La terza sconfitta consecutiva del “correismo” in Ecuador conferma i cambiamenti politici in corso in America Latina. Con uno schema che si ripete, il candidato del partito di Rafael Correa, uno dei protagonisti della “marea rossa” in Sudamerica degli anni 2000, al secondo turno non riesce a superare il 50%. Correa è un caso particolare rispetto ad altri presidenti dell’epoca. In carica dal 2007 al 2017, non si è perpetuato nel potere, pur avendo tentato di farlo, e la sua uscita di scena è stata traumatica: dopo una condanna per corruzione si è rifugiato in Belgio, dove tuttora risiede. Malgrado questi fatti, non si è mai ritirato dalla politica del suo Paese, determinando pesantemente le scelte e i programmi dei candidati progressisti sconfitti negli ultimi tre turni elettorali. 

La sua figura non è divisiva soltanto in Ecuador ma anche nel variegato campo della sinistra latinoamericana, all’interno della quale si iscrive anche l’indigenismo, che in Ecuador è rappresentato da un partito. Il correismo è stato una versione ecuadoriana del chavismo venezuelano o dell’evismo (per Evo Morales) boliviano. Una sinistra uscita dalle macerie dei colpi di Stato e dei governi neoliberisti, efficace nel momento di redistribuire, ma incapace di far crescere l’economia. Si è impegnato nei piani di welfare e per i diritti individuali, sociali e ambientali, ma con piglio dirigista, consultandosi poco con i movimenti sociali che in Ecuador sono particolarmente vivaci e hanno una lunga storia di lotta, come quelli indigenisti. Per questo il correismo si è molto allontanato sia dagli indigeni sia dall’ala socialdemocratica della sinistra. Non ha saputo aprirsi alla società, a differenza di Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia, proponendo anche idee per la sicurezza che a molti hanno ricordato le svolte autoritarie già vissute in Venezuela.

Come in Argentina con la vittoria di Milei sui peronisti, in Ecuador Daniel Noboa non ha vinto per meriti propri, ma perché aveva come avversaria la candidata scelta da Correa, che dava poche garanzie di indipendenza. La sconfitta di Luisa González conferma ancora una volta che in America Latina convivono due sinistre: quella legata agli anni 2000 o è diventata regime o non riesce più a vincere; l’altra, emersa in tempi più recenti, è fortemente influenzata dall’ambientalismo, dalle questioni di genere e dalle lotte indigene, e vince.

L’eccezione, in questo quadro, è il Brasile di Lula: un leader della stagione precedente che è riuscito a fermare la deriva autoritaria, e ora sappiamo criminale, di Jair Bolsonaro. Ma anche in Brasile, se non si rinnoverà fortemente il campo progressista, tutto potrebbe cambiare velocemente.

Il caso dell’Ecuador ci racconta anche il dramma personale di un politico che non ha saputo ritirarsi dopo un’esperienza per tanti versi positiva. Correa, e in modi diversi Morales in Bolivia, Maduro in Venezuela e Ortega in Nicaragua, sono ormai parte del problema nel quale si dibatte la democrazia latinoamericana. La scomparsa di queste figure dalla scena politica sarebbe solo un bene, per le sinistre più che per le destre.  

Il lento declino della globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso è diventato caduta libera. Il Paese che aveva teorizzato e costruito la deregolamentazione dei mercati, dei capitali e del lavoro oggi è impegnato a picconare quello stesso mondo che, negli ultimi 30 anni, era diventato quasi senza frontiere per le merci, ma non per le persone. Nel 1987 il presidente repubblicano Ronald Reagan, in uno storico discorso alla radio, demonizzava i dazi e le chiusure di mercato, in modo coerente con la sua ideologia liberale e liberista. Nel 2025, il presidente repubblicano Donald Trump demonizza i mercati aperti perché, secondo lui, sono la causa di un grande furto compiuto ai danni dei cittadini statunitensi, e invoca i dazi. Confonde i dazi con il surplus commerciale, il presidente più isolazionista e protezionista della storia recente nordamericana, e immagina un mondo nel quale prevalga solo l’interesse nazionale, a qualsiasi costo. La sua è una posizione molto simile a quella dei cosiddetti “patrioti” europei, che però non hanno né il peso né gli strumenti politici per applicare le stesse politiche.

In tre decenni si è passati dall’unipolarismo (USA) al bipolarismo (USA e Cina) e al multipolarismo (G7 e Paesi Brics), e ora stiamo cadendo nel tribalismo, tutti contro tutti. Sarebbe una conclusione davvero curiosa per la transizione che si è aperta nel 1991 con la fine dell’URSS: anche perché dimostrerebbe che oggi non è più possibile un ordine basato sulla potenza di uno o due Paesi, e nemmeno un equilibrio multipolare. Siamo di fronte a un insieme di potenze litigiose che pensano solo ai fatti loro, nel quale per dirimere le questioni critiche si moltiplicano le guerre, alcune già iniziate e altre in agguato.

