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Quando si discute dello sviluppo dei Paesi che una volta chiamavamo “del Terzo Mondo”, siamo tutti d’accordo nel riconoscere il ruolo positivo degli investimenti in infrastrutture, formazione e sanità pubblica. E tutti sosteniamo l’importanza di creare condizioni favorevoli agli investitori. Però, poco o mai si parla di quel flusso costante di valuta pregiata che entra nei Paesi poveri e poverissimi tramite i money transfer e che si distribuisce capillarmente sostenendo i consumi alimentari, gli studi, le cure mediche, l’avvio di attività economiche. In linguaggio tecnico si chiamano rimesse. Sono i soldi che gli emigrati mandano ai familiari rimasti in patria.

In Italia dovremmo conoscere bene questi flussi di denaro: a cavallo tra il XIX e il XX secolo erano uno dei pilastri del bilancio nazionale. In alcune regioni, come nelle Marche, in Liguria e in Friuli, furono il volano per economie locali storicamente depresse. Nel contesto della crisi odierna, le rimesse figurano nel ristretto elenco delle voci dell’economia globale che non conoscono contrazioni. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, nel 2014 si dovrebbero addirittura superare le previsioni. E non parliamo certo di spiccioli: quest’anno ci si attende una movimentazione di rimesse pari a 534 miliardi di dollari USA, 406 dei quali assorbiti dai Paesi emergenti. Molto, ma molto di più dei fondi residuali destinati alla cooperazione allo sviluppo.

I principali destinatari di questi flussi sono India, Cina, Filippine, Messico e Nigeria, seguiti da Egitto, Pakistan, Bangladesh e Vietnam. Soldi che “alimentano” milioni di piccoli commercianti, artigiani, scuole e cliniche private, imprese edili. Le famiglie che ricevono queste rimesse consumano, generano occupazione ed entrate fiscali. E migliorano le condizioni di vita. Sono molti i governi che si adagiano su questi fondi con i quali i cittadini poveri si pagano da soli ciò che lo Stato non fornisce. Per il Tagikistan, la Moldova, il Lesotho, la Tunisia, la Liberia, il peso delle rimesse si aggira tra il 20 e il 40% del PIL nazionale: sono la prima voce dell’economia. Come sempre, dove girano molti soldi c’è chi guadagna sulla movimentazione. Le agenzie specializzate nei trasferimenti applicano una commissione sulle operazioni pari in media al 7,5%, ma in Africa si arriva a toccare il 12%. Praticamente a livelli di usura.

Una politica europea sull’immigrazione non può fare a meno di questo dato: gli immigrati svolgono un ruolo importante, simultaneamente, in due mondi. Sia nei paesi che richiedono manodopera per sostenere i propri livelli di benessere e di produttività, sia nei paesi nei quali le rimesse degli emigrati creeranno sviluppo, capitalizzazione, opportunità di studio e di sostegno alle famiglie.

La politica dell’Unione Europea di sostegno ai ritorni volontari di immigrati rimasti senza lavoro in Europa, con aiuti economici per il viaggio e consulenza, formazione e microcredito nei paesi di origine, è una valida alternativa alla barbarie delle espulsioni coatte e dei CIE. E’ importante che chi torna dopo anni di lavoro in Europa venga sostenuto per il suo reinserimento in paesi che nel frattempo, e sono tanti, sta vivendo un periodo economico di crescita.

Non è possibile però che ci siano 29 diverse politiche sull’immigrazione in ambito comunitario e che drammi come quelli quotidiani a Lampedusa siano problemi dei soli paesi mediterranei. Una politica comune per il Mediterraneo dovrebbe partire dalla creazione di opportunità di lavoro nei paesi della sponda Sud del Mediterraneo, oltre che dalla stabilizzazione della situazione politica in fiamme dopo il crollo dei regimi totalitari a lungo sostenuti dall’Europa stessa.

Partiamo dalle  rimesse, l’unico flusso finanziario costante da Nord verso Sud, e anche il flusso più democratico e capillare: arrivano a raggiungere anche l’ultimo degli ultimi. Oltre a generare questo fiume di denaro verso Sud, gli emigrati, grazie al peso positivo dei loro contributi, garantiscono stabilità ai sistemi pensionistici dei Paesi in cui vivono e lavorano. Paesi in cui sono fondamentali anche dal punto di vista della stabilità demografica. Questi flussi vanno ricondotti dentro canali “formali” evitando lo strozzinaggio dei grandi call money che impongono tassi di oltre il 10% sui piccoli quantitativi. Detassare le rimesse e eliminare i costi dei trasferimenti sarebbe un’efficace politica di cooperazione allo sviluppo.

