere e nel quale bisognava conoscere e interpretare le culture degli altri.

Tanto entusiasmo non privo di retorica ha avuto però vita breve. I primi segnali dai quali si poteva intuire che qualcosa non stava funzionando sono arrivati dall’ambiente, per esempio dalle barriere coralline del Mar Rosso che scomparivano in fretta. Poi le tracce d’insofferenza delle popolazioni locali, escluse dai benefici del turismo, sono diventate aggressività nei confronti dei viaggiatori. Infine sono arrivati i rischi seri per i turisti, pericolo di vita compreso, nei Paesi sconvolti da lotte per il potere tra Stato, gruppi estremisti, bande criminali. Anche le crociere, ultima frontiera della sicurezza, non godono di buona salute. I frequenti incidenti sulle nave e fuori delle navi che hanno riempito le cronache di questi anni hanno reso chiaro che non esiste oggi una possibilità sicura al 100% per viaggiare in questo mondo sempre più instabile.

La geografia del turismo oggi si è molto ristretta, tornando quasi ai livelli della Guerra Fredda. L’Africa e il Medio Oriente sono in buona parte off-limits, le metropoli latinoamericane e interi Paesi come il Messico sono diventati pericolosi, il Mediterraneo è mare di tragedie e di lutto più che di divertimento.

Il turismo non è certo responsabile della situazione odierna, se non in modo proporzionale al suo peso economico, ambientale e sociale. In particolare, laddove il turismo di massa si è appropriato di una località per farla diventare appetibile si sono ripetuti sempre gli stessi fenomeni di danno ambientale, di marginalizzazione della popolazione locale e di diffusione della corruzione, del traffico di droghe e della prostituzione. Il turismo in quello che era il Terzo Mondo ha portato sviluppo solo in rari casi, e tanti Paesi che oggi dipendono pesantemente dei suoi flussi continuano a essere poveri e iniqui.

Il turismo non ha reso migliori i luoghi che ha toccato negli ultimi anni perché renderli migliori non era previsto nel business plan e nella mission delle compagnie multinazionali. Solo le piccole esperienze di turismo responsabile e comunitario hanno testimoniato, qua e là, che un altro turismo, motore di promozione sociale e di tutela ambientale era possibile: ma senza mai contagiare la grande industria.

Oggi più che mai l’intero settore è chiamato con urgenza a ripensare il suo modo di essere e di operare. Il territorio e la gente che lo abita non sono solo un contorno garantito e scontato a far da cornice all’offerta. Non è possibile costruire isole di abbondanza e di spreco in mezzo alla miseria senza pensare che, prima o poi, se ne pagheranno le conseguenze.

Occorre prendere coscienza del fatto che il turismo attuale è lo specchio delle aspettative di un modello di sviluppo e dei consumi ormai fuori dal tempo. È imprescindibile tornare all’essenziale, alla dimensione della conoscenza di luoghi e di scambio con le persone, ritrovando lo spirito con il quale il turismo nacque, per provare ad allargare la ristretta geografia turistica odierna. Una ristrettezza che testimonia il fallimento di molte aspettative sulla globalizzazione e, molto più in piccolo, delle illusioni del turismo globale di massa.

Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)

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Gli Achuar sono un’etnia che vive nel folto della grande foresta a cavallo tra Perù ed Ecuador, e per questo vittime designate ogni volta che si è riacceso il conflitto sui confini tra i due paesi andini, che ha già prodotto lungo il ‘900 due guerre, l’ultima nel 1995. I confini imposti dall’uomo bianco nel diciannovesimo secolo hanno diviso un popolo a metà e assegnato a ciascuna delle due parti una “nazionalità” diversa e contrapposta.

Le comunità Achuar ecuadoregne che vivono nella regione amazzonica dove si incontrano i fiumi Pastaza e Capahuari, vicino al confine con il Perù, stanno consolidando il controllo del loro territorio grazie al turismo, dimostrando in modo concreto che gli indigeni sono in grado di gestire l’immenso patrimonio naturale che in diversi paesi del Sud America come l’Ecuador, il Brasile e il Cile è stato loro riconosciuto dallo Stato. Il Kapawi Eco Lodge non è semplicemente uno dei tanti eco-aberghi nella foresta, è un progetto politico e uno strumento che genera risorse economiche per sostenere un processo di autodeterminazione. Tutta la filiera è di proprietà indigena, dall’agenzia a Quito, dove si vendono i pacchetti, all’aereo che porta i turisti nel cuore dell’Amazzonia, fino ovviamente all’albergo della foresta e alle guide locali.

