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L’accordo per l’istituzione della global minimum tax – l’imposta minima globale del 15% sui profitti delle multinazionali – è figlio di uno dei tentativi più ambiziosi compiuti negli ultimi decenni per riequilibrare la fiscalità internazionale. Nato nell’alveo dell’OCSE e sostenuto con forza dall’amministrazione statunitense, il progetto punta a contrastare l’elusione fiscale e la corsa al ribasso delle aliquote fiscali che da anni caratterizza la competizione tra Stati. Eppure, mentre gli occhi del mondo sono puntati sugli effetti attesi in termini di gettito e giustizia fiscale, in Europa cresce la preoccupazione che la global tax possa trasformarsi in un boomerang. A prima vista, il Vecchio Continente, e l’Unione Europea in particolare, sembrerebbero avere tutto da guadagnare: molti Paesi membri registrano da tempo perdite fiscali significative a causa del trasferimento artificiale dei profitti verso giurisdizioni più favorevoli, spesso interne alla stessa UE. L’armonizzazione minima, quindi, appare una risposta logica. Tuttavia, la dinamica competitiva tra i Paesi UE e il diverso peso delle economie nazionali rischiano di creare un quadro meno favorevole del previsto.

Il primo nodo critico riguarda gli Stati che negli anni hanno costruito parte della propria attrattività economica su un regime fiscale di vantaggio. Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo hanno espresso più volte le loro riserve, temendo un indebolimento del proprio modello di sviluppo. Ma la vera incognita non è solo la resistenza politica: è l’effetto complessivo sull’ecosistema europeo. Se il vantaggio comparato di queste economie venisse meno, l’Europa non guadagnerebbe automaticamente maggiore competitività a livello globale. Anzi, rischierebbe di vedere investimenti importanti spostarsi verso regioni extraeuropee, dove l’innalzamento al 15% è percepito come trascurabile data la presenza di altre condizioni favorevoli, come il basso costo del lavoro o varie forme di deregulation.

Un secondo elemento di fragilità riguarda il ruolo degli Stati Uniti. Washington ha sostenuto l’accordo, ma l’iter di approvazione interna procede a fasi alterne, condizionato dalle tensioni tra Congresso e Casa Bianca. Il rischio è che l’UE applichi pienamente la global tax mentre altre grandi economie restano attardate, generando un’asimmetria normativa. Per le multinazionali con base americana o asiatica, l’Europa potrebbe così diventare un’area fiscalmente più onerosa, con la probabile conseguenza di scoraggiare nuovi insediamenti produttivi.

Sul fronte interno, l’UE si trova a fare i conti con la propria struttura decisionale. La fiscalità resta materia di competenza nazionale e vige il principio di unanimità: ciò ha portato a compromessi che rischiano di indebolire l’impatto della riforma. In alcuni casi, gli Stati membri stanno cercando di compensare l’aumento dell’aliquota minima attraverso altri strumenti di vantaggio, come incentivi settoriali o agevolazioni su ricerca e sviluppo. La conseguenza potrebbe essere una nuova forma di competizione interna, più opaca e meno controllabile.

Non va poi sottovalutato l’effetto sui colossi digitali, che rappresentano uno dei principali target della global tax. Molte big tech hanno costruito la loro presenza europea attraverso strutture che passano per Paesi a fiscalità più bassa. Con l’introduzione dell’aliquota minima globale, alcuni di questi gruppi potrebbero riconsiderare l’organizzazione delle proprie filiali o ridurre gli investimenti nei Paesi comunitari, privilegiando mercati più dinamici e con una popolazione più giovane.

Infine, c’è la questione del tempismo. In un momento segnato da forti tensioni geopolitiche, l’Europa sta attraversando una fase di rallentamento economico e aumento dei costi energetici, e ha difficoltà nel mantenere la propria competitività industriale. In questo contesto, qualsiasi intervento che possa essere percepito come un aggravio fiscale rischia di amplificare l’incertezza. Senza una strategia comune di attrazione degli investimenti, la global tax potrebbe accentuare le divisioni interne anziché ridurle.

L’obiettivo dichiarato della riforma resta condivisibile: garantire che le multinazionali contribuiscano in modo equo ai bilanci pubblici. Ma l’UE, pur essendo tra le regioni più impegnate nella lotta all’elusione, non può ignorare il rischio di diventare l’area dove il nuovo sistema produce gli effetti più rigidi. La sfida resta quella di trasformare la global tax in un’opportunità di riequilibrio, evitando che i principi di giustizia fiscale si traducano in un ulteriore freno alla competitività del continente.

Con l’attacco all’Iran da parte degli Stati Uniti, Paese che con Teheran non aveva particolari vertenze, a differenza di Israele, sono scomparse anche quelle poche briciole del diritto internazionale che erano sopravvissute a diverse ondate di forzature, a partire dalla risposta di George W. Bush agli attentati dell’11 settembre del 2001. Era stato proprio Bush junior a teorizzare per la prima volta una formula poi molto gettonata, la cosiddetta “difesa preventiva”. Una strategia che non è prevista in nessun capitolo del diritto internazionale e che può essere applicata soltanto da chi ha, o pensa di avere, una netta superiorità militare sull’avversario. Ovviamente, la difesa preventiva fa il paio con il disconoscimento del vero diritto internazionale e degli organismi che lo incarnano, dalle Nazioni Unite alla Corte Penale Internazionale. È sufficiente essere nelle grazie di una delle 5 potenze che esercitano diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza per essere certi di poter infrangere impunemente anche le risoluzioni “vincolanti”. Basta non riconoscere la Corte Penale Internazionale – e non essere leader di Stati africani o balcanici – per essere sicuri di farla franca anche se si è colpevoli di crimini contro l’umanità.

La teoria della difesa preventiva è quella cui si è appellato anche Vladimir Putin invadendo la “minacciosa” Ucraina, ed è la strategia che ora Israele e Stati Uniti adottano per ostacolare il programma nucleare iraniano. Senza il timore di pagarne le conseguenze. Gli alleati, in questa logica, vengono gestiti quasi con disprezzo, nel migliore dei casi informandoli di ciò che si è già deciso di fare, senza mai chiedere un parere o discutere di alternative alle cannoniere. L’Europa sa bene come funziona, ora che tra i leader del Vecchio Continente è in corso la gara del “mi avevano avvertito”, per accreditarsi come favoriti di Washington e non apparire del tutto ignorati. Il primo della classe è l’inglese Keir Starmer, che ha garantito di essere stato “avvisato con congruo anticipo”. Una via di mezzo è il cancelliere tedesco Friedrich Merz, che dice di essere stato avvertito “a operazione in corso”. Altri, come Emmanuel Macron e Giorgia Meloni, non sono stati nemmeno raggiunti dal centralino della Casa Bianca.

È l’ennesima dimostrazione della fine del cosiddetto Occidente, inteso come blocco ideologico-economico-militare coeso. Oggi chi “fa” la politica internazionale senza il minimo rispetto del diritto internazionale si nasconde dietro la foglia di fico della difesa degli alti valori dell’Occidente, ma non considera nemmeno l’ipotesi di consultarsi con chi dell’Occidente fa parte, quelli che una volta erano gli “alleati storici”. I quali sono ridotti ad accontentarsi della telefonata di Washington per sentirsi ancora importanti. Come se l’essere stati “avvertiti” o no cambi qualcosa, rispetto alla loro nullaggine e al futuro del mondo. Se pensano che, come in una vecchia pubblicità, una telefonata gli possa allungare la vita, si sbagliano totalmente: ogni sgarbo che subiscono fa sfumare quel residuo di credibilità di cui ancora godono tra i cittadini.

Chiedere il dialogo e la pace oggi non rende: non perché le persone siano assetate di sangue, ma perché gli apparati di propaganda montati dai leader bellicisti fanno credere ai cittadini di essere tutti a rischio, e che non vi sia altra soluzione che muovere guerra (magari preventivamente) per risolvere qualsiasi problema. La politica internazionale ormai parla la lingua delle caserme ed è la sconfitta finale della politica, che rinnegando il suo compito lascia che siano militari e fabbricanti di armi a disegnare gli equilibri mondiali. Una storia ben nota, che abbiamo studiato a scuola e che abbiamo imparato a ricordare davanti ai monumenti ai caduti, ma che oggi è tornata maledettamente di attualità.

FILE – In this Oct. 23, 2020, photo, President Donald Trump talks on a phone during a call with the leaders of Sudan and Israel in the Oval Office of the White House, in Washington. White House call logs obtained so far by the House panel investigating the Jan. 6, 2021 insurrection at the Capitol do not list calls made by then-President Donald Trump as he watched the violence unfold on television. They also do not list calls made directly to the president, according to two people familiar with the probe. (AP Photo/Alex Brandon, File)

Jorge Mario Bergoglio è stato il Papa dei primati, il primo a essere nato nelle Americhe, il primo gesuita e il primo a scegliere il nome di Francesco, il santo più lontano dalla Chiesa diventata Stato. La sua carriera ecclesiastica era cominciata relativamente tardi, ma a 37 anni è stato il più giovane Superiore Provinciale dei Gesuiti del Rio de la Plata. Durante la Dittatura argentina non brillò per le critiche al regime, ma riuscì a salvare diversi perseguitati politici da morte sicura. Sarà lui da Vescovo di Buenos Aires a firmare il mea culpa della Chiesa per le connivenze con il regime di Videla. La sua visione politica, spesso mal interpretata, è stata quella dell’impegno sociale, ma senza cedere in materia di dottrina cattolica. Nella sua Enciclica Laudato Sii del 2015, per la prima volta la Chiesa affrontò il tema dell’ambiente, della terra, dei diritti dei migranti. Argomenti ulteriormente declinati nell’Enciclica Fratelli tutti del 2020. La Chiesa che lascia Bergoglio ha vissuto un grande rinnovamento nelle gerarchie, con la cooptazione di decine di sacerdoti impegnati nel sociale e nella lotta per la legalità. Nulla sarà uguale dopo Francesco, soprattutto nella scelta dei poveri, nella tutela del Creato e nella fede nel dialogo tra le persone e tra gli stati perché regni la pace. Bergoglio è stato un ponte tra le fedi e tra le diverse visioni politiche del mondo, sempre pronto ad offrire una sponda per la mediazione, ma senza dimenticare mai la limitatezza della condizione umana. “Chi sono io per giudicare” resta una sua frase celebre, ed è stata questa ammissione di fallibilità, lasciando spazio al dubbio, dove è risieduta la sua grandezza come Pontefice

Pare difficile anche solo da immaginare, una geopolitica mondiale senza la centralità del blocco occidentale. Eppure, l’insieme dei Paesi che definiamo “occidentali” agisce in modo coordinato soltanto dalla fine della Seconda Guerra mondiale: fino ad allora, questi Stati si erano spesso ritrovati su fronti politico-militari opposti. Basterebbe questo a dimostrare come sia una forzatura storica interpretare in chiave valoriale e assoluta un concetto – quello di Occidente, appunto – che è storicamente labile e frutto di equilibri definitisi solo a metà Novecento. Ciò non significa negare che dell’Occidente facciano parte Paesi caratterizzati, almeno negli ultimi 70 anni, dalla democrazia liberale: del resto, il compattamento di questo gruppo, del quale fanno parte Stati geograficamente lontani come Australia, Nuova Zelanda o Giappone, è stato una conseguenza della vittoria alleata contro la Germania nazista.

Vale la pena, allora, ripercorrere l’evoluzione dell’idea di Occidente. Nel Medioevo, così si indicavano le terre cristiane a ovest di Gerusalemme; dal XVI secolo il concetto si estese alle colonie delle Americhe, passando in eredità ai Paesi che sarebbero nati nelle ex conquiste spagnole, portoghesi, francesi e inglesi. Ma questa visione sarebbe cambiata di nuovo, restringendo il perimetro dell’Occidente ai Paesi democratici sì, ma anche economicamente avanzati, escludendo e relegando in un generico “terzo mondo” l’America Latina che pure aveva finanziato l’espansione coloniale a livello globale. Dalla nascita del G7, formalizzata nel 1986, il club dell’Occidente si è ulteriormente ristretto ai sette Paesi più ricchi dell’epoca. Da allora, è stato questo il nucleo portante delle politiche finanziarie, economiche, ambientali e militari a livello mondiale: una visione economica unica, imposta anche nelle istituzioni multilaterali, e una politica militare unica, operata attraverso la NATO.

La frattura che si sta registrando nelle ultime settimane tra le due sponde dell’Atlantico segna un nuovo cambiamento e rappresenta un salto nel buio in un mondo già tribalizzato, caratterizzato da potenze emergenti militarmente aggressive e da un diritto internazionale in piena crisi. Ci riporta a uno schema che assomiglia molto a quello ottocentesco e d’inizio ’900, nel quale ogni potenza tentava di conquistare a proprio vantaggio una parte di mondo e di affari senza sognarsi di discutere con nessuno, stabilendo solo alleanze temporanee di tipo utilitarista. L’appello (più o meno retorico) ai principi di libertà, democrazia, uguaglianza era ancora sconosciuto: sarebbe stato introdotto al tempo della lotta al nazifascismo e poi al comunismo e infine al terrorismo jihadista. Attribuire l’attuale criticità soltanto al cambiamento di presidenza negli Stati Uniti è molto riduttivo. I due Occidenti, quello americano e quello europeo, si erano già allontanati nel modello di società, nell’interpretazione della democrazia, nella visione del mondo. Una frattura culturale e sociale si è aperta prima ancora di quella politica. La grande differenza è che oggi gli USA sono sovrani nel decidere la loro azione, i Paesi europei si trovano a fare i conti con un “contenitore” multilaterale inconcluso, l’UE, che paralizza più che agevolare il ruolo del continente nel mondo. Non c’è da stupirsi se nel dibattito sul conflitto mediorientale o sulla guerra in Ucraina l’Europa sia stata lasciata fuori dalla porta. La domanda da porsi è come mai nel 2025 l’Unione non abbia competenze in merito di difesa comune e di politica estera. I ritardi, i malintesi, le controversie nella famiglia europea hanno un prezzo, lo sapevamo, e ora tutti possono vedere qual è: l’inadeguatezza nel fare fronte alle odierne complessità del mondo. Inclusa la trasformazione dell’Occidente

I rapporti tra Europa e Africa risalgono alla notte dei tempi, a quando cioè i primi sapiens originari dal continente africano colonizzarono quella che oggi chiamiamo Europa. Rapporti storicamente sempre molto stretti, spesso di scontro, con il mar Mediterraneo al centro. La svolta nelle relazioni tra i due continenti avviene con il colonialismo, prima con la tratta degli schiavi gestita dalle potenze europee, che deportano milioni di africani in America, e successivamente durante la “corsa all’Africa” della fine del XIX secolo, che vede Stati come Regno Unito, Francia, Belgio, Italia e Germania stabilire colonie più o meno estese in tutto il continente. Da allora, per decenni l’Europa ha sfruttato le risorse naturali dell’Africa, controllato i suoi sistemi politici e imposto cambiamenti culturali, impattando profondamente sulla sua struttura socio-politica.

Oggi, però, il rapporto tra Africa ed Europa sta attraversando un cambiamento significativo, caratterizzato da un costante declino dell’influenza europea (e più in generale occidentale). Diversi fattori contribuiscono a questa trasformazione, dal mutare delle dinamiche di potere globali all’aumento del sentimento anticoloniale in Africa, dall’espansione di partnership alternative a quelle con i Paesi europei all’emergere di una leadership africana decisa a promuovere l’indipendenza economica. Infatti, nonostante la narrazione della stampa attribuisca il declino dell’influenza europea quasi solo alla forte presenza russa e soprattutto cinese, non va sottovalutato il ruolo della nuova generazione di leader e intellettuali africani, sempre più lontana – anche per ragioni generazionali – dal retaggio culturale delle colonie. In diversi Paesi dell’Africa occidentale e centrale, come Mali, Burkina Faso, Guinea e Ciad, la presenza europea è stata messa in forte discussione. I presìdi militari francesi, inizialmente accolti con favore dai governi della regione per combattere il terrorismo jihadista, sono diventati elemento di tensione, poiché le popolazioni locali li percepiscono sempre più come una perpetuazione del controllo coloniale. Questo sentimento si riflette in una generalizzata richiesta di rimpatrio delle truppe francesi, nel rifiuto della moneta post coloniale, ossia il franco CFA, e nello smantellamento delle istituzioni educative e culturali francesi.

Negli ultimi decenni, nuovi attori globali hanno fatto il loro ingresso nei panorami economici e politici dell’Africa, in particolare Cina e India, che si sono ormai affermate come importanti partner economici. Nel 2022 l’Asia è stata la destinazione del 32% dell’export africano mentre l’Europa ne ha assorbito solo il 23,5%. Cifre analoghe si riscontrano nell’import, il 32% proviene dall’Asia, il 23% dall’Europa. Si tratta di un sorpasso storico: per oltre due secoli tutti i principali partner economici dell’Africa sono stati Paesi europei; ancora trent’anni fa, il 50% circa degli scambi commerciali africani avveniva con l’Europa. L’approccio della Cina, caratterizzato da consistenti investimenti in infrastrutture, ha offerto ai governi africani opzioni di finanziamento senza l’imposizione delle condizioni tipiche degli aiuti europei. Altri Stati, come Turchia e Russia, stanno aumentando il loro coinvolgimento nel continente focalizzandosi sull’assistenza allo sviluppo nel caso turco, sulla sicurezza nel caso russo. Altro tassello nella ricerca di autonomia da parte dell’Africa è stata la ratifica del Trattato di Libero Commercio Continentale Africano (AfCFTA), che mira a creare un mercato unico in tutto il continente.

L’Europa fatica a adattarsi a queste nuove dinamiche. Per molti Paesi europei, le pratiche tradizionali di aiuto e commercio sono così radicate nei quadri di politica estera da rendere difficile la transizione verso un modello più equo e orientato alla partnership. Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha cercato di ridefinire il suo rapporto con l’Africa attraverso iniziative come il Partenariato UE-Africa, enfatizzando la cooperazione in materia di migrazione, sicurezza e sviluppo sostenibile. Questi sforzi, però, spesso sono visti con scetticismo dagli africani, che non li considerano sufficientemente discontinui rispetto dalle pratiche neocoloniali del passato. Di certo, mentre l’Africa ridefinisce la sua posizione sulla scena globale, anche la natura del suo rapporto con l’Europa è destinata a evolversi. Con ogni probabilità i Paesi europei rimarranno partner sia economici sia diplomatici, tuttavia dovranno passare da un approccio paternalistico a uno di autentica partnership se vorranno rimanere rilevanti. I concorrenti non mancano e sono già ben presenti sul campo. 

Una delle frasi fatte che ascoltiamo più spesso quando si parla dell’Europa comunitaria è quella che la descrive come eternamente “al bivio”. Ma tra quali possibilità? I punti di vista divergono sempre tra chi vorrebbe un rafforzamento delle istituzioni comuni, opzione che presuppone un maggiore trasferimento di sovranità a Bruxelles, e chi vorrebbe invece un recupero di sovranità da parte degli Stati su temi quali l’economia o le politiche ambientali, senza per questo chiedere lo smantellamento dell’Unione. A distanza di 67 anni dai Trattati di Roma, le due anime europee continuano a misurarsi senza mai approdare a una sintesi. L’anima che si ispira all’utopia di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli degli Stati Uniti d’Europa e l’anima nazionalista che è interessata solo ai vantaggi che l’Unione offre in quanto grande mercato interno. Per decenni quest’ultima posizione è stata apertamente sostenuta dal Regno Unito, ma in modo meno esplicito è stata condivisa anche dalle potenze continentali che hanno frapposto ostacoli a una reale trasformazione dell’UE da unione a federazione: soprattutto dopo i referendum franco-olandesi del 2005, responsabili dell’affossamento della Costituzione che avrebbe permesso la nascita di un “superstato”. Nel frattempo, l’Unione cresceva e l’aumento degli Stati membri ha allontanato sempre di più la possibilità di raggiungere l’unanimità necessaria per i passaggi cruciali.

Bisogna però ricordare che esiste già un meccanismo, quello della cooperazione rafforzata, che permetterebbe a un gruppo di Paesi europei di andare oltre i Trattati, ad esempio gestendo in comune la difesa e la politica estera. Ma sono temi molto sensibili. Per i 27 Stati mantenere il comando ciascuno del proprio esercito è sempre gratificante, per quanto il comando sia finto, essendo questi eserciti quasi tutti membri della Nato a trazione nordamericana. Parigi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha rimesso al centro la questione della difesa comune, ovviamente costruita attorno alla Francia in quanto unica potenza nucleare dell’Unione. Delle altre materie non si parla: cittadinanza comune, gestione dei flussi migratori, welfare, fiscalità. I grandi nodi che potrebbero fare la differenza tra la realtà ibrida attuale e uno Stato sovranazionale. Abbiamo l’euro, anche se solo per 20 Paesi, l’unica moneta nella storia che non viene coniata da uno Stato ma è gestita da una Banca Centrale che deve fare i conti con 20 ministri dell’economia e 20 debiti sovrani, e quindi con lo spread, un fenomeno impossibile da immaginare con qualsiasi altra moneta. Questa anomalia doveva essere solo temporanea, invece sta diventando permanente. Questo lento galleggiare è diventato pericoloso. Nelle campagne elettorali, comprese quelle per le elezioni europee, ormai si parla solo di questioni interne e cresce il disinteresse dei cittadini per un’Unione che sembra molto lontana, ma che in realtà ormai da anni condiziona la nostra vita quotidiana. Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, molte delle scelte fatte in campo ambientale, agricolo, economico e culturale sono state dettate dall’UE, che resta un bastione della democrazia e dei diritti a livello mondiale. Non esiste area al mondo dove gli indicatori economici, sociali e politici siano così alti. Ed è proprio questo punto che rende l’insipienza della politica europea un danno non solo per i cittadini comunitari ma anche per il resto dell’umanità. Manca drammaticamente sulla scena internazionale un protagonista con le caratteristiche dell’Unione. Diverso rispetto alle potenze governate da autoritarismi o totalitarismi quali la Russia, l’Iran o la Cina, ma anche diverso rispetto agli Stati Uniti dove la democrazia si sta rapidamente deteriorando ed è nato il “doppio standard” sui diritti in politica estera. Il vero bivio dell’Europa sta qui: deve scegliere se essere protagonista in positivo sulla scena mondiale oppure un semplice conglomerato per lo scambio di beni e servizi. Due posizioni diverse, entrambe rispettabili, sulle quali si spera che gli elettori diano un segnale chiaro. 

Nel V secolo dopo Cristo, dopo il passaggio dei Visigoti di Alarico nel cuore dell’Impero e il saccheggio di Roma, il potere imperiale cercò di riorganizzarsi negoziando e stringendo alleanze con i sovrani barbari. Nel frattempo, l’esercito che presidiava il limes con i popoli germanici si riempiva di soldati appartenenti a quelle stesse genti che premevano sul confine, intenzionate a entrare nell’impero e a vivere come i Romani.

Nel suo saggio I barbari, Alessandro Baricco spiega che l’Impero Celeste cinese aveva di fronte a sé due scelte per rispondere al pericolo rappresentato dai popoli delle steppe che premevano sulle frontiere occidentali: commerciare con loro e riconoscerli come interlocutori, ma a rischio di “contaminarsi”; oppure combatterli in campo aperto, fino a sconfiggerli. La Cina imperiale scelse invece una terza via: alzare una gigantesca muraglia che dividesse la civiltà dalla barbarie. Come è noto, la Grande Muraglia non riuscì a fermare l’avanzata dei Mongoli: già nel XIII secolo a Beijing si insediava il primo imperatore di quell’etnia, fondatore della dinastia Yuan.

Gli Stati Uniti, che nel corso dell’800 hanno quadruplicato il loro territorio, sono i diretti responsabili del malsviluppo di quello che considerano il loro “cortile di casa”: i Caraibi e l’America centrale. Proprio da queste regioni oggi proviene la maggior parte dei migranti che preme sulla frontiera meridionale degli USA. È paradossale che una potenza nata e cresciuta grazie al contributo della migrazione, anziché affrontare i problemi che da decenni causano la fuga di moltissimi cittadini da Haiti, Honduras, El Salvador e altri Stati vicini, nel 1993 abbia cominciato a costruire una gigantesca barriera fisica al confine con il Messico per bloccare i migranti: persone che Donald Trump ha dichiarato di considerare barbari a tutti gli effetti. Su questa linea, Washington ha trovato la collaborazione del governo messicano in cambio di aiuti economici.

L’Europa dei nostri tempi non qualifica ancora i migranti mediorientali e nordafricani come barbari, ma sta replicando una pagina di storia che credevamo lontana foraggiando dittatori più o meno conclamati affinché garantiscano il blocco delle partenze dei richiedenti asilo e dei migranti economici. Sette miliardi all’autocrate del Cairo al-Sisi, un miliardo a Kaïs Saïed, il presidente che sta spingendo la Tunisia fuori dalla democrazia, quasi un miliardo elargito negli ultimi anni dall’UE e dall’Italia ai governi fantoccio della Libia. E poi sei miliardi all’autocrate turco Erdoğan per ingabbiare i profughi riparati nel suo Paese, 200 milioni alla Mauritania per bloccare le partenze verso le Canarie, mezzo miliardo al Marocco per controllare le sue frontiere… Una montagna di soldi che finiscono con il sostenere regimi sotto accusa per gravi violazioni dei diritti umani e politici, e nel caso libico direttamente coinvolti nella gestione dei lager nei quali vengono rinchiusi migranti in transito.

Siamo di fronte a una versione mediterranea, “acquatica”, del muro statunitense e della Grande Muraglia cinese, con l’aggiunta del contributo che viene offerto ai sovrani barbari affinché proteggano il limes europeo da altri barbari. In tutti i casi questa politica è fallita, e già si può intuire che lo stesso accadrà con il muro americano e la fortezza mediterranea. Questo perché arroccarsi sulla difensiva anziché affrontare le cause dei problemi è da sempre una posizione perdente, e lo è anche oggi, che si tratti di migrazioni o di cambiamento climatico. Siamo di fronte a problemi ineludibili, che non basta la retorica a risolvere. Possiamo scrivere interi trattati sulla sostenibilità, ma il clima non cambierà se ci limitiamo alle parole e non passiamo ai fatti. Possiamo parlare dell’Europa come del faro della civiltà mondiale, rispettosa dei diritti delle persone, ma i fatti ci raccontano che questa è solo retorica, solo apparenza, perché nel frattempo si foraggiano autocrati che fanno il lavoro sporco per conto terzi. Alla fine, la retorica ambientale e la retorica umanitaria raccontano la stessa cosa: la politica globale che oggi va per la maggiore è nascondere la polvere sotto il tappeto, sperando che nessuno la veda.

L’Europa dei trattori ha ottenuto una grande vittoria: impedire per l’ennesima volta la firma dell’Accordo di libero scambio tra UE e Mercosur, il mercato comune sudamericano formato da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. È una storia di equivoci lunga 25 anni, quella delle trattative per l’accordo, sempre boicott­­ate dalla politica europea e, soprattutto, dalle pressioni esercitate dal mondo dell’agricoltura. Gli agricoltori europei, in particolare quelli francesi, totalmente contrari all’accordo con il Mercosur, non agiscono sulla base di motivazioni ideologiche o di preoccupazioni etiche, magari per la situazione dei diritti umani o per le questioni ambientali in Sudamerica. Più prosaicamente, temono che l’arrivo di derrate alimentari dai giganti agricoli Brasile e Argentina, senza più quote, dazi o restrizioni, metta fuori mercato alcune produzioni europee, quali grano e mais, diversi tipi di frutta, carne e pollame. Il notevole differenziale dei prezzi tra i due mondi agricoli, europeo e sudamericano, non nasce dal differenziale sul costo della manodopera, ma dal fatto che gli imprenditori agricoli d’oltreoceano possono fare economia di scala grazie a produzioni quantitativamente enormi e a una disponibilità di terre pressoché sconfinata.

Per la Francia, che esporta carne e grano nel resto dell’Europa, sarebbe una débâcle; ma per l’Italia, importatrice netta degli stessi prodotti, e per altri Paesi europei ci sarebbe un vantaggio economico. Il nodo resta quindi politico. Durante gli anni in cui il Brasile era guidato da Bolsonaro le trattative erano state interrotte, poiché dall’altra parte dell’Atlantico si stava mettendo a sacco l’Amazzonia per guadagnare nuova terra coltivabile. Ora che al governo c’è Lula, e che in un solo anno il Brasile ha dimezzato gli incendi boschivi, la pregiudiziale ambientale non avrebbe più ragione d’esistere. Tuttavia, è bastato il blocco di qualche strada europea perché la Commissione si affrettasse a dichiarare che l’accordo era sospeso per mancanza di garanzie ambientali. Nelle stesse ore, il gigante del caffè Illy spiegava alla stampa come l’entrata in vigore del Regolamento europeo sulla deforestazione sia destinato a bloccare l’import di materie prime da molti Paesi terzi. Si fa riferimento alla nuova normativa europea secondo la quale, per autorizzare l’import di alcuni prodotti agricoli tropicali, dal gennaio 2025 occorrerà non solo che quei prodotti siano coltivati nel rispetto dei diritti umani e delle normative di legge locali, ma anche che i terreni utilizzati non siano stati deforestati dopo il 2020. Una misura che sulla carta è sicuramente di buon senso, ma che risulterà di difficilissima applicazione in diversi Stati, a partire dall’Etiopia, che produce caffè di qualità superiore, per non parlare del resto dell’Africa e dell’Estremo Oriente. La differenza, rispetto alla situazione di concorrenzialità tra produttori che frena l’accordo UE-Mercosur, è che qui si tratta di prodotti che non possono essere coltivati in Europa.

L’UE si dibatte quindi tra il blocco dei negoziati con il Sudamerica, iniziativa esclusivamente politica e protezionista, e una regolamentazione “woke” che pretende di imporre al resto del mondo elevati standard etico-ambientali, richiedendo certificazioni oggettivamente difficili da ottenere in molti Paesi. Il punto di contatto tra queste due vicende è la sopravvivenza del bastione agricolo europeo, ultimo fortino protetto dell’Europa comunitaria. I processi di privatizzazione, le vendite a gruppi stranieri, le delocalizzazioni che hanno radicalmente trasformato l’industria e i servizi dell’Occidente, si sono fermati davanti a uno dei totem della storia recente dell’Europa: quello della sicurezza alimentare. Anche se antistorica e antieconomica, è ancora vivissima la pretesa di soddisfare internamente il proprio bisogno di alimenti investendo ingenti risorse pubbliche e alzando barriere protettive contro la concorrenza. Tutto ciò, anche se talvolta dettato da buone intenzioni e buoni sentimenti, finisce con l’essere un freno per la presenza europea nel mondo. Sempre più spesso ascoltiamo le lamentele dei nostri politici sull’accerchiamento economico messo in atto dalla Cina, che ormai è diventata il primo cliente e fornitore di Africa e America Latina: ma quale alternative hanno Paesi come Brasile, Costa d’Avorio o Vietnam, se per una ragione o per l’altra l’Europa continua a ostacolare il loro export? L’UE, che da decenni chiede in tutti i forum internazionali che si aprano i mercati del mondo, non intende aprire i propri a quelle importazioni che per molti Stati terzi sono l’unica vera risorsa e merce di scambio… Di logico qui c’è poco. Forse si tratta soltanto di un riflesso condizionato dalla memoria della fame, delle carestie e delle sofferenze che l’Europa ha sofferto in passato.

In Olanda, dalle urne è uscito vincitore il PVV di Geert Wilders, un partito presentato dai media internazionali come islamofobo. Wilders ha promesso di “restituire l’Olanda agli olandesi”, come se il Paese fosse stato invaso da una potenza straniera. La centralità attribuita a questo tema, che si inserisce nella logica della cosiddetta sostituzione etnica, racconta però molte altre cose. Le società europee si sono forgiate nei secoli attorno all’idea-forza dello Stato-nazione, nel quale esistono una cultura ufficiale, una religione e un gruppo etnico egemone, vero o falso che sia. Non esiste Paese con un passato coloniale che non consideri queste tre caratteristiche come essenziali e indiscutibili. Dalla Francia repubblicana che già nell’Ottocento “appianò” le diversità interne, alla Germania che fece tragicamente la sua pulizia etnica nel XX secolo. In Spagna, Paese che già ha sperimentato il nazionalismo franchista, ma che rimane un contenitore di diverse culture e nazionalità, oggi forti movimenti di estrema destra vorrebbero eliminare le autonomie e le lingue locali in nome dell’ispanità.

La paura del cosiddetto “pericolo islamico” è un fenomeno più recente, ed è collegata ai flussi migratori (che, per la verità, spesso sono iniziati per volontà degli stessi Paesi ricettori, nel secondo dopoguerra). Secondo gli imprenditori della paura che condizionano l’opinione pubblica, in Europa si starebbe formando una sorta di califfato, ostile alla storia e alla cultura dei Paesi ospitanti, che ambisce a conquistare il potere. In questa teoria si tralasciano molti elementi di realtà, a partire dal fatto che la religione musulmana è al tempo stesso minoritaria e fortemente resiliente: non ha bisogno di alimentarsi con flussi migratori né di diventare egemone per continuare a tramandarsi anche in contesti diversi da quelli d’origine. Soltanto nelle Americhe tra gli immigrati di religione islamica si è verificato un distanziamento culturale rispetto alle origini. In Europa, entrambi i principali modelli di gestione della società moderna post-coloniale, quello multiculturale britannico e quello assimilazionista francese, hanno fallito. Le cause non riguardano la religione. Per comprenderlo basta tornare sull’esempio americano: là esistono ampie possibilità di affermazione sociale per gli immigrati, mentre in Europa non solo i migranti ma anche le “seconde generazioni” sono spesso condannate ai ghetti urbani, ai lavori subalterni, a un’educazione di serie B, alle discriminazioni quotidiane, al fastidio per l’esibizione dei sentimenti e dei simboli religiosi. La “guerra del velo” che la Francia ha intrapreso a più tornate ha finito per produrre effetti contrari rispetto alle intenzioni. Pensata per eliminare le discriminazioni, è diventata invece fonte di discriminazione per chi, ovviamente in modo libero, sceglie un certo tipo di abbigliamento. È il frutto di quella stessa idea di superiorità dei propri valori che accompagnò, e giustificò, il colonialismo. La cultura europea era ritenuta superiore quando si colonizzavano l’Africa, l’Asia o l’Oceania, e oggi nelle nostre metropoli si predica una sola e indiscutibile concezione dei diritti e delle libertà.