Insomma, non possiamo pensare a politiche per un’Altra europa senza affrontare il nodo di politiche che mettano al centro la razionalità in materia di flussi di persone, che hanno un ruolo economico e sociale ma sono allo stesso tempo soggetti con diritti sempre meno riconosciuti.

Gli emigrati giocano un ruolo centrale in due diverse società che, lontane per storia, economia cultura, vengono rese più vicine proprio da questi lavoratori globali: creano ricchezza nel Paese “di scelta” e ricchezza nel Paese di origine. Gli unici eroi della globalizzazione.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

moneytrasnsfer

Il Fondo Monetario Internazionale nacque dagli Accordi di Bretton Woods del 1944, che misero in piedi l’architettura finanziaria internazionale del secondo dopoguerra. Da allora, ha sempre avuto poche e chiare idee in materia di disciplina fiscale e monetaria. Secondo gli esperti dell’FMI, chiamati a controllare la gestione del bilancio degli Stati membri e a dettare le condizioni per l’erogazione di prestiti della Banca Mondiale, l’unico indicatore che permette di riconoscere un’economia sana è il pareggio di bilancio. Non è compito loro sapere a quale prezzo lo si ottenga, quali siano i margini perché gli Stati possano intervenire nelle fasi espansive o recessive, quali siano i costi sociali e umani delle ristrutturazioni del debito.

La ricetta classica dell’FMI, ogniqualvolta questo organismo è intervenuto, si è basata sul cosiddetto “taglio dei rami secchi”: che si è immancabilmente tradotto nel taglio lineare delle spese per istruzione, pensioni, sanità, ammortizzatori sociali. Ai Governi non è mai stato chiesto, per esempio, di ridurre la spesa per la difesa o per le infrastrutture. Oppure di razionalizzare i costi complessivi dello Stato in un modo che non fosse il licenziamento di pubblici impiegati.

L’FMI fa parte della troika che sta assistendo la Grecia, insieme alla BCE e all’Unione Europea. Il suo ruolo accanto alle altre due istituzioni dovrebbe essere modesto, vista la quantità irrisoria di risorse che l’organismo con sede a Washington ha impegnato rispetto alle somme messe a disposizione dalla BCE e dal fondo salva-Stati dell’area euro. Eppure il Fondo Monetario è riuscito a far pesare la sua presenza, provocando polemiche e sostenendo, almeno finora, la “linea dura” adottata dalla Germania.

La situazione della Grecia è praticamente unica nella storia economica moderna. Un Paese che tecnicamente è in default, ma che non riesce a negoziare il suo debito perché i negoziatori sono i suoi stessi creditori. E non può nemmeno svalutare la propria moneta per recuperare competitività. Per quanto ancora si possa fare, il debito greco è destinato a crescere esponenzialmente per via degli interessi spropositati che Atene è obbligata a pagare senza che nel frattempo si registri alcun segnale di crescita economica.

In questa cornice di decrescita infelice, l’FMI diventa finalmente realistico e chiede un altro haircut, il brutto neologismo con il quale si equiparano i tagli ai debiti di un Paese a un innocuo taglio di capelli. Tradotto, significa che il Fondo Monetario chiede un nuovo taglio all’ammontare dei debiti della Grecia per rendere sostenibile il rimborso della quota che ne resterebbe, una procedura tipica nei confronti di un Paese in bancarotta. Questa volta però è la Commissione a frenare, perché Berlino non sopporterebbe ulteriori “sacrifici” da imporre alle banche creditrici, che dovrebbero accollarsi i tagli. È un no fermo, con il quale l’Europa per la prima volta frena l’FMI, rendendosi simultaneamente complice del passaggio all’indigenza di centinaia di migliaia di persone. E del precipitare della Grecia in un caos economico e politico a rischio di estremismi.