Gli Achuar del Rio Pastaza dicono che quanta più gente verrà a conoscere l’Amazzonia in modo sostenibile, tanto più crescerà la coscienza ambientale e la conoscenza dei diritti delle etnie che vi vivono. Dicono anche di credere che la creazione di un santuario binazionale della natura possa porre fine alle ridicole dispute degli stati per confini tracciati sulla carta e unificare di nuovo un popolo diviso artificiosamente dalla storia. Il turismo, che spesso ha pesanti impatti culturali, economici ed ambientali e che alimenta in America Latina ogni sorta di squali locali e multinazionali, qui è invece parte di una strategia di resistenza e di sviluppo. Ogni tre mesi i gestori del sistema turistico si riuniscono con i consigli tribali della zona per decidere insieme quali opere finanziare con i profitti derivati dall’afflusso dei turisti. Parte dei ricavi serve per pagare gli studi dei ragazzi Achuar, che diventeranno guide, cuochi, manager turistici, ma anche medici, avvocati, ingegneri. Gli Achuar stanno dimostrando, nel cuore dell’Amazzonia, la validità dello slogan di Porto Alegre sull’”altra economia possibile” e ci ricordano quanto oggi le lotte di resistenza possono assumere forme inconsuete, sfruttando il mercato e mantenendo sempre saldi i valori dell’unità, dell’obiettivo condiviso, della partecipazione.

Alfredo Somoza

 

In questi mesi a Parigi è stata allestita una grande mostra per ricordare una pagina cancellata della storia d’Europa, gli zoo umani. Nelle esposizioni universali a cavallo tra Ottocento e Novecento– quelle di Bruxelles, Londra, Milano, Parigi, Barcellona – una delle principali attrattive erano i cosiddetti “giardini di acclimatamento”, nei quali non ci si limitava a presentare la flora e la fauna dei Paesi esotici, all’epoca quasi tutti colonizzati dall’Europa. In questi veri e propri zoo veniva riprodotta anche la vita dei popoli tribali.

Intere famiglie di pigmei, di amerindi della Terra del Fuoco e dell’Amazzonia, di boscimani sudafricani, di karen birmani strappati dai loro villaggi con la forza o con l’inganno dovevano recitare la loro vita quotidiana davanti agli occhi dei borghesi delle metropoli europee. Molti morivano di malattia, altri finivano rovinati dall’alcool, diversi si suicidavano, pochi tornavano a casa.

Nel XXI secolo gli zoo umani non sono più ammissibili. In compenso si praticano tranquillamente i safari umani.Quelli che si celano dietro il cartello politicamente corretto di “etnoturismo”, una tipologia di viaggio costosa, che porta il turista a contatto con popoli indigeni sui loro territori ancestrali. Le etnie oggetto di questo turismo sono le stesse che un tempo venivano esposte nei giardini di acclimatamento. Tranne quelle nel frattempo scomparse, è ovvio.

La più grande ONG che si batte per i diritti dei popoli tribali, Survival International, chiede da anni il bando del turismo cosiddetto etnico, perché fatto sulla pelle degli indigeni senza che essi ne ricavino alcun vantaggio. Anzi, molti di questi popoli a contatto con il turismo si sono ridotti a recitare, a banalizzare la loro cultura tradizionale a vantaggio degli spettatori di turno. Basta pensare a ciò che è accaduto ai masai del Kenya, alle finte cerimonie induiste a Bali, alla cremazione dei corpi in India o ai rituali del vudù haitiano.

Spesso chi assiste a queste esibizioni non ha coscienza del fatto che la mercificazione di riti e tradizioni è causa di gravi danni culturali. Quando però il turista sceglie di addentrarsi nei territori tribali, oltrepassa consapevolmente un limite che in molti Paesi è invalicabile anche dal punto di vista legale. In tutto il mondo, gran parte delle popolazioni indigene vive in zone che suscitano grandi appetiti economici, spesso scenario di violenze e conflitti armati. La cronaca riporta con regolarità notizie di turisti “avventurosi” che vengono derubati, sequestrati o uccisi: ma, evidentemente,questo non basta per far riflettere sull’inopportunità di recarsi in posti nei quali non si è voluti. E nemmeno a mettere in guardia sui rischi che, andandoci, si potrebbero correre.