I politici come Wilders sono molto abili nel sottolineare l’apparenza per non dovere affrontare la sostanza. Una sostanza che non è fatta di dispute teologiche, ma di cose concrete, come la possibilità di studiare in scuole di buon livello, di avere un lavoro decente, di non essere costretti a inviare, come in Francia, un curriculum vitae “cieco”, cioè senza nome, cognome e foto, per evitare discriminazioni nella ricerca di occupazione. Che poi la rabbia di chi è discriminato e relegato ai margini della società determini un ritorno alla religione, magari nelle sue forme più radicali, è solo una conseguenza, e non la questione centrale. Davanti al calo demografico generalizzato e all’invecchiamento della popolazione, da una parte l’Europa sa perfettamente che, senza ricorrere all’immigrazione, tra 10 o 20 anni non avrà futuro; dall’altra, gli europei stanno esercitando il diritto al voto come una clava. Ma, al di là delle polemiche, è solo una questione di tempo: non è facile, per chi è stato per secoli al centro del mondo, accettare l’idea che per poter mantenere lo status quo occorra chiedere aiuto proprio a quelle popolazioni a lungo denigrate.

Ormai quando si parla di colpi di Stato non si pensa più all’America Latina, ma all’Africa. Non che in passato l’Africa sia stata immune dai golpe, ma raramente i media si degnavano di prestare attenzione, perché i colpi di Stato avvenivano per ordine di qualche ex metropoli coloniale o tra regimi militari. Le statistiche ci dicono che da sempre esiste un “primato africano” in materia, con ben 214 colpi di Stato tentati tra il 1950 e il 2022, di cui 106 riusciti e 108 falliti, contro i 146 totali dell’America Latina. Sull’altra sponda dell’Atlantico, la maggior parte delle irruzioni al potere da parte dei militari era dovuta alle modalità di svolgimento della Guerra Fredda nel continente americano, che prevedeva l’eliminazione di qualsiasi esperienza politica anche moderatamente riformista. In Africa, anche se non sono mancati episodi ascrivibili alla Guerra Fredda, la maggior parte dei colpi di Stato nasceva da rivolte intestine all’esercito e, soprattutto, erano strumenti per insediare al potere politici favorevoli a Parigi o a Londra. Ma gli otto colpi di Stato che si sono verificati negli ultimi tre anni fanno capire che il golpismo africano sta cambiando natura. Anzitutto, la regione dove si sono concentrate le principali fratture della legalità democratica è il Sahel, la sponda sud del Sahara. Quel pezzo centrale della France-Afrique, cioè della comunità di ex colonie francesi legate ancora a doppio filo a Parigi, non solo per la moneta storicamente ancorata al franco, e ora all’euro, ma anche per la cooperazione internazionale, il commercio con l’estero, gli investimenti e la cultura. I militari hanno presso il potere in Mali, Burkina Faso e Niger sottolineando la loro distanza da Parigi. Ma storici alleati di Parigi sono stati spazzati via anche nell’Africa centrale francofona, in Gabon e Guinea.

Molto si è scritto sul ruolo giocato dai mercenari del Gruppo Wagner, che in qualche caso hanno davvero fornito assistenza militare ai golpisti. I motivi profondi di questa ondata golpista vanno però cercati nella fine di un modello: quello degli Stati indipendenti sulla carta, ma di fatto a sovranità limitata e ancora dipendenti dalle potenze ex coloniali. Un modello che non ha portato benefici economici alla popolazione e che ha soffocato la democrazia sostenendo dinastie di predoni, come il clan Bongo, al potere in Gabon per decenni. Quel modello ben si sposava con il dettato ideologico della Guerra Fredda, perché quei regimi erano lontani da Mosca, ma è entrato in crisi con lo sbarco in Africa della Cina e dei suoi comprimari russi e turchi. La presenza cinese ha spezzato lo storico monopolio economico e politico francese e, nella nuova situazione, per la prima volta i Paesi africani hanno avuto la possibilità di scegliere come posizionarsi.

Se a tutto ciò si aggiungono la debolezza dell’Europa e la presenza massiccia della Russia, attraverso le compagnie di mercenari, si comincia a comprendere il quadro generale. Nelle rivolte che hanno portato ai colpi di Stato civico-militari di questi mesi ci sono forti elementi anti-francesi, parole d’ordine storiche della lotta anticoloniale, richieste di democrazia e partecipazione. Sono soprattutto i giovani che stanno dicendo basta allo storico allineamento con un’Europa preoccupata soltanto di tamponare l’espansione dello jihadismo e di frenare le migrazioni: un programma valido solo per una delle parti in causa, l’Europa, che non è abituata alla contestazione delle sue politiche da parte degli africani. L’Africa chiede di più, molto di più. Sicurezza alimentare e ambientale, opportunità di impresa e di lavoro, libertà di parola e democrazia, istruzione e sanità. Che questi temi possano essere soddisfatti dai momentanei vincitori sino-russi è molto dubbio. Che la voglia di democrazia e partecipazione rischi di essere velocemente soffocata appare molto probabile. Ma va registrato che, almeno per una volta, Paesi modellati dal colonialismo europeo dicono basta, mandando un messaggio chiaro a tutti. L’Africa non è solo emergenza, non è solo un problema, è anche e soprattutto un’opportunità e una risorsa per chi la vuol cogliere. Una risorsa che però non deve essere più predata, ma coltivata e condivisa.