Atene, che è riuscita a stabilizzare i conti nel 2013 grazie al turismo e all’austerità forzata, non può uscire dalla morsa della sua crisi senza ulteriori tagli ai suoi debiti. Ma ai barbieri che esercitano a Berlino questo dato interessa poco, perché la loro priorità è la tutela delle banche straniere e non la salute della Grecia. Il loro modello professionale non è il Figaro rossiniano ma Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Tim Burton.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

barbiere

Dal punto di vista macroeconomico, due sono i capisaldi del predominio economico del blocco Europa-Stati Uniti sul resto del mondo: il paniere di monete di riferimento (sterlina, dollaro USA e euro) e il controllo degli organismi finanziari internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale). Il dominio indisturbato delle monete – antiche o moderne – emesse dai Paesi una volta chiamati “centrali” risale ai tempi del colonialismo. Da allora sono il riferimento obbligato per la valutazione e lo scambio di materie prime e manufatti. Pochi e finiti male sono stati i tentativi di sganciarsi da questa logica e, per quanto si sia teorizzato, finora non è nata nessuna alternativa percorribile per un reale superamento di questa situazione.

La crisi che continua a interessare gli Stati Uniti e in particolar modo l’Europa sta offrendo l’opportunità storica per l’affrancamento dal patron-dollaro, e di conseguenza dall’euro e dalla sterlina, dei Paesi emergenti raggruppati nei Brics. Il vertice di Durban del gruppo formato da India, Cina, Brasile, Russia e Sudafrica ha segnato forse l’avvio di una nuova logica monetaria che includa anche le valute di questi Paesi che attualmente producono il 21% del PIL globale, rappresentano il 43% della popolazione mondiale e hanno uno scambio commerciale cresciuto dai 27 miliardi del 2002 ai 500 miliardi previsti per il 2015. Miliardi di dollari USA, si intende. Almeno per ora.

Questo club di successo ora lancia la sfida con due idee che potrebbero cambiare l’economia mondiale. La prima è l’utilizzo delle loro valute nazionali per gli scambi reciproci, a cominciare dai 30 miliardi di dollari all’anno del commercio tra Brasile e Cina che ora sarà saldato in real e in yuan. La seconde è la creazione di una banca di sviluppo dei Brics, con una dotazione iniziale di 100 miliardi di dollari allo scopo di soccorrere i Paese membri in difficoltà, ma soprattutto di creare un fondo consistente non denominato in dollari o euro. Si tratta di un capitale iniziale modesto, se si pensa che le riserve valutarie combinate dei cinque Paesi raggiungono i 4.400 miliardi di dollari: ma, nel caso in cui uno di questi Stati dovesse ricorrere al credito internazionale, la banca avrebbe l’effetto di cancellare il ruolo di prestatore, e di suggeritore di politiche economiche, del Fondo Monetario Internazionale.

Insomma, una vera e propria rivoluzione all’insegna della filosofia introdotta dall’ex presidente brasiliano Lula quando, nel 2005, saldò i debiti che il suo Paese aveva contratto con l’organismo di Washington per non dovere mai più subire i diktat dei “tecnici” del FMI rispetto alle scelte di politica economica interna. Questa opportunità è anche una sfida, perché i Brics dovranno dimostrare di saper tenere in ordine i conti macroeconomici e di sostenere una politica monetaria per la prima volta autonoma senza mettere in crisi la stabilità delle loro economie.

Un simile orizzonte di multipolarismo valutario è molto temuto soprattutto a Washington, perché con un dollaro indebolito sarà sempre più difficile per il Tesoro USA collocare all’estero i bond del suo debito a tassi bassi. Questa scelta obbligherà gli USA, ma anche i Paesi dell’Unione Europea, a fare scelte più oculate in materia economica, perché sarà sempre più oneroso scaricare i propri debiti sul resto della comunità mondiale. La banca di sviluppo dei Brics diventa così un’importantissima tappa sulla via del consolidamento di un nuovo ordine mondiale per molti decenni solo teorizzato, ma che grazie alla crisi delle economie dei Paesi di vecchia industrializzazione fa oggi passi da gigante.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

FIFTH-BRICS-SUMMIT-DURBAN

Quando si discute dello sviluppo dei Paesi che una volta chiamavamo “del Terzo Mondo”, siamo tutti d’accordo nel riconoscere il ruolo positivo degli investimenti in infrastrutture, formazione e sanità pubblica. E tutti sosteniamo l’importanza di creare condizioni favorevoli agli investitori. Però, poco o mai si parla di quel flusso costante di valuta pregiata che entra nei Paesi poveri e poverissimi tramite i money transfer e che si distribuisce capillarmente sostenendo i consumi alimentari, gli studi, le cure mediche, l’avvio di attività economiche. In linguaggio tecnico si chiamano rimesse. Sono i soldi che gli emigrati mandano ai familiari rimasti in patria.