Esistono piccole esperienze di turismo responsabile pensate insieme a popoli indigeni, in America Latina e in Asia. Sono viaggi ideati e realizzati con alcune comunità locali che hanno deciso di ricevere turisti e pongono limiti e vincoli alla loro presenza. Da questi visitatori ricavano un vantaggio economico che verrà utilizzato per progetti comunitari;per di più gli uomini e le donne accolti nelle comunità diventano spesso sostenitori delle loro cause. Il resto è un triste teatrino, molto spesso allestito con la complicità di regimi totalitari che utilizzano le etnie autoctone per attirare turisti: un’ulteriore umiliazione per popoli che hanno già subito troppo.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Se si apre la pagina di un vocabolario alla voce “turismo” e se ne cerca la definizione, essa apparirà chiara, senza possibilità di equivoco: “Attività consistente nel fare gite, escursioni, viaggi, per svago o a scopo istruttivo”. Fin qui l’aspetto esteriore del fenomeno: rassicurante e limpido.

Ma quando si va a “leggere” il turismo sotto il profilo sociale, economico, culturale e politico, il discorso si fa assai meno esplicito. Anzi, diventa fortemente contraddittorio, in bilico tra valenze positive e negative.

Fin dai suoi albori, infatti, il turismo ha creato lacerazioni, modificato o stravolto equilibri millenari, cancellato o relegato in angoli bui tradizioni e usanze. Gli statunitensi sono stati i primi a potersi permettere il viaggio all’estero. Negli anni ’60 è arrivato il turno degli europei, poi ancora di canadesi, giapponesi, australiani e infine, dagli anni ’80 in poi, delle minoranze abbienti dell’India, del Brasile, della Cina.

Gli acceleratori fondamentali che hanno trasformato il viaggio in un elemento macroeconomico sono stati tre: la disponibilità di tempo libero e di un reddito medio-alto in Occidente; l’apertura di decine di Stati agli investimenti turistici; e l’evoluzione dei mezzi di trasporto che gradualmente hanno ridotto le distanze, fino a ridicolizzarle. La miscela di questi tre elementi ha fatto sì che il turismo divenisse fenomeno di massa, con tutte le conseguenze del caso.

Attualmente ben 800 milioni di persone all’anno escono dai confini dei propri Paesi per ragioni turistiche. Il settore è ormai la principale voce negli scambi commerciali mondiali: produce 3800 miliardi di dollari USA all’anno di fatturato (il 7% del prodotto lordo del pianeta) e offre impiego a 220 milioni di persone (ciò significa che, nel mondo, ogni 15 occupati uno lavora in questo ambito). Ma anche nel turismo le differenze tra il Nord e il Sud del pianeta sono abissali: l’80% degli spostamenti internazionali è appannaggio dei residenti di soli 20 Paesi.

Per valutare complessivamente questo settore, soprattutto per quanto riguarda il suo ruolo nello sviluppo del Sud del mondo, basta conoscere alcune percentuali riguardanti la distribuzione del prezzo dei pacchetti turistici tra l’operatore e il Paese di destinazione: in Kenya rimane solo il 30% di quanto pagato all’acquisto del viaggio, in Nepal il 47%, in Thailandia il 59%, in Sudamerica una media del 50%.

Per offrire un’alternativa a questo modello è nato negli anni ’80 il concetto di “turismo responsabile”, un turismo sostenibile che non comprometta il patrimonio ambientale, culturale e sociale del territorio che ne è meta. Un modo di viaggiare che sia giusto ed equo per la comunità ospitante, economicamente ed ambientalmente sostenibile nel lungo periodo.

L’affermazione del turismo sostenibile rappresenta quindi una grande potenzialità per molti Paesi del Sud del mondo: sia in ambito strettamente economico, attraverso la crescita dell’occupazione locale e l’introito di valute forti; sia in campo sociale, grazie alla valorizzazione delle risorse ambientali, umane e culturali. Un “plus” che lo sviluppo di altri settori produttivi non consentirebbe.

Le cooperative sociali, le associazioni ambientaliste, le reti d’accoglienza create dalle donne e tra donne, perfino i piccoli pescatori locali stanno diventando i nuovi soggetti di un turismo che crea vera occupazione, valorizza il territorio e redistribuisce nella comunità il reddito prodotto. È una nuova dimensione della qualità del viaggio che si basa sulla condivisione, sul rispetto dell’ambiente e delle culture locali. E che concorre alla crescita individuale e collettiva della persona a partire da un rapporto autentico con l’altro.

 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR)