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E’ uscito il Rapporto OCSE sulle migrazioni nei paesi membri. A conferma di quanto era facile intuire, e confermando una precisa regola storica, i flussi di immigrazione si dirigono verso i paesi nei quali ci sono opportunità di lavoro. I numeri degli arrivi per i paesi mediterranei dell’Europa fotografano infatti la crisi profonda dell’area. L’Italia è passata da 572.000 immigrati permanenti del 2007 a 250.000 nel 2012 (-55%), la Spagna ha registrato un calo del 70%, Grecia e Portogallo si attestano attorno al -80%. Queste cifre andrebbero analizzate insieme all’altro dato, quello della ripartenza di flussi di emigrazione dagli stessi paesi. Dalla sola Spagna sono partiti circa 500.000 cittadini negli ultimi tre anni alla ricerca di opportunità all’estero e dall’Italia nel 2013 sono andati via 100.000 italiani (+ 55% rispetto al 2012). L’OCSE rileva uno specifico non proprio positivo dell’Italia, che non avendo mai avuto una politica attiva di incentivazione dell’immigrazione di profilo medio-alto, ha una mappa migratoria fortemente presente nei comparti lavorativi poco qualificati, con grandi concentrazioni nei settori dell’assistenza alla persona, l’agricoltura e il commercio ambulante. Immigrati che ora non sono più visti come “quelli che ci portano via il lavoro”, ma come “quelli che ci portano via l’assistenza”. I terreni sui quali si combatte la nascente guerra tra i poveri nelle periferie milanesi o romane sono la casa, l’assistenza, la scuola pubblica, i sussidi. Un fenomeno che si può attribuire alla crisi, ma che rischio di diventare un dato consolidato. Un mix micidiale, tra immigrati di bassa scolarizzazione vulnerabili ai cambiamenti del mercato del lavoro e poco resistenti alle crisi economiche e di ragazzi con alti livelli di formazione (che hanno richiesto ingenti investimenti pubblici) che emigrano. Un mercato del lavoro che si impoverisce e una rete di welfare che fa acqua. Questi sono i problemi da affrontare con urgenza oggi. Come rinnovare e ricreare un welfare inclusivo che non badi soltanto alla terza età e quale incentivi per il ritorno dei cervelli in fuga. Quale politiche migratoria per il futuro.

Questioni troppo complesse per chi fa l’imprenditore della paura e soffia sul fuoco, ignorando anche le statistiche, e anche per chi fa finta di niente pensando che qualche mano invisibile possa sistemare le cose. In politica è meglio sbagliare che restare fermi. Noi oggi stiamo cominciando a raccogliere i frutti velenosi prodotti dall’immobilismo degli ultimi 20 anni e insistere con la politica dello struzzo può essere solo foriera di sciagure, neanche tanto lontane nel tempo.

 

Alfredo Somoza

 

asilo-politico

I navigatori portoghesi che riuscirono a circumnavigare l’Africa per arrivare in Oriente furono i primi a gettare le basi per la globalizzazione dello scambio di beni o servizi, attività che dal Quattrocento in poi acquisì dimensioni planetarie. La potenza commerciale, in realtà, non andò sempre di pari passo con quella politica o militare: l’Impero spagnolo, egemone militarmente tra il XVI e il XVIII secolo, non fu mai una vera potenza mercantile; anzi, furono altri Stati europei a trarre un duraturo vantaggio dai suoi investimenti in uomini e risorse nelle Americhe, in Asia e in Europa. L’Olanda e soprattutto la Gran Bretagna furono le potenze commerciali per eccellenza dei nuovi tempi, quelli nei quali le cannoniere coloniali non sparavano per l’onore della Corona o in nome della fede, ma per garantire gli interessi delle compagnie private che gestivano i mercati mondiali, quotate alle Borse di Londra e di Amsterdam. Nel Novecento è stato il turno di nuova potenza industriale, militare e commerciale: gli Stati Uniti d’America, che sono riusciti a vincere la sfida posta dall’URSS durante la Guerra Fredda proprio grazie alla loro capacità di produrre merci e venderle, di accumulare risorse e di investirle in ricerca e innovazione, soprattutto nel settore bellico. L’URSS, l’altra grande potenza del XX secolo, per quanto abbia esercitato un potere politico e militare incontrastato all’interno del suo blocco di riferimento, non ha mai creato né alimentato un circuito commerciale degno di nota, se non per lo scambio di beni di base. La ruota fa un altro giro e, nel 2013, la storia ci riporta indietro di 3000 anni: perché la Cina, dopo millenni, è tornata a essere la prima potenza commerciale del mondo. Dopo 13 anni dal suo ingresso nel WTO, la Cina che ha scommesso sul mercato – pur rimanendo a guida comunista – ha superato gli Stati Uniti per il valore degli scambi commerciali con l’estero. Con un volume pari a 4160 miliardi di dollari USA, oltre a diventare il big trader mondiale, Pechino, grazie alla sua bilancia commerciale, guadagna ben 260 miliardi di dollari, a fronte di un “rosso” di 633 miliardi per Washington. Si tratta di un nuovo primato da parte del Paese più popoloso del mondo, che già vantava il primo posto nella classifica della produzione industriale. Oggi la Cina, che dovrebbe assestarsi attorno al miliardo e 400 milioni di abitanti, fabbrica più acciaio degli otto Paesi che la seguono in classifica sommati tra loro. A questo quadro più che positivo si aggiunge quello delle riserve in valuta dello Stato: anche qui, le più consistenti al mondo; ed è prossimo lo sbarco dello yuan nei panieri delle valute di riserva globali. Una mossa di Pechino che non dovrebbe avere ripercussioni sull’euro, ma che si farà sentire su un dollaro reso progressivamente più marginale negli scambi mondiali. La novità dei dati 2013 è che la domanda interna cinese è cresciuta, come voluto dalle autorità economiche nazionali per spezzare la dipendenza dall’export e dagli investimenti pubblici sul mercato interno. Queste rilevazioni confermano come sia sempre più marcata la distanza tra ciò che la Cina realmente è, e il modo in cui questo Paese viene percepito nel mondo. La Cina della miseria rurale, degli operai tenuti praticamente alla catena, degli scempi ambientali e dell’autoritarismo è infatti una faccia della medaglia, quella più nota e pubblicizzata. Ma la Cina è anche fattore di stabilità globale, investitore infrastrutturale in Africa e America Latina, big nel settore delle energie rinnovabili, con una società civile che si va facendo sempre più viva e fertile. Quest’ultima Cina spiega meglio dell’altra il successo globale del Paese che emerge dalle statistiche. Non si tratta sicuramente di un fenomeno passeggero: la più antica potenza mondiale è tornata sulla scena planetaria per restarci a lungo. 

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)
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