In Italia dovremmo conoscere bene questi flussi di denaro: a cavallo tra il XIX e il XX secolo erano uno dei pilastri del bilancio nazionale. In alcune regioni, come nelle Marche, in Liguria e in Friuli, furono il volano per economie locali storicamente depresse. Nel contesto della crisi odierna, le rimesse figurano nel ristretto elenco delle voci dell’economia globale che non conoscono contrazioni. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, nel 2014 si dovrebbero addirittura superare le previsioni. E non parliamo certo di spiccioli: quest’anno ci si attende una movimentazione di rimesse pari a 534 miliardi di dollari USA, 406 dei quali assorbiti dai Paesi emergenti. Molto, ma molto di più dei fondi residuali destinati alla cooperazione allo sviluppo.

I principali destinatari di questi flussi sono India, Cina, Filippine, Messico e Nigeria, seguiti da Egitto, Pakistan, Bangladesh e Vietnam. Soldi che “alimentano” milioni di piccoli commercianti, artigiani, scuole e cliniche private, imprese edili. Le famiglie che ricevono queste rimesse consumano, generano occupazione ed entrate fiscali. E migliorano le condizioni di vita. Sono molti i governi che si adagiano su questi fondi con i quali i cittadini poveri si pagano da soli ciò che lo Stato non fornisce. Per il Tagikistan, la Moldova, il Lesotho, la Tunisia, la Liberia, il peso delle rimesse si aggira tra il 20 e il 40% del PIL nazionale: sono la prima voce dell’economia. Come sempre, dove girano molti soldi c’è chi guadagna sulla movimentazione. Le agenzie specializzate nei trasferimenti applicano una commissione sulle operazioni pari in media al 7,5%, ma in Africa si arriva a toccare il 12%. Praticamente a livelli di usura.

Una politica europea sull’immigrazione non può fare a meno di questo dato: gli immigrati svolgono un ruolo importante, simultaneamente, in due mondi. Sia nei paesi che richiedono manodopera per sostenere i propri livelli di benessere e di produttività, sia nei paesi nei quali le rimesse degli emigrati creeranno sviluppo, capitalizzazione, opportunità di studio e di sostegno alle famiglie.

La politica dell’Unione Europea di sostegno ai ritorni volontari di immigrati rimasti senza lavoro in Europa, con aiuti economici per il viaggio e consulenza, formazione e microcredito nei paesi di origine, è una valida alternativa alla barbarie delle espulsioni coatte e dei CIE. E’ importante che chi torna dopo anni di lavoro in Europa venga sostenuto per il suo reinserimento in paesi che nel frattempo, e sono tanti, sta vivendo un periodo economico di crescita.

Non è possibile però che ci siano 29 diverse politiche sull’immigrazione in ambito comunitario e che drammi come quelli quotidiani a Lampedusa siano problemi dei soli paesi mediterranei. Una politica comune per il Mediterraneo dovrebbe partire dalla creazione di opportunità di lavoro nei paesi della sponda Sud del Mediterraneo, oltre che dalla stabilizzazione della situazione politica in fiamme dopo il crollo dei regimi totalitari a lungo sostenuti dall’Europa stessa.

Partiamo dalle  rimesse, l’unico flusso finanziario costante da Nord verso Sud, e anche il flusso più democratico e capillare: arrivano a raggiungere anche l’ultimo degli ultimi. Oltre a generare questo fiume di denaro verso Sud, gli emigrati, grazie al peso positivo dei loro contributi, garantiscono stabilità ai sistemi pensionistici dei Paesi in cui vivono e lavorano. Paesi in cui sono fondamentali anche dal punto di vista della stabilità demografica. Questi flussi vanno ricondotti dentro canali “formali” evitando lo strozzinaggio dei grandi call money che impongono tassi di oltre il 10% sui piccoli quantitativi. Detassare le rimesse e eliminare i costi dei trasferimenti sarebbe un’efficace politica di cooperazione allo sviluppo.

Insomma, non possiamo pensare a politiche per un’Altra europa senza affrontare il nodo di politiche che mettano al centro la razionalità in materia di flussi di persone, che hanno un ruolo economico e sociale ma sono allo stesso tempo soggetti con diritti sempre meno riconosciuti.

Gli emigrati giocano un ruolo centrale in due diverse società che, lontane per storia, economia cultura, vengono rese più vicine proprio da questi lavoratori globali: creano ricchezza nel Paese “di scelta” e ricchezza nel Paese di origine. Gli unici eroi della globalizzazione.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

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