Già si alzano voci da più parti che invitano ad abbandonare il green deal europeo, a uscire dall’Accordo di Parigi e dalle agenzie dell’ONU, a disconoscere la Corte penale internazionale. Non è ciò che pensavano gli ideologi del globalismo degli anni ’90, che immaginavano un mondo aperto nel quale il mercato, eterodiretto dalle loro aziende multinazionali, avrebbe creato un ordine alternativo a quello della politica. Ora abbiamo invece una prepotente rivincita dello Stato, che impone dazi senza preoccuparsi delle ricadute sui cittadini, che umilia i mercati, che disegna scenari mondiali conflittuali, ma soprattutto che prima di agire non ascolta i poteri economici tradizionali. Paradossalmente, non è una rivoluzione socialista ma il suo contrario. Nel mondo post-politico delle nuove destre al potere c’è stata una saldatura tra una parte della politica e pezzi importanti della new economy, che non soltanto mettono a disposizione enormi capitali, ma controllano i social media e possono fare tantissimo per sostenere i leader, anche quando questi raccontano colossali fake news.

In democrazia non si era mai verificata una commistione così gigantesca tra economia e politica: chi dice che è proprio la democrazia a essere in pericolo, non sbaglia. Non perché ci sia il rischio del ritorno dei nazisti al potere, ma per il concreto pericolo di un neo-autoritarismo tecno-conservatore che da un lato propone modelli sociali reazionari e patriarcali, dall’altro controlla l’opinione pubblica con i mezzi più sofisticati mai esistiti. Una grande sfida, insomma, nella quale i dazi appaiono quasi marginali rispetto al disegno complessivo: quello che mira al controllo diretto del potere, senza gli “intoppi” dei Parlamenti e delle magistrature, creando giganteschi conflitti di interesse alla luce del sole, rendendo la democrazia utile solo a legittimare la conquista del potere, poi si vedrà. Questa politica ha molto di antico e, al tempo stesso, molto di innovativo. Non può essere capita né combattuta con gli strumenti tradizionali dell’indignazione e delle piazze. È una sfida a tutto campo e lo scenario in cui si combatte inizia nel proprio smartphone per estendersi a tutto il mondo.

Le mode alimentari da sempre hanno influenzato l’economia mondiale, provocando ricadute, non sempre positive, sui territori. L’aumento esponenziale del consumo di pesce – fresco e decongelato – dovuto soprattutto alla veloce espansione globale del sushi sta intaccando l’intero sistema oceanico. Da piatto tradizionale giapponese, a partire dagli anni ’80 del Novecento il sushi è diventato moda planetaria e oggi viene servito a tutte le latitudini, anche in zone dove non era mai esistita una tradizione gastronomica ittica. Secondo la FAO, più di un terzo degli stock ittici globali è sfruttato oltre i limiti della sostenibilità. Tra le specie più richieste dall’industria del sushi figurano il tonno rosso, il salmone e il polpo: la domanda ha portato a un drammatico declino delle popolazioni in natura. Il tonno rosso, in particolare, è ormai a rischio estinzione a causa della pesca indiscriminata, con ripercussioni su tutto l’ecosistema marino.

L’acquacoltura, spesso presentata come alternativa sostenibile, non è esente da problemi: gli allevamenti di salmone, ad esempio, inquinano le acque circostanti e favoriscono la diffusione di malattie tra le specie selvatiche. Inoltre, molte delle specie allevate vengono nutrite con farina di pesce, aggravando ulteriormente il prelievo di risorse marine.

In Ecuador il fenomeno è particolarmente evidente, dato che proprio per fare spazio all’acquacoltura gamberiera è stato eliminato il 70% delle foreste di mangrovie. Inoltre si alterano le coste, con l’acqua salata che invade territori dove si praticano altre forme di allevamento o si coltivano specie vegetali. Sono stati soppressi anche campi agricoli, sostituiti da vaste distese d’acqua marina pullulanti di gamberi. Ma i cicli di allevamento durano solo circa sette anni: poi resta un deserto, con il terreno salinizzato dove non si coltiva più nulla. In Indonesia, il 52% della deforestazione delle mangrovie è dovuto al boom dell’acquacoltura, specialmente dei gamberetti tropicali a basso costo, venduti principalmente nei mercati europei e statunitensi. Secondo recenti studi, la produzione di 100 grammi di gamberetti sarebbe responsabile del rilascio in atmosfera di ben 1000 tonnellate di CO2, più della carne di manzo.

Oltre a impattare sugli stock delle specie pescate direttamente, il consumo eccessivo di pesce contribuisce anche al fenomeno del bycatch, ovvero la cattura accidentale di specie non destinate al commercio, come tartarughe, delfini e squali. Questi animali spesso vengono gettati nuovamente in mare, ma nella maggior parte dei casi non sopravvivono. Vari metodi di pesca, poi, contribuiscono alla distruzione degli habitat marini. Le reti a strascico devastano i fondali oceanici, eliminando interi ecosistemi di coralli e alghe, fondamentali per la sopravvivenza di numerose specie. E le conseguenze si ripercuotono non solo sulla fauna marina, ma anche sulle comunità costiere che dipendono dalla pesca per il loro sostentamento.

Il supermercato globale, ad esempio, offre gamberoni in abbondanza: spesso sono stati pescati da grandi navi con la tecnica dello strascico e immediatamente congelati a bordo. Accade in particolare al largo delle coste della Patagonia, dove centinaia di navi cinesi, di Taiwan e della Corea del Sud pescano fino a ridosso delle acque di competenza argentina, impoverendo un oceano che sarebbe ricco di nutrienti per i grandi cetacei marini, come la balena franca australe. Ovviamente questo mercato sta in piedi grazie ai consumatori, che però difficilmente scelgono le poche opzioni sostenibili di pescato certificato. Come per altri prodotti della dieta globale, il pesce consumato in quantità non sostenibili contribuisce a peggiorare la salute del pianeta: ma la tentazione di pagare pochissimo per un prodotto una volta molto caro fa sfumare ogni senso di colpa, fino alla prossima moda.

Ci sono volute poche settimane perché le grandi aziende statunitensi si adeguassero al nuovo corso della Casa Bianca. Dopo avere per anni definito e attuato politiche di inclusione su questioni di genere, rispetto delle minoranze, tutela dei consumatori, è bastato che Donald Trump parlasse dell’esistenza di soli due sessi, che J.D. Vance proclamasse il diritto alla libertà assoluta e senza filtri sui social, che Elon Musk sparasse a zero contro le misure che hanno permesso alle minoranze e alle donne di assumere incarichi importanti, perché iniziasse lo smantellamento di quelle politiche aziendali che, secondo la retorica di qualche anno fa, avrebbero reso il mondo un “posto migliore”. Le stesse politiche che, a destra, venivano denunciate come espressione della cultura woke o della cosiddetta teoria gender. È lungo l’elenco delle corporation che stanno abiurando le politiche DEI (diversità, equità e inclusione) promosse negli ultimi anni: da Disney a McDonald’s, da General Motors a un colosso della finanza come BlackRock. In verità, non sempre questo affrettato revisionismo è riuscito a imporsi. Apple ad esempio è stata fermata preventivamente dal voto contrario dei suoi azionisti, che a stragrande maggioranza sostengono i programmi aziendali di diversità e inclusione. Cosa che invece non è successa con Meta: la creatura di Zuckerberg non solo ha cancellato i programmi DEI, ma ha anche allentato i controlli sulle fake news sui social network. Walmart, il colosso della grande distribuzione, ha già sospeso il monitoraggio sulle sue politiche LGBTQ+ e deciso di non vendere più prodotti caratterizzati sulla diversità sessuale, togliendo anche il sostegno al Center for Racial Equity, che si batte contro le discriminazioni su base etnica.

Si tratta di un vero e proprio riflusso che ha investito l’etica aziendale dopo l’insediamento di Donald Trump, a dimostrazione di come quei valori ora cancellati non rientrassero affatto nel DNA del nuovo management multinazionale. Non erano, insomma, convinzioni autentiche ma mosse opportunistiche, o forse solo banali adeguamenti alla moda, al clima politico. Questa giravolta, tra l’altro, ha rilanciato il dibattito sulla mission delle aziende: limitarsi a fare profitti oppure diventare influencer “politici”, per sostenere la politica o magari sostituirsi a essa?

In realtà, quella che sta evaporando era una grande illusione, costruita ad hoc per trasformare virtualmente il consumatore in “elettore”: si è venduta l’idea che acquistare un prodotto volesse dire anche esprimere un “voto” circa le politiche delle aziende su temi sociali e diritti. Quell’illusione ha contribuito a creare in mezzo mondo una nuova sensibilità sulle questioni dell’inclusione e della tutela dei diritti. Eppure, è probabile che la giravolta delle aziende non avrà ripercussioni sui loro affari: le vendite e i profitti continueranno a dipendere dalla qualità, dal marketing e anche dagli aiuti di Stato, soprattutto nel settore high-tech. È tornata a prevalere l’anima classica del grande capitalismo, che solo per pochi anni ha finto di aprirsi a minoranze e diversità, per tornare velocemente a essere bianco e maschio, come da tradizione.

La vera politica ha sempre avuto due caratteristiche che oggi sono sfumate: l’arte di mediare tra i diversi interessi e la capacità di fare riforme che permettano ai cittadini di vivere meglio. Nell’attuale panorama post-politico, queste due virtù sono state rovesciate. Prima si lascia che la vita quotidiana delle persone si degradi, senza proporre riforme e rimedi, poi la risposta all’esasperazione dei cittadini è quella più facile: anziché costruire, far saltare in aria tutto.

Non vi sono dubbi sul fatto che l’aumento della criminalità, dovuto alla crescita del potere economico e militare dei cartelli della droga, colpisca soprattutto i ceti più deboli. Il continente americano è, da questo punto di vista, un laboratorio. Nei decenni in cui il potere dei cartelli cresceva, gli Stati Uniti non hanno fatto nulla di significativo per risolvere il problema del consumo a casa loro, né i Paesi latinoamericani si sono davvero impegnati per ostacolare il potere dei signori della droga. Il meccanismo è sempre lo stesso, la droga viaggia verso nord, armi e soldi ripuliti viaggiano verso sud. Infatti, il 74% delle armi sequestrate ai narcos messicani proviene dagli Stati Uniti: in buona parte si tratta di dotazioni dell’esercito USA, come ha denunciato la presidente messicana Claudia Sheinbaum. Eppure, non ci sono mai state indagini per capire come sia possibile questo traffico di morte.

La risposta del governo Trump è stata dichiarare i cartelli messicani gruppi terroristici e deportare in Salvador centinaia di presunti affiliati alla struttura criminale venezuelana Tren de Aragua. Sempre il nemico esterno, mai un problema della società e della politica statunitensi.

Anche in materia economica, la linea del tagliatore di teste Elon Musk è abbattere il tronco della spesa federale, senza individuare i rami superflui che hanno accresciuto l’indebitamento dello Stato. Si tagliano servizi, si eliminano posti di lavoro senza una riflessione, in modo approssimativo e sommario. Così non si raggiungerà nessun obiettivo concreto. I moderni moralizzatori si vantano di affrontare di petto i problemi, ma lo fanno senza valutare le conseguenze delle loro azioni e senza mai considerare la complessità di uno Stato moderno. Si taglia la Sanità, si taglia l’impiego pubblico, si tagliano i servizi. E chi non ha la capacità economica di pagarsi privatamente ciò che gli è stato tolto deve ingegnarsi per sopravvivere. Nella lotta al narcotraffico tutta l’attenzione è sulla fase repressiva, mai si fa un ragionamento sulla miseria del mondo contadino dove si coltivano le materie prime da cui si ricavano gli stupefacenti, o sulla marginalità delle periferie urbane dove si reclutano i soldati della droga e sul disagio sociale che porta anche all’aumento del consumo di sostanze.

Il problema è che l’illusione di risolvere i problemi per le vie brevi, senza preoccuparsi di intaccarne le cause, riscuote consensi elettorali anche se, alla prova dei fatti, si rivela un moltiplicatore delle criticità che vorrebbe sanare. Proprio questo pensiero di breve gittata non permette di affrontare i grandi problemi. Come per il cambiamento climatico: davanti all’incapacità di cambiare rotta rispetto all’uso dei combustibili fossili, si cercano ricette semplici per mitigarne gli effetti. E il problema resta sempre lì, anzi, aumenta.

Ma anche limitarsi a dire che in questo mondo mancano gli statisti lungimiranti è semplicistico: la classe politica è spesso lo specchio dei tempi. Quando un cittadino si convince che basti mettere like a un post brillante per cambiare le cose, diventa plausibile che la politica pensi di porre fine alla delinquenza solo con la repressione, o di limitare il cambiamento climatico piantando cactus là dove prima crescevano gli aceri. La verità è che non esistono ricette magiche per cambiare rotta, e il tempo che stringe dovrebbe farci aprire una riflessione seria, al di sopra le ideologie. Anche perché, finora, tutte le ideologie si sono dimostrate incapaci di interpretare correttamente il mondo. 

Come ormai sappiamo tutti, l’Africa è un continente ricchissimo di risorse naturali, soprattutto minerarie, che fanno gola a tanti, e da tanto tempo, nel resto del mondo. Per alcuni Paesi africani, come la Repubblica Democratica del Congo, questa ricchezza è diventata una maledizione. Uno degli ostacoli che finora hanno impedito un reale cambiamento della situazione, rallentando lo sviluppo e gli investimenti, è la frammentazione valutaria dell’Africa, unita alla difficile convertibilità delle monete locali. Recentemente, la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) ha introdotto il concetto di African Unit of Account (AUA), un’unità monetaria che dovrebbe fungere da “gold standard”, favorendo la stabilità economica e l’integrazione finanziaria tra gli Stati del continente. Soprattutto, questa “pseudo-valuta” permetterebbe lo sganciamento parziale dal dollaro al quale molti Paesi aspirano, come già sta avvenendo tra i membri dei BRICS.

Più precisamente, almeno per ora, l’AUA sarebbe solo un’unità di misura valutaria utilizzata dalla Banca Africana di Sviluppo per le sue operazioni interne, come la valutazione dei prestiti e degli investimenti. Non una valuta fisica realmente circolante, dunque, ma una misura che facilita le transazioni all’interno dell’area economica africana, riducendo il rischio legato alle fluttuazioni dei tassi di cambio delle monete nazionali. Il valore dell’AUA è calcolato sulla base di un paniere di valute internazionali, tra cui il dollaro statunitense, l’euro, la sterlina britannica e lo yen giapponese. Questo paniere riflette il commercio internazionale e la solidità delle principali economie globali, offrendo un valore di riferimento più stabile rispetto a molte valute africane, soggette a forte volatilità. Secondo gli esperti della Banca Africana di Sviluppo, l’AUA aumenterebbe la stabilità economica del continente, spesso sofferente per l’inflazione e la svalutazione monetaria. Faciliterebbe gli investimenti perché potrebbe ridurre i costi di conversione, oltre al rischio di cambio, e per le stesse ragioni sosterrebbe i progetti di sviluppo.

In prospettiva, facilitando il commercio tra i Paesi dell’area l’AUA porrebbe le basi per l’istituzione di una vera unità monetaria africana. Si delinea, dunque, un percorso simile a quello europeo, dove l’ECU, Unità di Conto Europeo, anticipò la nascita dell’euro. La futura valuta sarebbe sostenuta, nella sua stabilità, da un paniere di minerali fornito dai vari Paesi che l’adotteranno, in proporzione alle loro riserve di cobalto, manganese, platino, coltan, terre rare. Il ruolo a garanzia della moneta che in passato ebbe l’oro, oggi viene assunto dai minerali strategici di cui l’Africa è ricca.

L’idea di una moneta unica africana è un obiettivo a lungo termine dell’Unione Africana, la gigantesca associazione tra gli Stati del continente nata nel 2002 per rafforzare i legami interafricani, diminuendo la dipendenza dalle potenze estere. Intanto, alcuni blocchi economici regionali, come la Comunità dell’Africa Orientale (EAC) e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), stanno già lavorando su progetti di unione monetaria. A breve termine, però, le diversità tra le economie dei singoli Stati e le sfide legate alla governance monetaria rendono difficile la reale implementazione di una valuta unica. In questo quadro, l’AUA potrebbe rappresentare un fondamentale passo intermedio verso l’integrazione, fungendo da punto di riferimento per gli scambi e la stabilizzazione dei mercati valutari africani e preparando il campo alla decisione politica dell’Unione Africana.

Più in generale, l’azione dell’Unione Africana, fenomeno relativamente giovane, è la risposta africana alla politica del “divide et impera” che dal XIX secolo è stata attuata dalle potenze coloniali e post-coloniali per ottenere il massimo vantaggio nei confronti di Paesi economicamente deboli e in perenne disaccordo. La strada della creazione di alleanze tra Paesi equivalenti ha già avuto successo in Sudamerica con il Mercosur; ora è il turno dell’Africa, in un quadro molto più complesso e con presenze ingombranti come quella cinese. Si tratta però di una buona notizia della quale quasi non si parla, anche perché, fuori dall’Africa, questa prospettiva piace a pochi.

La politica del “liberi tutti” dalle regole del WTO, e la minaccia statunitense di applicare dazi sulle merci dei Paesi con i quali gli USA hanno una bilancia commerciale in negativo, presentano anche opportunità per quegli Stati che accettano di allinearsi velocemente con il nuovo inquilino della Casa Bianca. Proprio in queste opportunità si annida un conflitto d’interessi di proporzioni gigantesche, forse il più grande mai visto, perché in diversi casi gli Stati che potrebbero ottenere vantaggi sono quelli dove il più illustre neo-funzionario dell’amministrazione Trump, Elon Musk, sta facendo o intende fare affari. Internet e auto elettriche sembrano essere la chiave di lettura di ciò che sta accadendo in Asia. Il Vietnam ha approvato una legge che apre il mercato interno ai gestori di internet che operano con satelliti a orbita bassa: si legge Starlink. L’India, dove il premier Modi non ha mai nascosto le sue simpatie per Donald Trump in chiave anticinese, ha accettato di abbassare i dazi sull’import di auto elettriche di costo superiore ai 40.000 dollari, portandoli dal 110 al 70%: si legge Tesla. Pare che in questo caso abbiano avuto effetto le minacce di colpire l’export verso gli Stati Uniti, che sarebbe costato all’India una perdita di 7 miliardi di dollari. La stessa propensione ad allinearsi ha dimostrato il presidente argentino Javier Milei, in questo caso con convinzione: sta aprendo il mercato argentino ai servizi di Starlink e sta discutendo con Musk sulle concessioni relative al litio, materia prima vitale per le batterie elettriche. Anche Taiwan non potrà contare soltanto sulla “solita” rendita geopolitica per avere l’appoggio degli USA nel contenimento della Cina. L’isola, primo produttore mondiale di microchip, si impegnerà per cifre miliardarie nell’acquisto di missili da crociera a stelle e strisce di ultimissima generazione: in questo caso sarà la potente industria bellica USA a trarne vantaggio.

Questa politica di Washington rappresenta il superamento della strategia dei dazi “duri e puri” attuata durante il primo mandato di Trump soprattutto contro la Cina, che si è dimostrata non solo poco efficace nel confronto con Pechino, ma anche controproducente nei rapporti commerciali con Paesi come Vietnam e Messico, che con le loro esportazioni hanno preso il posto della Cina. La novità è la saldatura tra gli interessi degli USA e quelli dell’uomo più ricco del pianeta: Starlink, in particolare, viene usata sia come arma di ricatto nella negoziazione sui dazi, sia come potente strumento di pressione sull’Ucraina, che per coordinare il proprio esercito dipende da questo sistema privato di satelliti. In questa diplomazia degli affari, gli Stati Uniti sfruttano la loro potenza politico-militare come poche volte nella storia un Paese si era permesso di fare.

L’ideologia MAGA, diffusa ogni giorno via social, si sta rivelando una coperta corta, che lascia intravedere ciò che vorrebbe nascondere: contano solo gli affari. Siamo di fronte a una realtà ambigua, di modernità reazionaria. Modernità perché si stanno spalancando le porte di settori avveniristici, strategici per il futuro dell’umanità, ai privati (o meglio, al privato); reazionaria perché questa politica si ammanta di princìpi retrivi, a dir poco discutibili, ma che comunque si possono sempre accantonare in nome del profitto. A fare la differenza non sarà il sostegno offerto da Musk e soci a forze di estrema destra relegate, almeno per ora, a fare opposizione, come AFD in Germania o Vox in Spagna; piuttosto, le conseguenze concrete verranno dalla dura politica di minacce in cambio di vantaggi commerciali, che potrà favorire l’economia degli Stati Uniti. Ma se il tanto proclamato ritorno all’età dell’oro promesso da Trump ai propri elettori si tradurrà nell’ulteriore arricchimento degli oligarchi dell’high tech, chi si era illuso si renderà presto conto che qualcosa non torna. Il populismo alla fine è sempre così: arriva al potere lisciando il pelo al popolo e promettendo benessere per tutti per poi fare gli interessi dei soliti, che sono pochi, in questo caso pochissimi. 

Pare difficile anche solo da immaginare, una geopolitica mondiale senza la centralità del blocco occidentale. Eppure, l’insieme dei Paesi che definiamo “occidentali” agisce in modo coordinato soltanto dalla fine della Seconda Guerra mondiale: fino ad allora, questi Stati si erano spesso ritrovati su fronti politico-militari opposti. Basterebbe questo a dimostrare come sia una forzatura storica interpretare in chiave valoriale e assoluta un concetto – quello di Occidente, appunto – che è storicamente labile e frutto di equilibri definitisi solo a metà Novecento. Ciò non significa negare che dell’Occidente facciano parte Paesi caratterizzati, almeno negli ultimi 70 anni, dalla democrazia liberale: del resto, il compattamento di questo gruppo, del quale fanno parte Stati geograficamente lontani come Australia, Nuova Zelanda o Giappone, è stato una conseguenza della vittoria alleata contro la Germania nazista.

Vale la pena, allora, ripercorrere l’evoluzione dell’idea di Occidente. Nel Medioevo, così si indicavano le terre cristiane a ovest di Gerusalemme; dal XVI secolo il concetto si estese alle colonie delle Americhe, passando in eredità ai Paesi che sarebbero nati nelle ex conquiste spagnole, portoghesi, francesi e inglesi. Ma questa visione sarebbe cambiata di nuovo, restringendo il perimetro dell’Occidente ai Paesi democratici sì, ma anche economicamente avanzati, escludendo e relegando in un generico “terzo mondo” l’America Latina che pure aveva finanziato l’espansione coloniale a livello globale. Dalla nascita del G7, formalizzata nel 1986, il club dell’Occidente si è ulteriormente ristretto ai sette Paesi più ricchi dell’epoca. Da allora, è stato questo il nucleo portante delle politiche finanziarie, economiche, ambientali e militari a livello mondiale: una visione economica unica, imposta anche nelle istituzioni multilaterali, e una politica militare unica, operata attraverso la NATO.

La frattura che si sta registrando nelle ultime settimane tra le due sponde dell’Atlantico segna un nuovo cambiamento e rappresenta un salto nel buio in un mondo già tribalizzato, caratterizzato da potenze emergenti militarmente aggressive e da un diritto internazionale in piena crisi. Ci riporta a uno schema che assomiglia molto a quello ottocentesco e d’inizio ’900, nel quale ogni potenza tentava di conquistare a proprio vantaggio una parte di mondo e di affari senza sognarsi di discutere con nessuno, stabilendo solo alleanze temporanee di tipo utilitarista. L’appello (più o meno retorico) ai principi di libertà, democrazia, uguaglianza era ancora sconosciuto: sarebbe stato introdotto al tempo della lotta al nazifascismo e poi al comunismo e infine al terrorismo jihadista. Attribuire l’attuale criticità soltanto al cambiamento di presidenza negli Stati Uniti è molto riduttivo. I due Occidenti, quello americano e quello europeo, si erano già allontanati nel modello di società, nell’interpretazione della democrazia, nella visione del mondo. Una frattura culturale e sociale si è aperta prima ancora di quella politica. La grande differenza è che oggi gli USA sono sovrani nel decidere la loro azione, i Paesi europei si trovano a fare i conti con un “contenitore” multilaterale inconcluso, l’UE, che paralizza più che agevolare il ruolo del continente nel mondo. Non c’è da stupirsi se nel dibattito sul conflitto mediorientale o sulla guerra in Ucraina l’Europa sia stata lasciata fuori dalla porta. La domanda da porsi è come mai nel 2025 l’Unione non abbia competenze in merito di difesa comune e di politica estera. I ritardi, i malintesi, le controversie nella famiglia europea hanno un prezzo, lo sapevamo, e ora tutti possono vedere qual è: l’inadeguatezza nel fare fronte alle odierne complessità del mondo. Inclusa la trasformazione dell’Occidente

Le due destre che oggi si candidano a esercitare il potere nel mondo hanno matrice e obiettivi diversi. Una, incarnata dagli oligarchi della West Coast statunitense, si abbevera nell’anarco-liberismo che considera lo Stato nemico dei cittadini in quanto entità regolamentatrice (e dunque controllore) dei rapporti sociali ed economici. La grande quota di economia globale controllata dai padroni dei social, della logistica, degli sviluppatori di software e dell’IA è cresciuta fuori da ogni normativa. Sono imprenditori che rivendicano diritti e chiedono allo Stato di essere tutelati attraverso la magistratura, e spesso anche mediante sovvenzioni, ma non accettano che lo Stato stabilisca delle regole per il loro business. Secondo la loro retorica, il loro lavoro non dovrebbe essere ostacolato da alcun provvedimento legale e men che meno dalla pressione fiscale, perché ha cambiato il mondo in meglio. Questa lettura unilaterale e narcisista della propria attività spiega la veloce conversione delle aziende di questi oligarchi dall’etica (o estetica) woke, e dall’accettazione dei limiti imposti ad esempio dall’Unione Europea, al sostegno a Trump: sperano che i loro diritti e i loro affari possano essere tutelati non dalle leggi, ma dalla potenza di ricatto del presidente degli USA.

L’altra destra ha radici più antiche, evidenti soprattutto nella personalità che meglio la rappresenta, l’uomo più ricco del mondo: Elon Musk. Cresciuto nella cultura dell’apartheid sudafricano, Musk non si fa problemi a sostenere forze apertamente legate all’eredità nazista o fascista e a proporre una nuova lettura razzista della società, fondandola sull’efficientismo. Le politiche inclusive avrebbero il difetto, secondo Musk, di offrire opportunità immeritate a soggetti appartenenti a minoranze etniche o sessuali che, invece, dovrebbero restare nella schiera dei subordinati, essendo (è questo il pregiudizio implicito) meno capaci per natura. Il futuro fa cortocircuito con il passato, i viaggi su Marte con le teorie della razza. Ciò che appare poco spiegabile, in quest’ottica, è il sostegno offerto a forze dichiaratamente fasciste, come l’AFD in Germania che, come tutti i partiti con la stessa matrice, è fortemente statalista, sostiene uno Stato regolamentatore e promuove una società chiusa, totalmente contraria alla globalizzazione. L’esatto contrario del mondo che ha consentito al loro supporter multimiliardario di arrivare in cima alle classifiche mondiali della ricchezza.

Ma a questa destra “bipolare” non appartiene solo il patron della Tesla. Anche l’anarco-liberista argentino Javier Milei professa un’ideologia libertaria estrema, ma poi considera alleate e amiche forze neofasciste che hanno una visione dello Stato diametralmente opposta alla sua.

Il punto è che questa strana alleanza tra soggetti molto distanti è diventata vincente in diversi scenari, a partire dagli Stati Uniti: una volta divenuta governo, ci si aspetta che non possa più nascondere le proprie contraddizioni interne. Ai dazi si risponde con dazi, e se Trump li applicasse sul serio, le ritorsioni andrebbero probabilmente a colpire proprio l’high-tech multinazionale, imponendo regole e obblighi fiscali che finora i grandi player globali hanno scampato. La logica MAGA di Trump si scontra frontalmente con la logica “open world” che ha fatto la storia della globalizzazione. Difficile dire quale tra queste anime prevarrà, ma forse ciò che è appena accaduto con l’imposizione dei dazi statunitensi, annunciati e poi in gran parte congelati, indica una pista diversa, che potrebbe sintetizzarsi così: chiedo il tuo voto per chiudere il Paese all’invasione dei migranti e delle merci straniere, ma intendo usare il mio potere per affermare il primato mondiale delle mie industrie, e per farlo devo agire per garantirmi le condizioni migliori.

Né mondo chiuso né mondo aperto, insomma, ma un mix tra le due cose: come è sempre stato, con i democratici e con i repubblicani. Cambiano solo la forma, l’eleganza e il metodo negoziale. In Europa, invece, gli sviluppi potrebbero essere drammaticamente diversi: qui non abbiamo grandi innovatori, ma i residuati delle ideologie totalitarie del ’900.

La presidente del Messico Claudia Sheinbaum ha appena inviato al Parlamento federale una proposta di modifica della Costituzione per introdurre il divieto di coltivare mais transgenico. Lo slogan della sua campagna contro gli OGM è “senza mais non c’è Paese” (“Sin maíz no hay País”). Il Messico è uno dei più grandi consumatori pro capite di mais al mondo – cereale che, tra l’altro, è diventato commestibile grazie al lavoro di selezione dei popoli nativi di questo Paese – e attualmente produce soltanto il 50% di quanto consuma. Si tratta, più precisamente, della metà dedicata al consumo umano, mentre il restante 50%, destinato all’alimentazione animale, viene importato dagli Stati Uniti ed è totalmente transgenico.

La proposta di Sheinbaum, in sostanza, va a cozzare contro le regole del mercato globale, che in materia di cereali fa un larghissimo uso delle sementi geneticamente modificate. In tempi recenti, il Messico ha già provato a vietare l’import di mais OGM, ma il tribunale arbitrale previsto dall’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Messico ha respinto il ricorso, motivando la sentenza con la mancanza di prove sulla dannosità del consumo di OGM per la salute umana o animale. E questo è vero: il problema degli OGM non è, infatti, la loro nocività, finora mai dimostrata, bensì il modello agricolo sul quale si reggono queste coltivazioni. Pochi proprietari, quasi nessuna necessità di manodopera, enormi distese di terra, erosione dei suoli, eliminazione della biodiversità. Eppure, attualmente questo è il modello vincente: nel mondo, sono coltivati a OGM circa 200 milioni di ettari di terre agricole, di cui due terzi negli USA e nei quattro Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay). Il foraggio per il bestiame utilizzato dal Messico all’Italia, dal Canada alla Francia è al 100% transgenico, soprattutto la soia. Ma non lo è solo il foraggio: sono largamente coltivati anche grano, patate, pomodori, girasoli, cotone geneticamente modificati. Pian piano, l’intera agricoltura mondiale sta adottando questa tecnologia, con l’eccezione dell’Unione Europea, dove vige il divieto degli OGM per uso umano (ovviamente, non per quello animale).

Su scala mondiale, la geografia del cibo è stata fortemente toccata dall’introduzione dei prodotti geneticamente modificati, che però, va registrato, consentono di produrre più cibo a minor costo rispetto alle altre varietà conosciute. Gli impatti negativi sono quelli ormai conosciuti e documentati: sui suoli, sulle persone esposte al glifosato e sulla biodiversità. Ma è quello che il mercato oggi offre, ed essendo così pochi i Paesi che riforniscono il mondo di cereali – Stati Uniti e Canada, Brasile e Argentina, Ucraina, Russia e Australia – non vi sono spazi per altri produttori che non siano di nicchia e lavorino solo per il consumo locale. Se la proposta della presidente del Messico andrà in porto, i maggiori danni economici sarebbero per gli agricoltori messicani, obbligati a coltivare il più costoso mais non transgenico che diventerebbe poco concorrenziale con quello OGM importato dagli USA (contro il quale il Messico non potrebbe far nulla).

L’iniziativa messicana ha insomma un forte valore simbolico, soprattutto perché vorrebbe tutelare le 59 varietà di mais oggi disponibili in Messico, ma l’equilibrio tra la tutela della diversità e il mercato globale è sempre più complesso, e rischia di lasciare sul lastrico coloro che vorrebbe difendere. Si potrebbe concludere che ormai non vi sono alternative alla graduale omologazione dell’agricoltura mondiale alle monovarietà transgeniche… Ma non è esattamente così, perché due miliardi di contadini coltivano ancora con le loro sementi e soprattutto perché l’eliminazione della biodiversità alimentare, alla lunga, potrebbe mettere a rischio la sicurezza alimentare mondiale nel caso della comparsa di parassiti, patologie o altre piaghe oggi non conosciute. Ci vorrebbe una sintesi che garantisca da un lato la produzione di cibo per un’umanità ancora destinata a crescere e, dall’altro, la tutela ambientale e della biodiversità. Al momento, siamo però molto lontani dall’avere trovato una soluzione.